As­pett­an­do Car­lo­ni

Jacques Gubler riprende l’aforisma di Joseph Beuys: «Magari l’artista morto è migliore dell’artista vivo», segnalando come la produzione architettonica di Carloni sia inscindibile da un engagement che ha contraddistinto la sua attività.

Publikationsdatum
23-12-2014
Revision
08-10-2015

Primo aforisma

«Magari l’artista morto è migliore dell’artista vivo». Forse l’aforisma realista di Joseph Beuys riflette anche l’être au monde, l’essere autocritico e il sorriso di Tita Carloni. Non è che l’opera di Carloni, tra cattolicismo e marxismo, illustra nel campo dell’architettura un impegno sociale che ricorda l’engagement esistenzialista di Sartre?

Secondo aforisma

«Je voudrais faire le travail de l’architetto condotto». Questa confessione non si inventa. L’ho sentito nell’auditorio gremito da persone curiose e amichevole, il giorno dell’ultima lezione di Carloni all’EAUG (École d’architecture de l’Université de Genève). La risposta segue la domanda posta all’ex direttore della scuola: «Adesso cosa farai ». Eravamo nel 1991. Poca gente a Ginevra sapeva cosa fosse un architetto condotto. Una funzione? Una specialità? Una metafora? Carloni ci ha spiegato che in Lombardia, nella geografia fisica del territorio, il medico condotto esercita un ruolo di fiducia che accompagnava la vita e la morte dei cittadini. Magari l’analogia dell’architetto condotto traccia la speranza in un lavoro sociale al quotidiano in contropiede della dimensione utopica canonica dell’architettura moderna.

Terzo aforisma

Il terzo aforisma di Carloni non è un aforisma, ma una citazione di Carlo Cattaneo, vecchio rifugiato politico sulle sponde del Ceresio. Carlo Cattaneo, Aldo Rossi e Tita Carloni sono tre Lombardi. Aldo Rossi ritrova le ruminazioni geopolitiche di Cattaneo e ne distilla il senso in un capitolo di L’architettura della città. Nella bocca di Carloni, la lucidità di Cattaneo si applica à la lettre alla storia del paesaggio ticinese. La forma del territorio non è altro che «deposito delle fatiche umane». L’architettura deve essere cosciente di questa morfologia depositata dall’agricoltura.

Perche tanti aforismi?

Magari perché il Ticino e la sua lingua vernacolare, all’interno del triangolo geografico dialettale Kloten-Cointrin-Malpensa, produce senza saperlo una quantità notevole d’aforismi, all’unisono delle campane di Balerna. Senza saperlo come Monsieur Jourdain nel Bourgeois gentilhomme di Molière fa della prosa senza saperlo. Urbi & orbi, Luigi Snozzi è stato riconosciuto come il Petit Prince dell’aforisma. Ma questo genre teorico si può anche stanare nei racconti di altri colleghi ticinesi. Sentiamo Livio Vacchini: «Disegno la casa, disegno l’albero», o «Non c’è dettaglio in architettura, tutte le cose sono d’uguale importanza». Apriamo Quasi un diario di Mario Botta: «L’architettura nasce nell’idea di gravità», o «Certo, questa è la Svizzera, la nostra Patria, la nostra Casa, la nostra Croce».

Una sola barzelletta

Di bocca in bocca corrono e si ripetono racconti colorati che cimentano la «memoria collettiva» locale e corporativa dell’architettura. Questa memoria aneddotica pittoresca si spenge dopo due o tre generazioni. Tra elogio e beffa, tra profumo e puzza, la «storia orale» rimane volatile. Nell’assenza di supporto mediatico, si dissipa con la morte degli attori. Tale dinamica narrativa non è il privilegio esclusivo dei grotti ticinesi. Esistono architetti narratori e amatori di pettegolezzi anche a Bienna, a Como e a New York.

