Wel­fa­re dell’ar­chi­tet­tu­ra. Cin­que con­cor­si per cin­que ar­chi­tet­tu­re

Serie: I 20 anni di Archi (1998-2018)

Per i 20 anni di Archi, l'articolo di Fulvio Irace dal no. 2/2012. «Sono storie tutt'altro che lineari, anzi dimostrative di un'ansia di ricerca che costringe il legame di appartenenza (...) a confrontarsi con un quadro di riferimento sempre più frammentato a misura delle personali idiosincrasie artistiche e culturali».

Data di pubblicazione
18-06-2018
Revision
07-03-2019
Fulvio Irace
Architetto e critico, professore di storia dell’architettura contemporanea dell’AAM e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano

«Il vero edificio pubblico — ha detto recentemente Luigi Snozzi — è quadrato, con quattro facciate identiche, perché si rapporta generalmente a tutta la città (…). Il quadrato è una forma bella quando è precisa, anche se può sembrare banale».

È difficile resistere alla suggestione di queste parole - secche e incisive come l’architettura del maestro ticinese - nel commentare le opere selezionate da Archi per rappresentare l’immagine dell’architettura pubblica nel Cantone, così come incarnata dalle principali opere emerse in questi ultimi cinque anni dalla pratica del concorso.

Sarà forse un caso, infatti, ma - ad eccezione della piccola scuola dell’infanzia ai margini del centro di Carona - tutti i nuovi edifici che presentiamo in queste pagine condividono la caratteristica di un impianto sviluppato a partire dalla figura del quadrato (o del rettangolo). Inteso come una piastra sospesa al suolo o come un solido appoggiato a terra, il volume compatto e fortemente centrato sulla definizione di un’immagine unitaria sembra essere stato la scelta naturale, quasi obbligata, per rispondere nella maniera più convincente alla richiesta istituzionale di un’architettura collettiva. Il dato non è solo statistico, ma anche, e soprattutto, qualitativo e dimostra - dietro il gioco delle forme e le schermaglie della composizione - la vita sotterranea delle idee: la loro permanenza, cioè, ma anche il conflitto delle interpretazioni nella loro trasmissione da una generazione all’altra.

Rispetto alla stagione dei maestri, gli architetti le cui opere vengono qui discusse, appartengono a una fase diversa da quella «eroica» dell’architettura ticinese degli anni ‘70 e diversificati sono anche i loro percorsi di formazione: sia quelli istituzionali sia quelli dei canali di apprendistato dentro studi professionali svizzeri o internazionali. Aldo Celoria, ad esempio, ha studiato alla Scuola Politecnica di Milano prima di approdare nelle aule dell’Accademia di Mendrisio; Raphael Zuber invece all’Accademia ha insegnato nel 2009 dopo gli studi d’architettura all’ETH di Zurigo, mentre un cammino ancora più articolato è quello di Marco Volpato, nato a Sydney dove ha conseguito il Bachelor, per poi trasferirsi in Europa dove ha lavorato dal 1995 negli studi italiani di Pietro Neri ed Antonio Citterio e in quello svizzero di Herzog & de Meuron (1999-2002) prima di aprire con il suo partner Nicole Hatz, un’autonoma agenzia professionale nel 2007.

Usciti dalla Sezione Architettura della Scuola Tecnica Superiore di Lugano-Trevano, Nicola Baserga e Christian Mozzetti si sono associati nel 1999, riunendo le specifiche competenze maturate nell’ambito universitario (un diploma all’ETH con Flora Ruchat-Roncati per Baserga) e in quello della professione (praticati a Zurigo e a San Gallo). Diplomato anche lui a Zurigo, Sandro Cabrini è stato assistente di Luigi Snozzi al Politecnico di Losanna e di Aurelio Galfetti a Mendrisio, facendo affluire nel suo curriculum quell’attenzione alle dinamiche del disegno urbano caratteristiche della scuola ticinese.

Sono storie tutt’altro che lineari, anzi dimostrative di un’ansia di ricerca che costringe il legame di appartenenza a misurarsi con le mutazioni del gusto, con l’aprirsi ad uno scenario inevitabilmente internazionale e dunque a confrontarsi con un quadro di riferimento sempre più frammentato a misura delle personali idiosincrasie artistiche e culturali.

Se la conferma non implica necessariamente la conformità, si può dunque partire proprio dal paradigma del quadrato per imparare a cogliere le differenze che, prima ancora che formali, paiono concettuali se non proprio ideologiche.

La Palestra del Centro professionale commerciale di Baserga-Mozzetti a Chiasso è quella che sembra più aver fatto propria la convinzione di Snozzi secondo cui «mentre la casa privata è sempre orientata, un edificio pubblico non dovrebbe essere direzionato, perché deve parlare con tutto ciò che esiste intorno».

