Il cal­cestruz­zo

Materia e superficie come aristocratici palinsesti

Una piccola storia del «conglomerato cementizio armato» e delle sue interpretazioni: dalla genesi del nome ai suoi sviluppi tecnici, sulla scia di scoperte e sperimentazioni. Il percorso di un materiale che si credeva eterno ma eterno non è, e che anzi stimola architetti e ingegneri a progettare immaginandone le trasformazioni nel tempo.

Publikationsdatum
17-06-2020
Alberto Bologna
Architetto PhD, ricercatore DiAP – Sapienza Università di Roma

«Il cemento armato è il più bel sistema costruttivo che la umanità abbia saputo trovare fino ad oggi. Il fatto di poter creare pietre fuse, di qualunque forma, superiori alle naturali poiché capaci di resistere a tensione, ha in sé qualche cosa di magico»:1 è con queste parole che Pier Luigi Nervi nel 1945, all’interno del suo libro Scienza o arte del costruire?, definisce il conglomerato cementizio armato, comunemente chiamato nell’ambito della cultura progettuale italiana dell’epoca «cemento armato», una definizione destinata a persistere nel tempo nonostante la sua chiara inadeguatezza terminologica rispetto alla sua reale essenza materica.2 Infatti, com’è noto, il conglomerato cementizio, altrimenti detto calcestruzzo, è l’esito di una miscela di componenti quali, essenzialmente, il cemento (che ha il ruolo di legante), sabbia e ghiaia (l’aggregato) e acqua.3 A seconda delle esigenze imposte dalla singola necessità progettuale, vengono aggiunti specifici additivi, pigmenti o sostanze minerali in grado di perfezionarne le caratteristiche chimiche e fisiche, nonché le prestazioni meccaniche e le implicazioni superficiali. Naturalmente predisposto per una resistenza a compressione, quando rinforzato con armature metalliche, o di altra natura, è in grado di sopportare sforzi di tensione.

La sua volubilità agli effetti del tempo è insita all’interno degli stessi elementi che ne decretano le caratteristiche di robustezza, ovvero l’eterogeneità delle varie componenti e il loro processo di aggregazione nel corso della miscelazione e messa in opera. Una volta indurito, infatti, il calcestruzzo può presentare pori, microfessure e vuoti che si creano nella pasta di cemento, nell’aggregato e nell’interfaccia tra pasta di cemento e aggregato. Il livello di gravità di questi difetti sancisce l’effettiva resistenza meccanica del composto e il suo comportamento nel tempo: questa dipende, oltretutto, dal dosaggio del cemento, dal rapporto acqua/cemento, dal tipo e dalla quantità d’aggregato, dalla qualità e quantità dell’additivo utilizzato, dalla lavorabilità, dal metodo di compattazione e dalle modalità di stagionatura.4

Le parole di Nervi ricalcano quelle di un altro illustre pioniere nell’impiego di questo materiale, Arturo Danusso, che già nel 1928 ritiene che il «calcestruzzo armato» sia «l’applicazione più efficiente, ricca di sviluppi, più geniale nei principi, la più aristocratica in una parola che sia stata pensata ed attuata, fra quelle che fanno capo al cemento».5

Danusso, all’interno dei suoi progetti, declinerà un’estetica del calcestruzzo armato esclusivamente attraverso una forma strutturale capace di amplificare i tratti compositivi imposti dal progetto architettonico (casi eclatanti sono, in tal senso, le strutture per la Torre Velasca o per il Grattacielo Pirelli o per la Torre Galfa di Milano) con strutture calcolate e concepite a seguito delle sue ricerche teoriche inerenti alla progressiva definizione degli aspetti legati al comportamento statico e dinamico del materiale; per contro Nervi, anche grazie alla collaborazione professionale instaurata con architetti quali Lina Bo Bardi, Gio Ponti, Marcel Breuer, Bernard Zehrfuss, Alberto Camenzind, Harry Seidler e, non ultimo, suo figlio Antonio, nell’arco di meno di un trentennio prenderà chiara coscienza di come la «pietra fusa» potesse avere applicazioni in grado di andare al di là del suo dar forma a un «sistema costruttivo» per il getto di ossature strutturali, ma potesse avere anche forti implicazioni architettoniche e ornamentali grazie alla trama superficiale impressa per mezzo dell’impiego di diverse tipologie di cassaforma.

Nervi si rivela così uno dei pionieri di un impiego del calcestruzzo in chiave spaziale, ovvero si dimostra in grado di saperlo sfruttare sia per le sue proprietà di creare peculiari forme strutturali sia per quelle di creare superfici, entrambe in grado di reagire con la luce naturale o artificiale e generare, in tal modo, qualità architettonica.

