«La di­men­sio­ne spa­zia­le ha sem­pre fat­to par­te del­la me­di­ci­na»

I provvedimenti legati all’epidemia di Covid-19 non sono una novità. Secondo lo storico della medicina Vincent Barras, se le questioni igienico-sanitarie hanno influenzato le emergenti teorie urbanistiche, la dimensione spaziale delle epidemie e delle malattie in generale ha sempre fatto parte della medicina.

Data di pubblicazione
14-05-2020

Espazium – Sembrano esserci due possibili risposte alle malattie: la chimica (farmaci, vaccini) e lo spazio (quarantena, confinamento). Nel caso del Covid-19 sembrerebbe che, in assenza di una cura, si sia dovuta privilegiare la seconda.
Vincent Barras – In realtà vi sono tre grandi ambiti per contrastare la malattia. La medicina moderna si basa tuttora su questa tradizionale tripartizione che esiste sin dall’antichità: la chirurgia e le manipolazioni (vale a dire qualsiasi tipo di contatto o azione tramite le mani), la farmacologia (i farmaci, dal greco pharmakon, rimedio e veleno al contempo, vale a dire l’insieme degli interventi in campo biochimico che incidono sulla costituzione interna dell’organismo) e infine il cosiddetto regime. Quest’ultimo non si limita semplicemente all’alimentazione ma riguarda tutto l’ambiente circostante, quindi anche l’aria che respiriamo, il clima, il territorio che occupiamo e, per usare termini contemporanei, i vari interventi di sanità pubblica.
Tradizionalmente, i medici attingono a questi tre ambiti principali per trattare tutte le malattie, siano esse genetiche, croniche, acute o epidemiche. Anche queste ultime, quindi, possono essere analizzate in base a una prospettiva tripartita.

Questi tre ambiti corrispondono a tre spazi, o piuttosto a tre scale spaziali.
È proprio così. Il paesaggio circostante rappresenta di per sé un elemento dell’evento terapeutico: per curare la tubercolosi, ad esempio, i sanatori venivano costruiti preferibilmente in montagna, come a Leysin, piuttosto che sul fondovalle. Ciò permetteva non solo di beneficiare dell’aria pura e della luce del sole: anche il luogo esercitava un impatto psicologico non indifferente.
L’ambito "chirurgico" in senso lato è quello della manipolazione, dello spazio di contatto tra il corpo del paziente e quello del medico curante. Nell’attuale crisi, che minaccia i polmoni delle persone colpite, questo può comprendere strumenti come il ventilatore polmonare, dispositivo che collega lo spazio interno del paziente con l’esterno; ed è su questo collegamento che il personale curante agisce.
Infine, anche la farmacologia è in fondo nel suo complesso una questione di spazio, seppure su scala ridotta: quella dell’organismo e delle sostanze con cui viene a contatto, del farmaco che lo tocca nel più intimo della sua costituzione.
Si può quindi affermare che, storicamente, ogni malattia è stata trattata secondo una combinazione o un’articolazione di questi tre ambiti: le terapie legate allo spazio dei sanatori (cure d’aria, di sole e di riposo sul balcone) erano ad esempio somministrate contemporaneamente ad altri trattamenti chirurgici (come il pneumotorace artificiale), nutrizionali (dieta fortificata) e farmacologici (siero antitubercolare, fortificanti e, dalla fine degli anni Quaranta, antibiotici antitubercolari). In generale, quindi, tutti i trattamenti fanno capo a una sorta di articolazione spaziale e temporale. Studiare la storia dei trattamenti significa pertanto anche osservare l’evoluzione e la modulazione di queste risposte nel corso del tempo.