È la pianta quadrata del volume principale della sala ginnica infatti a caratterizzare dall’esterno il volume, che è interessante mettere a confronto con uno dei più incisivi lavori di Livio Vacchini, la palestra di Losone (1990-1997). Se li avvicina l’adozione di uno stilobate che ne rafforza l’isolamento monumentale nel vuoto urbano, li allontana tuttavia l’interpretazione del carattere pubblico della struttura, che Vacchini sviluppa nell’immagine di un’irsuta fortezza di esili ma fìtti pilastri di cemento, e Baserga-Mozzetti invece nella netta contrapposizione tra l’incombente copertura sospesa e lo spazio ipogeo destinata all’attività sportiva.

Nel primo caso si privilegia l’inaccessibilità dall’esterno dello spazio chiuso, nel secondo la sua totale permeabilità al livello della quota pedonale grazie all’interrotto perimetro vetrato che consente allo sguardo di penetrare l’intero manufatto da parte a parte.

Di certo le due opere condividono un’assertività che molto giova alla percezione dell’architettura come monumento quotidiano: nel caso di Chiasso inoltre l’intervento dei due giovani architetti - Nicola Baserga e Christian Mozzetti - si avvantaggia di una forte indicazione di piano, significativa dell’accorta politica urbana che in questi ultimi anni ha cercato, con successo, di trasformare in luogo civico un tessuto sino ad allora ambiguo e marginale. L’area su cui insisteva il progetto infatti era occupata da un vuoto in una specie di Kunstforum determinato da singole architetture d’autore: dallo storico cinema-teatro di Americo Marazzi (restaurato nella sua veste originaria degli anni Trenta) alle recenti performance di Durish+Nolli - il m.a.x. museo e lo Spazio Officina - che con la loro presenza catalizzante sono state il vero motore della sorprendente trasformazione dell’area che conta per di più sulla presenza di un campus scolastico di certo rilievo.

Si trattava dunque di un vuoto in attesa: il tassello ancora mancante di una composizione in via di equilibrio, ma inclinata verso un’idea carismatica di architettura come oggetto capace di imporre un ordine e un senso con la sua stessa presenza. Con notevole sensibilità i due vincitori del concorso hanno dimostrato di comprendere con precisione la natura della sfida e di accogliere con altrettanta intelligente umiltà i suggerimenti provenienti dagli autorevoli interventi di Durisch+Nolli: in primis l’idea dello zoccolo - nel caso del m.a.x. museo un piazzale rialzato - che diventa cerniera tra il livello della strada e quello del campus e rilancia il tema del piano di calpestio come luogo comune, cioè parte integrante del progetto ed elemento determinante per la percezione del nuovo manufatto come edificio collettivo. Se la sala non ha un orientamento privilegiato, lo zoccolo funge da connessione con le diverse situazioni e con le divergenze topografiche. In particolare esso si qualifica come terrazza d’accesso verso il lato nord (in relazione agli edifici scolastici e all’accesso dal parcheggio pubblico) e come gradinata in rapporto al giardinetto a sud. Se ad est rafforza la delimitazione del campo stradale e della piazza esistente, riprende dal Museo e dallo Spazio Officina il motivo della fontana come elemento di transizione.

Dopo le incoraggianti prove della piazza del Tiglio a Cugnasco (2006-2008) - che qualificava come essenziale il tipo del recinto - per Baserga e Mozzetti questo di Chiasso è stato il primo incontro con l’architettura della città contemporanea, nella sua veste più problematica, ma anche più tipica, del non-luogo urbano. Bisogna dar atto alla giuria di aver saputo cogliere la forza stringente della loro proposta, di cui oggi si possono apprezzare tutte le potenzialità. Raccogliendo l’ammonimento di Snozzi - «quando faccio un progetto non penso mai all’estetica. Rispondendo bene ai problemi un’estetica viene fuori di sicuro» - la nuova palestra ha sviluppato con incisività il legame con la tradizione ingegneristica svizzera, per altro già brillantemente testimoniata dal nervoso ponte cementizio sulla Melezza, a Borgnone (2005), esempio di perfetta integrazione tra ricerca formale e verità strutturale.

Non a caso, la felice collaborazione con lo studio d’ingegneria Pedrazzini, è stata riproposta per la palestra di Chiasso, rinverdendo con nuovi accenti la sperimentazione del beton come vera e propria lingua comune della modernità svizzera. La particolare struttura portante dell’edificio con un unico appoggio per lato permette di staccare dallo zoccolo la parte superiore della sala e di creare così una netta rispondenza tra interno sotto quota ed esterno: l’apertura vetrata che la illumina tutt’attorno fa assomigliare il monolite a uno strumento di misurazione che mette in mutua relazione i quattro lati del sito: l’aspetto ordinatore è rinforzato dalla scelta strutturale dei quattro cavalletti a forma di «V» posti centralmente alle facciate e facilmente percepibili come metafora de quattro punti cardinali.