«Ecco allora che la superficie diventa un aristocratico palinsesto capace di manifestare tanto il processo di costruzione quanto, nel bene e nel male, gli effetti del tempo»

Come dimostrano oggigiorno i grandi problemi statici che investono edifici e infrastrutture in calcestruzzo armato concepiti nell’arco della fase pioneristica del suo impiego, questioni divenute di dominio pubblico a seguito dell’eco mondiale che ha avuto il collasso avvenuto il 14 agosto 2018 del viadotto sul torrente Polcevera a Genova realizzato tra il 1963 e il 1967 su progetto di Riccardo Morandi, la durabilità del calcestruzzo è stata ritenuta per lunghi anni una tematica quasi esclusivamente a carattere teorico-scientifico, a fronte di una più evidente capacità di «creare pietre fuse» ritenute, comunemente e inconsapevolmente, eterne. Lo stesso Nervi è convinto della «indeteriorabilità agli agenti atmosferici»6 del calcestruzzo, pertanto nell’identificare le problematicità derivate dall’impiego di questo materiale sembra trascurare questo aspetto, intravedendo tuttavia nella «sua grande sensibilità termica, alla variabilità di volume o ritiro durante la maturazione all’aria libera, e soprattutto alla sua plasticizzabilità sotto carico e nel tempo»7 le maggiori variabili difficili da controllare in fase di progettazione, asserendo che «il conglomerato, è tanto variabile e mutevole quanto possono esserlo gli individui di una stessa specie vivente».8 La mutevolezza del calcestruzzo di cui parla Nervi si pone quindi più come di natura statico-strutturale rispetto alla sua messa in opera, piuttosto che legata alla durevolezza nel tempo. La questione è stata chiara, in via teorica, sin dagli albori dell’applicazione di questa tecnologia: ad esempio, già nel 1908 Fritz von Emperger, il direttore della autorevole rivista tecnica tedesca «Beton und Eisen», individuava varie cause in grado di compromettere la durata del calcestruzzo quali, in primis, i difetti di progettazione di casseforme e armature, errori di dosaggio dei vari componenti del calcestruzzo e il danno provocato dall’arrugginimento delle barre d’armatura e la conseguente disgregazione del copriferro.9

È proprio nella mutevolezza sottolineata da Nervi, dovuta all’eterogeneità degli elementi che compongono il «cemento armato», che risiedono le problematiche di natura strutturale e di alterazione superficiale dimostrata, negli anni, dai calcestruzzi. Si tratta proprio di quelle «nascoste deficienze e specifiche caratteristiche che rendono quanto mai ardua, se non impossibile, la esatta previsione del comportamento di una struttura in cemento armato»10 che portano al progressivo degrado del materiale. Un degrado cui eminenti tecnici e progettisti hanno cercato di far fronte sin dalle fasi pioneristiche di questa tecnologia attraverso il perseguimento di una meticolosa messa in opera dell’impasto cementizio. Nella prima metà del Novecento sono stati Eugéne Freyssinet in Francia e Luigi Santarella in Italia a porsi, ad esempio, come i pionieri della vibrazione, operazione che si dimostra essenziale per l’ottenimento di una compattezza in grado d’influenzare tanto la resistenza, quanto la durabilità del getto.11

La capillare diffusione del calcestruzzo nell’arco del Novecento, lo ha reso il materiale da costruzione più diffuso al mondo per l’economicità della sua produzione e della sua messa in opera, considerando che per il getto di ordinarie strutture non sono richiesti particolari specialismi ed è normalmente possibile ricorrere a una manodopera a basso costo.12 Parallelamente, la cultura progettuale novecentesca lo trasforma da materiale informe attraverso il quale ottenere un sistema costruttivo a vera e propria materia viva adatta per la creazione di superfici con finalità prettamente ornamentali. Progettisti da tutto il mondo prendono così coscienza delle potenziali valenze estetiche di un materiale nato invece per essere considerato grigia e anonima «liquida melma», secondo la definizione datagli negli anni Trenta dal critico italiano Ugo Ojetti;13 grazie anche ai progressi dell’industria chimica e cementiera e ai produttori di casseforme, il calcestruzzo viene trasformato dagli architetti, sia sotto l’aspetto ideologico che materiale, in prezioso tessuto capace di plasmare superfici e generare qualità spaziale agli ambienti che racchiude. Come ha illustrato Adrian Forty nel suo Concrete and culture, nonostante questo processo raffinato di ricerca compositiva, formale e ornamentale, ad oggi il calcestruzzo non è ancora stato sdoganato da una sua generalizzata visione negativa da parte dell’opinione pubblica, per il suo essere costantemente associato con la scarsa qualità architettonica che caratterizza molti scenari periurbani o periferici e, in tempi più recenti, con una maniera di costruire non sostenibile e non rispettosa nei confronti dell’ambiente.14 Le superfici in calcestruzzo faccia a vista deteriorate o, peggio, il tragico collasso di strutture contribuiscono ancora inesorabilmente ad alimentare questa percezione.15

Anche alla luce di questa consapevolezza, il controllo del difetto costruttivo causato, normalmente, tanto dalla incostanza e mutevolezza nel tempo del conglomerato quanto dalla sua messa in opera è così diventato oggetto di ricerca progettuale da parte degli architetti capaci di trasformare in istanze compositive e ornamentali questioni esecutive altrimenti destinate a deturpare l’opera finita. Ecco allora che la superficie diventa, in tal modo, un aristocratico palinsesto capace di manifestare tanto il processo di costruzione quanto, nel bene e nel male, gli effetti del tempo.