Anch’io vorrei sacrificare al genre aneddotico pittoresco della testimonianza storica esclusiva. Siamo alla fine dell’anno 1975. Ottobre? Novembre? Siamo sul palco del Théâtre de Vidy, una sala costruita da Max Bill, reliquia dell’Expo del 1964. Frank Jotterand, il direttore del teatro, ha immaginato una serata focalizzata sulla figura di Le Corbusier. Jotterand ha invitato la troupe del TPR, Théâtre populaire romand di La Chaux-de-Fonds a presentare la sua creazione collettiva, Le Corbusier, le bâtisseur, una tragi-commedia elaborata dopo la lettura dei libri dell’architetto, revue cabarettistica con performance tra Tati e Marceau. Sorgeva anzi dieci anni dopo la morte di Le Corbusier il primo atto delle numerose commemorazioni successive. È prevista dopo lo spettacolo, una discussione con architetti en rang d’oignon: il contrario della tavola rotonda. Carloni, nella sua veste direttoriale, capo della scuola d’architettura dell’Università di Ginevra, racconta perché non ha seguito e prolungato il repertorio formale di Le Corbusier. Non si poteva al sud delle Alpi cancellare la memoria della presenza opportunista di Le Corbusier a Vichy sotto Pétain. Zevi aveva proposto l’ideale «democratico» dell’architettura organica. Come si sceglieva tra un Bartali di destra e un Coppi di sinistra, si doveva scegliere tra Le Corbusier e Wright.

Dopo la presentazione, nel vestiario del teatro Jotterand e Carloni, stessa taglia, stessa eleganza, stesso loden, stesso colore, si scambiano il mantello. Jotterand mette la mano nella tasca e trova una medaglia con l’effigie di Lenin. Ne segue un sussulto di sorpresa con un sorriso imbarazzato.

Una sola domanda

Sarà una domanda sugli ismi. Esiste il neorealismo in architettura? Sappiamo che si tratta di una tendenza poetica della cinematografia italiana al momento del duello politico Coppi-Bartali. Se esistesse, probabilità minimalissima, una tendenza neorealista in architettura, allora sicuramente Tita Carloni avrebbe ricevuto il pard-orso alla carriera.

Ma torniamo all’architettura. Un amico di Losanna, Gilles Barbey, studente a Zurigo allo stesso momento di Carloni, mi parla dell’organicisme rationnel, una poetica diffusa nella facoltà di architettura del Politecnico. A Zurigo, come a Roma, si riguardava verso la Scandinavia e l’opera di Alvar Aalto. Dove partire in viaggio? In treno verso nord? Quando altri salgono sul paquebot atlantico in direzione degli States. La strada verso nord permette anche di scoprire il polo razionalista vichinga di Asplund e Jacobsen. Sembrerebbe che, attorno al 1955, nel bouillon de culture zurighese al momento del diploma di Carloni, la costruzione del Parktheater di Grenchen, opera di Ernst Gisel, avrebbe segnato una sorpresa clamorosa. Come configurare l’obliquità e l’ortogonalità di volumi contrastati non solo nella forma ma anche nel colore e la materialità? A tale domanda il teatro di Gisel poteva fornire un esempio. In particolare per la regola del parallelismo tra il profilo del tetto e la pendenza del terreno. Questa regola sembra essere rispettata nel caso della Casa Balmelli a Rovio.

Capolavori

Carlo Bertelli ricorda che: «I capolavori accompagnano, rafforzano, esaltano, consolano. … Hanno, infatti, questa fatalità: che si staccano dalla contingenza in cui sono nati per librarsi in uno spazio praticamente senza tempo». Bertelli sogna alla pittura e alla scultura. Non si può negare che Botticelli e Rodin, i cavalli del Partenone e La danse di Matisse abbiano raggiunto uno statuto iconografico di ubiquità, indipendente dal loro contesto geografico e politico iniziale. Sembra che l’ubiquità non entri nell’essere materiale dell’architettura. A prova che il profumo globale e i pedigrees monumentali dell’Unesco diventano un argomento per riempire diversi aerei, pulmini, torpedoni, mostri galleggianti targati Costa (sic).

Si deve dunque viaggiare e incontrare in situ i capolavori dell’architettura. In conseguenza i capolavori si raggruppano in un elenco individuale che corrisponde alle possibilità e alle scelte personali di una vita. Conosciamo la lista di Livio Vacchini, pubblicata sotto il titolo Capolavori, itinerario di pellegrinaggio nonché chiave di lettura per la sua opera.

Lanciare la domanda dei capolavori apre la questione dei capolavori costruiti da Tita Carloni. Risponderò in funzione del mio proprio pellegrinaggio e delle emozioni instillate nella memoria. Lasciamo stare dietro il bosco il programma della villa, cittadella della vita privata. Guardiamo gli esempi dell’architettura pubblica, visitabili, aperti alla gita scolastica, quando il programma diventa istituzione, per dirla con Louis Kahn. Oltre alla Casa del Popolo di Lugano, i capolavori di Carloni sono la Pinacoteca Züst di Rancate (1967), il centro scolastico di Stabio (1972-1974), il restauro della chiesa parrocchiale di Rovio (1996-1997).