Anche Raphael Zuber a Grono ha giocato la carta del quadrato perfetto, premurandosi addirittura di inscriverlo in un cerchio di ascendenze rinascimentali. Anche in questo caso, inoltre, la scelta del luogo individuava un vuoto, non allineato però alla strada come per la scuola media di Balerna, ma isolato in un’area a verde. Una caratteristica che Zuber ha collegato all’insediamento tipico delle vecchie case patrizie, situate spesso in un giardino e quasi mai in linea con la strada.

La matematica da «villa ideale» della sua proposta corrisponde a questa logica, rafforzando la scelta del grande «cubo» traforato come elemento prezioso che pur nel suo evidente gusto moderno sembra alludere alla monumentalità domestica delle presenze storiche. Qui non si trattava insomma di inserirsi in un tessuto, ma piuttosto di creare un contesto: analogico, naturalmente, come l’immagine di una grande villa in un parco perfetto, in asse con la bella Casa Comunale in alto su un colle. L’adozione di una pianta quadrata è funzionale alla flessibilità d’uso degli spazi delle aule, facilmente adattabili a mutamenti di destinazione e la suddivisione dei piani in verticale permette una distribuzione non gerarchica tra i vari tipi di scuola, garantendo autonomia d’accesso ai frequentatori della scuola materna al pian terreno.

Ciò che maggiormente caratterizza lo spazio interno però è la possibilità di orientare i piani verso i quattro punti cardinali tramite il sistema dei grandi occhi che sin dall’ingresso consentono di dominare lo spazio del piano attraversandolo in tutta la sua lunghezza. Dal punto di vista strutturale la «scatola» bucata può essere valutata come una struttura portante rigida dentro la quale è stata alloggiata una scatola «leggera» di pareti interne e piani vetrati separate luna dall’altra da un’intercapedine vuota, sotto forma di strette terrazze per agevolare la pulizia delle vetrate. Con la sua caratteristica scansione osteologica a vertebre costituite da semi archi in beton, la struttura portante provvede anche alla funzione di schermo per la scatola interna. Paradossalmente però la scelta del cubo matematico appare contraddetta anziché rafforzata da tale soluzione che non chiude gli angoli (ma anzi li fa corrispondere alle vaste vetrate delle aule) e non sempre risulta congruente con l’uso degli spazi interni che ne risultano in qualche caso più soverchiati che protetti.

La felice intuizione iniziale di un volume compatto viene in tal modo indebolita dalla compiaciuta concessione a un motivo formale - quello appunto delle facciate ad archi - che fa sembrare l’organismo interno più adattato alla scatola esterna che da esso generato. In un certo senso è lo stesso discorso che si può applicare al nuovo complesso delle aule speciali della Scuola media a Balerna, dell’architetto Aldo Celoria, la cui facciata ad «onde» mostra una singolare coincidenza con la struttura vertebrata della scuola di Grono.

Anche qui l’opzione perentoria del quadrato si dimostra più aderente all’appropriata proposta del disegno insediativo che alla singola declinazione del volume.

Come a Chiasso, anche a Balerna ci troviamo davanti a un tema squisitamente urbano: un campus scolastico composto da più edifici, una strada di scorrimento tangente uno dei bordi dell’area, una serie di preesistenze di indubbia rilevanza in un centro che conta significative prove d’autore, dagli interventi di Ivano Gianola - casa Arnaboldi (1988-91) e, soprattutto, la scuola materna (1971-74) a quelli di Mario Botta - il Centro artigianale (1977-79) e la palestra comunale (1976-78), strettamente contigua all’area di progetto. Merito dell’architetto Celoria è di aver subito compreso il valore del «vuoto» come elemento complementare al peso del «pieno»: ciò ha aperto alla giusta valutazione del ruolo dell’edificio scolastico all’interno di un tessuto urbano che ha bisogno di continui ritocchi per potersi adeguare in maniera soddisfacente alle modificazioni imposte dall’uso della città.

Pieno e vuoto sono assunti insomma come piatti di una stessa bilancia: il pieno arretra rispetto al lotto facendosi parete di contenimento della strada e il vuoto stabilizza le relazioni tra le parti del campus, costituendosi come piazza urbana. Per sottolineare l’equivalenza, pieno e vuoto hanno la stessa matrice geometrica del quadrato: una scelta forte e di sicuro impatto nella gerarchia del nuovo sistema, e che proprio per questo rende meno convincente la definizione del volume delle aule speciali con le due facciate nord e sud risolte con un motivo ad onda e quelle est-ovest a semplice finestratura continua. A Balerna come a Grono il sistema strutturale prende il sopravvento, suscitando l’impressione di una discrasia tra la promessa di completa apertura dell’impianto a vassoi sovrapposti e la frustrazione di una suddivisione tradizionale delle aule.

