Dei se­pol­cri

Conversazione con Fulvio Irace, docente di Storia dell'architettura contemporanea all'AAM e professore di Storia dell'Architettura al Politecnico di Milano.

Data di pubblicazione
15-10-2013
Revision
12-10-2015
Laura Ceriolo
Architetto, dottore di ricerca in storia delle Scienze e Tecniche Costruttive

Laura Ceriolo: La necessità e l’ineluttabilità della morte sono scritte e sancite da alcuni e rifiutate da altri. Ora più che mai alla celebrazione della morte si oppone la negazione della stessa, tramite manifestazioni «new age« o feticismi di vario genere. Durante il suo corso di Storia dell’architettura contemporanea lei ha posto gli studenti di fronte a una scelta forte, di vita e di architettura, presentando e portando loro in visita alla Tomba Brion, opera di Carlo Scarpa. L’opera presenta, a discapito della apparente nudità del tema, un programma assai complesso, ricco di significati, profondo e colto, emblematico, io credo, del carattere e della consapevolezza di Carlo Scarpa. Quali le motivazioni della scelta e quali le reazioni degli studenti?
Fulvio Irace: Comincio con il rispondere all’ultima della serie di domande perché essa può implicitamente contenere anche una risposta alla prima. Le reazioni degli studenti sono state inaspettate, ma estremamente significative. Credo che anche gli studenti che si avvicinavano per la prima volta alle opere di Scarpa abbiano percepito nel cimitero e nella tomba Brion un momento emotivamente e progettualmente molto intenso.

Istintivamente essi hanno avvertito il carattere particolare di quest’opera, che non è la celebrazione monumentale della morte, ancorché legata al tema del mecenatismo privato – poiché la tomba era stata commissionata dalla famiglia dell’industriale Brion – ma come una sorta di paesaggio, in cui la natura, i frammenti di architettura, la disposizione dei percorsi, la sapiente narrazione degli episodi simbolici si compongono in un percorso iniziatico, che ha certamente dei significati esoterici (che ovviamente gli specialisti del tema e gli studiosi di Scarpa possono elencare con grande precisione), ma anche una serie di valori aperti a una intuizione immediata.

I vari episodi di cui si compone il paesaggio cimiteriale di Scarpa – c’è la cappella, il capanno della meditazione, il sarcofago con la tomba di Brion – sono come dei nodi che galleggiano dentro una rete di relazioni molto complessa e fluida, che include sia ciò che accade dentro il recinto sia ciò che è possibile vedere, orientati dalla forma del recinto e dal muro che lo racchiude, aldilà, verso il villaggio di Altivole, sito del cimitero.

È una sorta di grande commentario sul ciclo della natura, della nascita, dell’appassimento, del decadimento, della morte e della rinascita. È come un grande processo cosmico che viene celebrato, rivissuto e riproposto a seconda delle stagioni. In effetti è importante ricordare anche questo aspetto, che l’opera cambia anche la tonalità dei suoi significati a seconda del periodo in cui la si va a visitare. Gli studenti si muovono dentro questi flussi, si raccolgono in pensieri e meditazioni che nascono dalla reazione all’architettura. Da questa reazione immediata, che passa per i sentimenti prima ancora che per qualsiasi filtro storico e culturale, si comprende probabilmente uno dei messaggi di quest’opera, che costituisce il fascino e anche la resistenza che quest’opera oppone al consumo del tempo, che è la celebrazione della morte come una parte della vita.

L.C.: Salvare dall’oblio, conservare il dolore, richiamare le immagini di chi è morto: sono le funzioni del sepolcro? Da quale corrente culturale sono state meglio studiate e interpretate? 
F.I.: Certamente il tema del cimitero è legato nella sua natura e nella sua codificazione da parte della cultura illuministica al tema della preservazione della memoria, della memoria dei valori esemplari incarnati dalle persone i cui i corpi vengono custoditi. La memoria delle grandi gesta ha un valore testimoniale, nell’accezione in cui il monumento allo stesso tempo ammonisce e ricorda; ha quindi proprio questa funzione dell’impartire un insegnamento e preservare un ricordo attivo.

Se la cultura dell’illuminismo o del neoclassicismo, variegate di tendenze, personalità, declinazioni, è stata quella che ha dedicato uno spazio istituzionale molto forte alla formazione di artisti e architetti, in genere si può dire che la modernità, nelle sue implicazioni più programmatiche e ideologiche, essendo nata come un tentativo un po’ ossessivo di estirpare le radici della memoria stessa in funzione di una riscrittura del futuro, ossia di una dimenticanza del passato, non ha avuto in genere un’attenzione spasmodica per i temi connessi alla cultura cimiteriale, anche se essi riaffiorano ogni volta che queste istanze si fanno più cogenti a livello personale.

È indubbio ad esempio che la cappella di Le Corbusier a Ronchamp, soprattutto con il suo monumento a piramide che ricostruisce le rovine della vecchia cappella e le ricompone, abbia una fortissima valenza memoriale. Così come è anche indubbio che una delle opere più importanti che io possa ricordare in questo senso – che forse si potrebbe accomunare, anche se per differenze oltre che per continuità, con il cimitero di Scarpa – è il cimitero di Asplund a Stoccolma, che non è un cimitero, ma un paesaggio, dove la natura viene plasmata e ricondotta al tema della meditazione, molto connesso al tema della morte.