La pinacoteca offre l’intimità e l’intelligenza di un gioiello, la possibilità di mostrare opere piccole e grandi in un percorso di scoperta con visioni da vicino e da lontano. Inoltre nel Mendrisiotto, mi ricordo due fermate che offrono il più bel viaggio possibile agli studenti dell’usi, del Virginia Tech, o dell’Università del New Mexico. Ci fermiamo a Riva San Vitale e a Stabio per visitare due centri scolastici con funzioni pedagogiche e sportive analoghe. Troviamo da un lato il lavoro del trio Galfetti-Ruchat-Trümpy, dall’altro quello di Carloni. Nella pianura di Riva, il lavoro si articola su dieci anni con tre tappe in un vero work in progress (1963-1973). A Stabio la composizione si appoggia sulla centralità del cortile. Riva si riferisce al modello domestico della Siedlung in terrazza e all’espressività del cemento armato brut de décoffrage. L’aula sarebbe la casa del bambino e la scuola una unité d’habitation.

A Stabio troviamo una piazza che visualizza la scuola come istituzione urbana, tramite grandi corpi periferici, grandi sheds. Che la tipologia industriale dello shed fosse adattabile alla scuola in quanto aula scolastica senza finestre laterali, ecco una bella invenzione. L’urbanità del cortile risulta dell’uso del portico sotto in corpi longitudinale. A Stabio, la scuola sorge dietro l’argine in diaframma sopra la strada. A Riva, lo spazio tra palestra e volumetria en peigne delle aule drammatizza il cortile mentre la scuola riguarda il paese e inversamente. A Stabio troviamo una terrazza a sé stante, una specie di isola lontana dalle altre bellezze.

Finalmente il restauro della chiesa dei Santi Vitale e Agata a Rovio permette di scoprire un lavoro sottile di restauro creativo, sviluppato nell’uso comparativo delle variante, a mille piedi dalla dottrina mimetica e illusoria del restauro conservativo. La ricerca dei tracciati regolatori della nuova facciata, non che la policromia e la gamma dei materiali sono come l’omaggio alla facciata precedente, a mo’ di scudo, per proteggere la navata delle pressioni laterali osservate verso ovest. In quest’occorrenza, Carloni opera come ingegnere.

Aspettative

Aspettiamo le sorprese ancora seppellite nell’opera di Tita Carloni. Momenti dimenticati: lo studio, con Snozzi e Vacchini nel 1962, del nuovo OBV di Mendrisio, concorso senza esito. Lo studio del quartiere ferroviario di Mendrisio, con il vero Gesamtkunstwerk dell’Albergo Milano. Questo lavoro segna l’entrata di Mendrisio nella storia della modernità territoriale autostradale.

Altri momenti da ricordare: la presenza di Carloni all’Expo 1964 di Losanna come progettista e manager del settore 2A, Joie de vivre, attribuito al gruppo FAS ticinese da Alberto Camenzind. Gilles Barbey, attivo nella charrette pazzesca del vicino padiglione 2B, Eduquer & créer, disegnato da Max Bill, si ricorda della maîtrise et aisance di Carloni al momento del cantiere. Non c’è da stupirsi che, cinque anni dopo, al momento del concorso su invito per la nuova sede suburbana del Politecnico federale di Losanna, Carloni viene chiamato a coordinare la proposta del gruppo ticinese.

La presenza di Carloni al nord delle Alpi si collega anche al ruolo di professore e finalmente di direttore dell’EAUG, dove si sviluppa il sodalizio con Peppo Brivio. Si dovrebbe situare l’opera di Carloni in una cornice teorica internazionale. Si vorrebbe capire anche le sue relazioni con almeno cinque protagonisti ticinesi: Luigi Camenisch, Dante Gerosa, Luigi Snozzi, Livio Vacchini e Mario Botta. Per esempio con Botta il restauro di una cappella, inserita nell’ensemble del convento di Santa Maria del Bigorio.

Ultimo sospiro

Come Charlie Chaplin, al quale un agente immobiliare svizzero mariolo aveva venduto in tutta fiducia una villa di stile coloniale sopra Vevey nelle vicinanze acustiche dello stand di tiro comunale, molto frequentato da patrioti imbambolati il mattino della domenica, Tita Carloni amava il silenzio. Aspettiamo il libro che permetterà di rintracciare il percorso avventuroso della sua opera.

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