Con l’eccezione del Centro Civico di Vezia, la tipologia ricorrente nelle opere sin qui illustrate è quella dell’edificio scolastico nelle sue più diverse articolazioni di utenza e di uso: un tema che difficilmente si penserebbe in termini di monumentalità, e che pure, però, meglio di qualunque altro riassume il senso più autentico e democratico della partecipazione collettiva alla costruzione di una cultura della comunità. È qui, inoltre, che si rappresenta la peculiarità del sistema federale e l’applicazione di un modello di welfare sociale ancora non inquinato dall’involuzione burocratica del principio della trasparenza amministrativa e della correttezza gestionale.

Per la sua capillare diffusione negli interstizi del territorio, l’edificio scolastico è un elemento strategico nel disegno urbano: cardine o limite di un’espansione, completamento di un luogo o sua ridefinizione, interfaccia sensibile tra il mondo interno della formazione e quello esterno della mobilità sociale. La dimostrazione più convincente è quella svolta dalla scuola d’infanzia a Carona, 15 minuti dal centro di Lugano, eppure appartenente per intero al mondo rurale del villaggio più che a quello propriamente cittadino. Il compito di progettare una scuola per 25 bambini con un budget estremamente ridotto ha trovato negli architetti dello studio Volpato-Hatz una ricezione notevole per la sua assoluta distanza da ogni forma di retorica della rappresentazione.

Non a caso qui entra in gioco la tradizione svizzera della costruzione in legno più che quella del beton: e la semplice articolazione del volume si rivela adatta alla creazione di un mondo in miniatura, dove il colore degli interni e le pareti esterne di contenimento riscrivono l’austerità della tradizione in un format congruente con la psicologia dell’infanzia. Elemento lenticolare di un tessuto sgranato, al limite tra l’edificato e la campagna, la scuola si dispone come un commento in scala alle costruzioni circostanti, torcendosi a formare spazi di pertinenza protetti che riproducono a misura di bambino la dinamica del tessuto urbano.

La forza di questi progetti sta dunque nella capacità di pensare l’architettura non come Landmark ma come acceleratore di paesaggio: di proporre cioè edifici che non solo si offrano come landscape complessi, ma che siano anche disposti a intervenire sulla scala urbana, proponendone una visione nell’ottica del completamento, del miglioramento, della trasformazione.

Il Centro civico a Vezia dello studio Cabrini-Beier riassume tutte queste caratteristiche in maniera esemplare, rendendo evidente come il punto di partenza del progetto non è stata l’elaborazione di una proposta formale, ma una attenta (e partecipata) lettura della genesi storica del borgo. Questo spiega ad esempio lo sconcerto iniziale di chi, provenendo dalla strada cantonale, vede di scorcio la sagoma allungata dell’edificio pubblico che rinuncia all’immediatezza di una sua lettura impositiva in favore di una più delicata e ragionevole giacitura rispetto al nucleo storico. Il progetto del nuovo parte dalie- carte della topografia storica: ne individua morfologia e crescita e le inquadra in una visione aperta al futuro. Come la proposta, ad esempio, di sistemazione dello spazio della strada cantonale che lascia aperte future soluzioni alle crescenti esigenze del traffico.

Così il nuovo Centro civico si qualifica come un dispositivo che analizza e propone: favorisce la creazione di un luogo protetto e separato dalla strada, ma al tempo stesso porta a compimento verso sud l’asse che struttura il nucleo storico, facendo da contrappeso alla chiesa che ne delimita il termine- orientale. È un edificio poroso, che lascia poco spazio ai tormenti formali, sostenendo la sobrietà come capacità di comunicare un linguaggio condiviso. Esponente di una generazione che ha condiviso in maniera diretta l’esperienza di maestri come Snozzi e Galfetti, Sandro Cabrini ne ha assunto la lezione senza per questo rinunciare al diritto di parola: il suo lavoro a Vezia è l’indice di una fiducia nel progetto come strumento di modificazione. Una testimonianza - se si vuole - della cocciuta resistenza di un’architettura basata su principi ed idee all’estemporaneità e all’improvvisazione oggi ancora troppo spesso imperanti.

 


I venti anni di Archi (1998-2018)

Per festeggiare il ventennale della rivista Archi, una selezione degli articoli più significativi è andata a costituire una timeline, tracciando una linea di continuità tra il 1998 e il 2018. Tutti gli articoli sono contenuti nel dossier «I venti anni di Archi (1998-2018)».


 

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