Ol­tre gli ste­reo­ti­pi

Editoriale – «Archi» 2/2020

Il 6 aprile esce «Archi» 2/2020, realizzato tutto dalle case dei redattori. Curato da Tomà Berlanda e Gabriele Neri, raccoglie Frammenti di Svizzera in Africa. Qui l'editoriale.

Data di pubblicazione
26-03-2020

«Perché siamo qui a rappresentare non quello che siamo o crediamo d’essere, ma quello che dovremmo essere in quanto bianchi (ricchi, potenti, moderni, compratori di tutto). E portiamo in giro questa rappresentazione come uno scafandro, ognuno nel suo scafandro che lo isola dal mondo esterno» (Gianni Celati, 1998).

 

«Archi» presenta in questo numero alcuni frammenti di un mosaico di interventi eterogenei il cui comune denominatore è quello di essere il risultato di iniziative elvetiche rivolte ai paesi africani. 

Vi è ovviamente la consapevolezza dell’impossibilità di affrontare in questa sede la complessità di un dibattito segnato dagli sviluppi vertiginosi della globalizzazione, dagli studi post-coloniali, dal superamento di categorie eurocentriche di analisi e dalla constatazione dell’esistenza di numerosi aspetti legati ai rapporti di potere tra queste due realtà, solo per elencare alcune delle tante questioni che questi progetti possono suscitare tra i lettori più accorti. Resta comunque la curiosità verso una pluralità di esperienze significative realizzate in diversi angoli dell’Africa, a dimostrazione del crescente interesse svizzero – istituzionale, accademico e professionale – per le potenzialità di tante realtà africane in continua trasformazione. Le previsioni segnalano d’altronde che l’Africa, oggi popolata da più di 1,2 miliardi di persone, diventerà entro il 2050 un polo geopolitico in grado di alterare gli equilibri/squilibri del pianeta. 

Berlanda – uno dei primi diplomati dell’Accademia di architettura di Mendrisio, che da un decennio vive e lavora a Città del Capo – accenna a figure significative provenienti dalla Svizzera che nel corso dell’ultimo secolo hanno partecipato a programmi di «modernizzazione» in Etiopia, Uganda, Senegal o Burkina Faso, progettando infrastrutture, sperimentando nuove tipologie, materiali e tecniche costruttive locali, nonché una libertà linguistica che ha contribuito a definire e divulgare in ambito internazionale i canoni della cosiddetta «architettura africana» contemporanea – per quanto questa omologazione possa ritenersi alquanto discutibile in un continente attraversato da oggettive diversità politiche, sociali e culturali. 

Nel suo testo emerge il ruolo attivo delle università elvetiche nello stabilire rapporti di interscambio «didattico-umanitari» e quindi nel determinare indirizzi di ricerca e iniziative di diversa portata nell’ambito della costruzione e della pianificazione: dai workshop (organizzati in Ticino dall’AAM-USI per il Mozambico o dalla SUPSI per l’Etiopia) a mostre, convegni e corsi dedicati a tematiche urbane, con programmi scientifici contraddistinti da forti legami con il mondo imprenditoriale che nel caso dell’Università di Basilea, dell’EPFL o dell’ETH hanno anche l’obiettivo di formare giovani ricercatori africani. Egitto, Kenya, Sudafrica, Marocco sono coinvolti – attraverso fondazioni delle stesse multinazionali che interagiscono con gli atenei – in progetti territoriali attenti, tra l’altro, alla sostenibilità ambientale. Un modo certamente efficace e sempre più articolato per interloquire con il mondo economico elvetico, ma anche per riflettere e confrontarsi con studiosi e professionisti africani, avvicinandosi concretamente alle esigenze di contesti specifici.

In questo senso, l’esperienza di urbanistica partecipata portata avanti da Urban-Think Tank a Città del Capo è un caso esemplare dell’impegno per individuare risposte adeguate alla crisi degli alloggi nelle township sudafricane, insediamenti informali marginali creati dalla politica segregazionista dell’apartheid. Un filone di ricerca progettuale innovativo a cui si aggiunge il caso di singoli studi di architettura – frutto della collaborazione tra architetti svizzeri e africani – dislocati nei diversi paesi in cui operano. Sono questi i primi tentativi volti a promuovere una strategia locale/globale impostata su relazioni reciproche meno squilibrate. 

Tornando invece al Ticino, il focus inedito di Neri sul modo in cui Tita Carloni si relaziona con il contesto angolano a metà degli anni Cinquanta e con quello della Guinea nel suo viaggio del 1979 permette di fare luce su un aspetto marginale della sua opera, documentando in che modo la nozione di appropriazione si manifesta nel suo vocabolario architettonico. 

Nelle prossime pagine si dispiega dunque una mappatura provvisoria, delineata da un osservatore situato al di qua del Mediterraneo, che cerca nel rapporto asimmetrico tra la Svizzera e lo sfaccettato continente africano un filo che organizzi il discorso. Un filo fragile e ambiguo ma denso di possibilità. Non a caso nel suo ultimo libro (Africa loro. Viaggio lungo un continente) La Cecla ci avverte che l’Africa è un luogo nuovo e stimolante per il nostro sguardo, ormai abituato ad accontentarsi di stereotipi.

In questo numero:

«Archi» 2/2020 può essere acquistato qui.

Etichette

Articoli correlati