La meditazione può essere considerata come reazione o risposta a quel terribile evento della storia, evocato da Walter Benjamin nel suo famoso «Angelo che fugge» nell’Angelus Novus di Paul Klee che fugge con la testa voltata indietro e vede solo rovine e va verso un futuro che è ignoto; opere come quella di Asplund indicano invece la necessità di rallentare la corsa verso il progresso, verso il futuro, sono architetture che introducono una dimensione del tempo distillato, concentrato, nella stessa maniera in cui il grande dispositivo cimiteriale di Carlo Scarpa può essere considerato come una sorta di clessidra infinita dove il tempo travasa da una parte all’altra, ma non si esaurisce mai.

L.C.: Nel tracciare una sua storia dell’architettura funeraria, quali opere, quali progetti citerebbe? E come collocherebbe il cenotafio, la «tomba vuota», tra cui in primo luogo il celebre progetto di Boullée in memoria di Isaac Newton?
F.I.: Aggiungerei a quelle citate due opere prodotte in Italia, il cimitero di Parabita, piccolo comune nel leccese, concepito dal gruppo grau negli anni ’60, realizzato negli anni ’70 e il cimitero di Modena di Aldo Rossi, opera tra le più significative degli anni ’70. Le opere sono abbastanza coeve e se da una parte condividono una forte ossessione per i temi della geometria, delle forme e per i forti richiami all’architettura di Boullée, esse hanno anche delle profonde differenze.

Anselmi costruisce una città dei morti come una sorta di archeologia della memoria. Proprio nel momento in cui la cultura delle neoavanguardie (pensiamo al contesto inglese, ad Archigram, Smithson…) è rivolto all’idea di una pianificazione della società dei consumi, egli, esponente di una certa avanguardia romana, propone un’opera che può dirsi anacronistica rispetto al contesto europeo, così come anacronistica apparve l’impresa di Aldo Rossi a Modena, e rappresenta lo scarto, nel bene e nel male, fra la cultura italiana e il resto della cultura europea.

Il cimitero di Parabita è una città fondata su geometrie contrapposte e su uno schema teorico che rasenta il fanatismo dell’ideologia, quindi il contrario sia di Scarpa sia di Asplund, e quindi ha un carattere fortemente monumentale nel senso di contenere un messaggio, forse non accessibile immediatamente a tutti, attraverso il dispiegamento dei muri che si contorcono, che si divergono in direzione di questo grande centro rotondo, che quasi sembra opporsi alla città stessa di Parabita.

È una città dei morti che potrebbe essere concepita anche come indicazione per una possibile città dei vivi, in un momento di sviluppo delle città italiane in cui la speculazione e il professionalismo dell’architettura indicano quelle strade disastrose le cui ferite ancora oggi possiamo vedere nei nostri paesaggi.

Il cimitero di San Cataldo a Modena – sempre contrapposto all’opera Brion nella metafora della città dei morti contro la città dei vivi – è sempre stato discusso fin dal suo apparire. Fu un’opera emblematica di quel ritorno alla memoria che negli anni ’70 segnò la svolta della cultura architettonica del nostro Paese, in un certo senso il suo rifiuto di considerare lo sviluppo della civiltà contemporanea attraverso un voltar le spalle ai temi della tecnologia e della sociologia e uno sdegnoso staccarsi da questi temi e di chiudersi dentro un recinto disciplinare, una sorta di torre d’avorio entro la quale l’architettura rimirava se stessa e le proprie leggi compositive.

Una delle fonti costitutive dell’ispirazione e della costruzione teorica di Rossi va individuata in Boullée, il cui testo Architettura. Saggio sull’arte Rossi fece tradurre e pubblicare per l’editore Marsilio, premettendogli un’introduzione estremamente significativa sia per lo sguardo nuovo che lui forniva all’architettura di Boullée sia per i significati impliciti per capire la sua stessa architettura.

L’architettura del cimitero che ha avuto da una parte la fortuna degli studiosi o dei circoli che si riconoscevano nell’insegnamento di Aldo Rossi, ma non è stata probabilmente mai molto amata né ovviamente da chi, come Bruno Zevi, si opponeva a questa visione dell’architettura né dal senso comune degli abitanti, che ne minacciarono la distruzione. Tale minaccia contiene forse un nucleo importante su cui riflettere, come se Rossi avesse toccato un nervo scoperto di una civiltà, in cui il tema della morte era guardato con grande fastidio, così come lo è nella nostra contemporaneità.

Il grande ciclo dei cimiteri monumentali si è concluso con l’Ottocento e con gli inizi del Novecento. È stato messo al bando dalle trasformazioni e soprattutto dalla laicizzazione della cultura occidentale. Le catastrofi e i grandi sconvolgimenti che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della fine del secolo scorso e i primi del nostro, ci ricordano che non è possibile addomesticare la morte, possiamo avere l’illusione di condurla entro una pratica ragionevole, ma come tutte le grandi forze della natura essa è sempre pronta a scapparci di mano.

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