In questo contesto, dovremmo parlare di un’epidemia o piuttosto di una crisi sanitaria, ovvero della mancanza di risorse in uno dei tre ambiti da lei descritti?
Interrogarsi su questa distinzione è utile. Innanzitutto, credo che dovremmo ridefinire le categorie, o perlomeno distinguere nel linguaggio i diversi tipi di epidemie. Il termine epidemia è di per sé vago, molto antico, consumato dall’uso e molto inglobante (viene utilizzato sia per il sovrappeso che per l’influenza). Letteralmente significa 'che è nel popolo' (epi-dèmos), vale a dire che numerose persone in un determinato territorio vengono affette contemporaneamente da una malattia. Ma va considerato un ulteriore fattore, la dimensione temporale, e quindi il movimento dei vari "attori" coinvolti: i corpi, gli agenti contagiosi, i mezzi di trasporto (battelli, aerei ecc.), gli strumenti tecnici di prevenzione o di cura. In questo modo si potrebbe distinguere, a seconda della capacità dei sistemi sanitari, un primo tipo di epidemia in cui il sistema sanitario è in grado di assorbire e di trattare adeguatamente e in tempi brevi le persone colpite. Un altro tipo sarebbe quello in cui il sistema è in grado di assorbire le persone colpite ma solo a lungo termine – come nel caso dell’AIDS, che ha causato decine di milioni di morti in pochi decenni: in tali situazioni il confine con la nozione di «endemia» diventa poroso.

Nel caso del Covid-19, ci troviamo attualmente di fronte a un’incertezza. Si è certamente capito molto rapidamente che alcuni sistemi sanitari sarebbero stati sopraffatti dall’emergenza: i paesi che soffrono di più nell’immediato sono quelli che non dispongono di un’attrezzatura tecnica adeguata per trattare i casi gravi. Sono stati adottati provvedimenti a posteriori, tenendo conto del numero di respiratori e di posti disponibili nelle unità di cure intense in un periodo di tempo molto breve. Ma il passo successivo, considerate le innumerevoli variabili in gioco (demografiche, biologiche, culturali e sociali), risulta molto più difficile da definire: nessuno è davvero in grado di prevederlo.

Tuttavia, sembra che le risposte alla crisi Covid-19 siano state specificamente orientate alla grande scala.
Non solo. Mi riferisco ancora una volta alla storia: non sappiamo molto bene che cosa accadde nell’antichità, ma le misure messe in atto nel Medioevo per combattere la peste – un equivalente, in termini di ondate epidemiche ricorrenti, dell’influenza di oggi – sono ben documentate in Occidente. A partire da quest’epoca, per contrastare le malattie vengono adottati provvedimenti di ridimensionamento architettonico su varia scala, da quella mondiale alla sfera domestica: divieti di viaggio, quarantene, isolamento, confinamento ecc. Già prima dell’avvento del "biopotere" illustrato da Foucault, la politica assume sempre più spesso il ruolo di agente regolatore, affidandosi alla medicina se necessario. Che si tratti di Filippo VI o di Emmanuel Macron, il sovrano che decreta l’obbligo della "distanza sociale" esercita un potere che si articola nelle direttive emanate dai medici.
Nel 2020, il mondo sembra scoprire queste misure. Ma in realtà sono sempre esistite. Motivate da logiche a volte molto diverse, esse fanno parte della nostra condizione a livello individuale, sociale e politico. Per l’influenza di Hong Kong del 1968 o la SARS all’inizio di questo secolo non sono state applicate in modo drastico come oggi, ma tutte queste misure esistono da molto tempo ormai: stanze isolate, spazi riservati e così via. Si tratta semplicemente di variazioni di principi stabiliti già nel Medioevo.

Cosa dovrebbero ricordare gli architetti e gli urbanisti?
I professionisti possono persuadersi che queste questioni fanno parte della storia della medicina da molto tempo, sono intrinseche allo sviluppo stesso della disciplina, dell’arte e della scienza del corpo umano e delle sue insidie. Si è un po’ dimenticato come architetti e medici abbiano discusso insieme molti aspetti comuni ad entrambe le professioni: materiali, balconi, finestre, luce, spazio. La lettura della tesi di Dave Lüthi Le compas & le bistouri, sull’intensa collaborazione tra medici e architetti nei secoli XVII-XX, ci fa capire che questa interazione è stata molto stretta e importante.1

Cosa la colpisce in particolare dell’attuale epidemia?
Noto che diversi elementi storici si ripetono da un paese all’altro con regolarità e ricorrenza: il passaggio agli spazi virtuali, il tracciamento di casi, modulati e combinati, soggetti a variazioni locali che finiscono per mostrare situazioni con volti molto diversi da un paese all’altro. Tuttavia, si tratta sempre di un’articolazione differenziata di tre dimensioni molto antiche dell’azione medica.

