Raf­for­za­re le co­mu­ni­tà del Su­da­fri­ca

Un progetto di urbanistica partecipata che lavora con gli abitanti delle townships sudafricane proponendo una riorganizzazione degli insediamenti: Alfredo Brillembourg di Urban Think-Tank racconta un lavoro che aiuta a migliorare la circolazione, aumentare sicurezza e accesso ai servizi di base e, soprattutto, mira al riconoscimento legale del «diritto a rimanere» delle comunità abusive.

Data di pubblicazione
01-04-2020

Negli ultimi venti anni il nostro lavoro di ricerca e progettazione ha riguardato principalmente interventi separati: sulle singole strutture, dalla palestra verticale agli alloggi collettivi; sul tessuto connettivo, con la funicolare Metro, e sui quartieri come Khayelitsha in Sudafrica. In tutto questo tempo, però, abbiamo continuato a pensare alle città, interrogandoci su ciò che l’urbanistica partecipata possa essere e significare nel XXI secolo.

Per noi la rigida separazione tra formale e informale, pianificato e ad hoc, ricchezza e povertà non ha alcun senso. Si tratta di distinzioni intrinsecamente instabili sotto il profilo politico, economico e geografico; l’emarginazione è un fenomeno sociale e fisico, una sorta di malattia del corpo civico. Il divario tra formale e informale ha almeno due cause principali. Una è organica: la città cresce verso l’esterno, come le increspature provocate da un sasso lanciato in uno stagno. E come le increspature, i quartieri che la circondano diventano sempre più deboli e meno coesi man mano che ci si allontana dal centro. L’altra causa segue la legge delle conseguenze non intenzionali: le infrastrutture, soprattutto i trasporti, creano barriere tra i ricchi e i poveri nell’interesse di migliorare il traffico veicolare. Anche lì dove i trasporti pubblici e i ponti pedonali consentono di attraversare strade a scorrimento veloce e viali a sei corsie, i quartieri rimangono comunque isolati gli uni dagli altri, impedendo alla gente di socializzare e condividere.

E dunque ci chiediamo: se le città così come le conosciamo non esistessero, cosa inventeremmo? E in quel caso cercheremmo una soluzione partecipata?

L’effetto della discordia

Ci sono voluti quasi cinquant’anni prima che il Sudafrica abolisse ufficialmente il regime dell’apartheid, anche se le politiche segregazioniste avevano dominato i rapporti tra bianchi e neri sin dall’arrivo dei primi colonizzatori bianchi. Nel 1990 fu rimosso il bando al Congresso nazionale africano (ANC) e Nelson Mandela fu scarcerato dopo ventisette anni di prigione. Dopo altri cinque anni di negoziati e politiche di transizione, ostacolati da violenze e sommosse, fu approvata una nuova costituzione che dava uguali diritti a tutti i sudafricani, per lo meno in teoria.

Tra i diritti sanciti dalla nuova costituzione figurava il diritto alla casa. Ma spesso ciò che viene dichiarato sulla carta viene attuato solo dopo anni e l’euforia del 1994 – l’anno in cui Nelson Mandela fu eletto presidente – non si tradusse in azione. Il nuovo governo varò diverse iniziative, tra cui l’istituzione di un Programma di ricostruzione e sviluppo (RDP) di edilizia popolare che aveva come obiettivo la costruzione di un milione di case a basso costo entro i primi cinque anni di attività. Qualche progresso, a dire il vero, è stato fatto: le politiche nazionali contro la crisi degli alloggi sono basate ­su variazioni del modello dell’RDP e dal 1994 a oggi sono ­state costruite circa due milioni e ottocentomila case. Tuttavia, esistono ancora duemilasettecento insediamenti in­formali in cui si stima che vivano sette milioni e mezzo di persone, distribuite in un milione e mezzo di nuclei familiari. In Sud­africa mancano più di due milioni e mezzo di case.