La produzione architettonica contemporanea ci pone così di fronte a un impiego del calcestruzzo da parte di progettisti da tutto il mondo ascrivibile a una sorta di feticismo nei confronti della superficie. A seconda delle geografie in cui si opera, il calcestruzzo faccia a vista è praticato in diverse forme: da un suo impiego attraverso elementi strutturali o di finitura prefabbricati che garantiscono, pressoché ovunque, un controllo sugli esiti superficiali dato dai processi di industrializzazione adottati per la loro produzione, all’ambizione di perseguire una superficie il più possibile neutra attraverso metodi di fabbricazione del composto e della cassaforma che garantiscano superfici lisce e polite, sino all’accettazione ed esaltazione dei difetti superficiali che decretano una continuità spazio-temporale al fenomeno del cosiddetto brutalismo, dal Sudamerica all’Asia.

La relazione con il tempo diventa così il principale tema progettuale individuato tanto nel caso di azioni di recupero operate su superfici e strutture esistenti quanto nella concezione di nuovi organismi architettonici.

Nell’ambito del restauro, o ripristino, del calcestruzzo si possono dunque distinguere due diverse attitudini progettuali derivanti da due tipi di necessità tra loro molto diverse: la prima è di carattere tecnico ed è inerente alla messa in sicurezza e alla riparazione di componenti strutturali ammalorate che potrebbero causare il collasso degli organismi architettonici o infrastrutturali entro cui sono inseriti. La seconda riguarda specifiche azioni sulle superfici che, negli anni, possono avere progressivamente perduto la loro componente ornamentale, attraverso l’alterazione della colorazione o della grana superficiale a causa dell’azione esercitata dal tempo o, più in particolare, dagli agenti atmosferici. Se si pensa alla generalizzata problematica legata alla disgregazione del copriferro, ci si rende conto come le due istanze si ritrovino spesso inesorabilmente connesse.

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Note

  1. P.L. Nervi, Scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, CittàStudi Edizioni, Novara 2014 (nuova edizione a cura di G. Neri, I edizione: Edizioni La Bussola, Roma 1945), p. 77.
  2. Sullo sviluppo dell’impiego di questo materiale nel contesto costruttivo italiano, si veda: T. Iori, Il cemento armato in Italia. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Edilstampa, Roma 2001.
  3. «Con il termine calcestruzzo s’intende un conglomerato cementizio formato da sabbia, ghiaia o pietrisco tenuto insieme da un legante idraulico unito ad acqua», A. Negro, J.-M. Tulliani, L. Montanaro, Scienza e tecnologia dei materiali, Celid, Torino 2001, p. 81.
  4. Ibid., p. 100.
  5. A. Danusso, Il calcestruzzo armato (1928), in A. Pizzigoni, V. Sumini (a cura di), Arturo Danusso. Spiritualità e conoscenza nel lavoro dell’ingegnere. Scritti civili e rari, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2014, pp. 85-93  (p. 85). Lo scritto fu originariamente pubblicato in «L’Industria Italiana del Cemento», 1928, n. 1.
  6. P.L. Nervi, Scienza o arte del costruire?, cit., p. 78.
  7. Ibid., p. 78: l’espressione «nel tempo» è stata aggiunta in una versione riveduta del testo originario, pubblicato da Nervi in Costruire correttamente. Caratteristiche e possibilità delle strutture cementizie armate, Hoepli, Milano 1955, p. 25.
  8. P.L. Nervi, Scienza o arte del costruire?, cit., p. 80.
  9. Carolina Di Biase, Il culto dei monumenti moderni e il valore della conoscenza, «Quaderni di Ananke. La conservazione del calcestruzzo armato nell’architettura moderna e contemporanea. Monumenti a confronto», 2020, n. 2, pp. 41-50 (p. 46).
  10. P.L. Nervi, Scienza o arte del costruire?, cit., p. 78.
  11. Scrive Santarella: «L’ing. Freyssinet, il noto costruttore del più importante ponte in cemento armato, il ponte di Plougastel, convinto fautore della necessità della vibrazione per realizzare la più efficace resistenza del getto, è stato il primo ad eseguire prove sistematiche della vibrazione, facendo vibrare la massa con martelli pneumatici applicati ai casseri», L. Santarella, La vibrazione del calcestruzzo di cemento. Tecnica e risultati sperimentali, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1932, p. 6.
  12. V. Smil, Making the modern world. Materials and dematerialization, John Wiley & Sons, Chichester 2014, pp. 52-57.
  13. U. Ojetti, Discorso di S.E. Ugo Ojetti per inaugurare la scuola fiorentina di architettura, «Annuario della Regia Scuola Superiore di Architettura, 1931-1932», Firenze 1933, pp. 15-23 (p. 19).
  14. A. Forty, Concrete and culture. A material history, Reaktion Books, London 2012.
  15. Su questo tema si veda anche: C. Andriani, Introduction / Introduzione, in C. Andriani (a cura di), Future concrete. A material in the making / Cemento futuro. Una materia in divenire, Skira, Milano 2016, p. 15.

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