Una delle grandi novità, a mio parere, risiede essenzialmente nel modo in cui l’informazione si diffonde e le decisioni politiche vengono adottate. È impressionante osservare la rapidità con cui si stanno attuando le misure rispetto alle epidemie del passato. Nel 1918, durante l’“influenza spagnola”, i paesi in guerra non potevano ammettere la loro debolezza, per cui la diffusione delle informazioni fu molto lenta, a differenza dell’epidemia che si espandeva a tutta velocità. Risulta evidente che i fattori di cambiamento nel modo in cui le pandemie vengono comprese, analizzate e affrontate dipende in larga misura dalla politica.

Alcuni commentatori si sono affrettati a stabilire un collegamento tra la densità urbana e la diffusione della malattia. Qual è la sua opinione in merito?
Ci sono molti controesempi: New York è stata gravemente colpita, Hong Kong però no. La mia risposta – critica – è quella di uno storico. Le piaghe del Medioevo non si sono sempre propagate in zone densamente popolate: tra le città di Losanna e Ginevra, ad esempio, all’epoca non vivevano molte persone, ma l’assenza di agglomerati umani non ha impedito all’agente causale (un batterio di cui allora si ignorava l’esistenza) di diffondersi in tutta la regione. L’attuale pandemia sembra invece causata dall’accelerazione degli spostamenti e dei trasporti. L’"influenza spagnola", come si è saputo in seguito, fu provocata da un virus estremamente contagioso; la sua diffusione a livello mondiale seguì il ritmo dei trasporti dell’epoca. Bastò una sola nave proveniente dalla Gran Bretagna per propagare la malattia e devastare l’intera Africa occidentale in pochi giorni.

Si parla molto di misure da adottare sul piano urbanistico e architettonico. Pensa che le città potrebbero svilupparsi in modo diverso a seguito di questa epidemia?
Al momento le opinioni abbondano: un chiaro segno che sappiamo troppo poco per fare delle previsioni fondate.

Bisogna diffidare delle spiegazioni semplicistiche. L’equilibrio estremamente complesso tra epidemia, corpi umani in un determinato spazio e tempo, contesto botanico e geologico, relazioni tra esseri umani e animali, sembra essere un fattore determinante. A questo stadio, quindi, non è possibile concludere che architetti e urbanisti in futuro si troveranno ad allargare marciapiedi…

 

Note

  1. Dave Lüthi, Le compas & le bistouri. Architectures de la médecine et du tourisme curatif, l'exemple vaudois (1760-1940), Bibliothèque d'histoire de la médecine et de la santé, Lausanne 2013.

 

Intervista realizzata il 4 maggio 2020; traduzione di Sofia Snozzi

Vincent Barras è professore ordinario e storico della medicina. Dirige l’Istituto di scienze umane della medicina (IHM) che fa capo al Centro ospedaliero universitario vodese CHUV e alla Facoltà di biologia e medicina dell’Università di Losanna UNIL.

La cultura della costruzione di fronte all'emergenza Covid-19 – La parola ai professionisti

 

La crisi sanitaria ed economica che stiamo attraversando sta colpendo tutti i settori professionali, tra cui anche l'edilizia. Per valutarne l'impatto sulla cultura della costruzione, Espazium dà la parola ai professionisti del settore affinché testimonino di come hanno riorganizzato il proprio lavoro, di quali difficoltà abbiano incontrato e – poiché ogni crisi rivela i punti di forza ma anche le debolezze di un sistema – condividano con noi i loro pensieri sulla propria professione. Per non dimenticare, e nella speranza che queste testimonianze ci aiutino a riflettere così che, una volta sconfitto il virus, non tutto torni com'era prima.

 

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