Dal 2004 l’agenda sociale del Sudafrica include interventi di miglioria nelle cosiddette township, gli insediamenti informali sorti nelle aree urbane riservate alla popolazione non bianca che solitamente si trovano alla periferia delle città. Per affrontare il problema abbiamo deciso di condurre ricerche sull’edilizia popolare e gli insediamenti informali nel contesto di cambiamenti e sconvolgimenti sociali, politici ed economici e in base a queste ideare e realizzare soluzioni prototipo. Ogni nostra nuova proposta è frutto degli studi e dei progetti – riusciti e non – realizzati in oltre un decennio di esperienza. Lo stesso è accaduto in Sudafrica.

Alloggi informali: il blocking-out, la partecipazione di base e avanzata

Nel 2012 abbiamo pensato di rappresentare graficamente le township e creare immagini provocatorie che potessero servire da sprone a tutti coloro che erano interessati ad abbracciare la nostra causa. Nell’ambito della nostra ricerca, accompagnati da Andy Bolnick di Ikhayalami, abbiamo dedicato alcuni giorni all’incontro con i residenti e i leader della comunità della township di Philippi. In quel momento Bolnick si stava occupando di un intervento di ricostruzione in una piccola area della township chiamata Sheffield Road che era stata devastata da un incendio. I lavori avvenivano seguendo lo schema definito blocking-out.

Con l’espressione blocking-out si descrive un processo di progettazione e realizzazione di cui la Ong Ikhayalami e Slum Dwellers International sono stati i pionieri. Tutte le fasi del processo – identificazione del bisogno, progettazione e realizzazione – sono guidate dalle comunità e dalle reti organizzate dei poveri urbani, sostenute dalle Ong e in collaborazione con lo Stato.

Il processo implica la riconfigurazione dell’organizzazione spaziale di un insediamento informale nel senso di una sua razionalizzazione, in modo da consentire la creazione di percorsi demarcati o strade, di spazi pubblici o semipubblici e di accessi ai servizi d’emergenza. Tutto ciò facilita la creazione di infrastrutture e si traduce in un miglioramento della circolazione, un aumento della sicurezza, un maggiore accesso ai servizi di base e, soprattutto, nel riconoscimento legale del «diritto a rimanere» delle comunità abusive. Riconosciuto come best practice dal governo sudafricano, l’approccio è stato sostenuto e appoggiato da migliaia di abitanti di baracche collegati all’Informal Settlement Network.

Nella sua messa in atto, il blocking-out consiste nella demolizione fisica di singole baracche che vengono poi sostituite da modelli avanzati o riassemblate secondo lo schema urbano migliorato e approvato. I residenti che optano per una baracca di nuovo modello possono scegliere tra una serie di prototipi proposti da Ikhayalami a seconda delle loro disponibilità finanziarie. È importante sottolineare che le baracche vengono demolite e sostituite o ricostruite in situ in un solo giorno, il che rappresenta un forte incentivo per i residenti che altrimenti rimarrebbero senza casa durante la costruzione del nuovo alloggio.

Il finanziamento è un elemento critico di qualsiasi riqualificazione e spesso diventa un ostacolo. Il blocking-out viene solitamente utilizzato nelle comunità più coese e organizzate, idealmente quelle in cui sono già attivi i piani di risparmio collegati alla Federation of the Urban Poor. Tali programmi permettono ai residenti di iniziare a risparmiare per coprire il 20% dei costi necessari per l’ammodernamento della loro baracca; il resto è finanziato da donazioni di beneficienza. Noi abbiamo quindi pensato di progettare un’unità abitativa compatibile con il blocking-out: un alloggio a due piani, anziché uno solo, possibilmente realizzato con tecniche strutturali e materiali nuovi che permetta ai residenti di avere un’abitazione più funzionale e sicura.

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Empower Shack Housing Project South Africa

 

Concetto e progetto: Urban-Think Tank, Alfredo Brillembourg, Hubert Klumpner
Direttore di progetto: Alfredo Brillembourg
Collaboratori: Design Space Africa e Scott Lloyd + Michele de Villiers for ETHZ Brillembourg & Klumpner Chair of Architecture
Committenza: Andy Bolnick, Ben Nkuna, Ikhayalami development services ong, Cape Town
Ingegneri: John Hulme, Danie de Wet, De Villiers & Hulme, Cape Town
Economista: Arturo Brillembourg, Washington D.C.