Dia­rio del­l'­ar­chi­tet­to, mag­gio 2013

10 maggio 2013: Espozione di Luis Kahn al Vitra Design Museum. Un'occasione privilegiata per comprendere come progetta il celebre architetto.

Publikationsdatum
09-07-2013
Revision
19-10-2015

L’esposizione sull’opera di Louis Kahn (1901-1974) al Vitra Design Museum a Weil am Rhein (dal 23 febbraio al 11 agosto 2013) non è forse l’ideale per chi è digiuno di architettura, per la complessità dell’allestimento, ma è però un tesoro tutto da scoprire per chi vuole approfondire l’opera dell’architetto americano, e soprattutto per capire.

Capire come Kahn progetta, per quali strade procede il suo lavoro di elaborazione, dove lo conduce la ricerca e l’approfondimento, e come riesce nella sintesi finale a trovare il giusto archetipo, il modello cui riferirsi, il nocciolo fondamentale cui poggiare il progetto. Ecco, in mostra alla Vitra sono esposte le tracce di questo lavoro, ciò che Kahn lascia dietro di sé in forma di schizzi, di planimetrie, di varianti, di modellini in cartone.

Questa ricerca del modello tipologico – dell’archetipo – è governata sempre dall’ordine, inteso come matrice indispensabile per giungere a una sintesi, a una «cellula» dalla quale organizzare il tutto. Un ordine nel quale la chiarezza delle funzioni è basilare, tanto da suddividerne gli spazi in serventi e serviti, nel separare gli spazi che portano a un luogo – come le scale ad esempio – con lo spazio del luogo stesso. La ricerca strutturale affronta non solo le questioni del portato e del portante, del trilite o del monolite, ma determina anche, con le travi e gli archi e i pilastri e le pareti, i valori del chiaro e dello scuro, quelli formidabili nella sua opera della luce e dell’ombra: «Structure is the maker of light. A column and a column brings light between. It is darkness – light, darkness – light, darkness – light.»

È nel modello formale che precipitano queste ricerche, fino a costituire quel «recipiente» che contiene il mondo stesso di Kahn, dei suoi studi e viaggi e conoscenze e esperienze e amori e ossessioni: «Design is not making beauty, beauty emerges from selection, affinities, integration, love.»

Con due concetti fondamentali sullo sfondo: la presenza materica del fatto architettonico, la massa, il peso, la monumentalità, se si vuole, e quella del fatto costruttivo, del valore del materiale, con i suoi imperativi di superficie, di colore. È nella sintesi di questo complesso discorso – mai lineare come qui descritto – che Kahn perviene al nocciolo del progetto, all’archetipo. Che poi monta, ripete, elabora e sviluppa nella complessità del progetto intero.

La mostra al Vitra Museum racconta anche i due periodi che hanno caratterizzato il percorso professionale di Kahn: il primo è costituito dalla città di Filadelfia, intesa non solo come luogo dove abita e lavora, ma anche come «laboratorio» di progettazione; il secondo è quello degli ultimi venticinque anni, nei quali realizza i suoi capolavori. Nella prima di queste due fasi si occupa della sua città, intrecciando tra loro i temi legati all’abitazione - indagata nelle tipologie spaziali e nella razionalizzazione dei metodi costruttivi - con quelli legati all’urbanistica e alle trasformazioni urbane - dove alla crescita delle periferie e alla decadenza di interi quartieri oppone un centro città dinamico, pedonale, con spazi urbani identitari e una forte connotazione architettonica. Questa prima fase termina, in modo emblematico, nel 1961 con la costruzione del Richards Medical Research Building, i laboratori di ricerca biologica dell’Univeristà di Pennsylvania, sempre a Filadelfia. È il perno dal quale inizia la sua seconda fase. Non solo perché con quest’opera Kahn diviene famoso in tutto il mondo, ma soprattutto perché vi confluiscono tutti i temi progettuali elaborati e approfonditi in precedenza: l’integrazione tra spazio e struttura, il valore della luce naturale, l’organizzazione volumetrica delle diverse parti, la cadenza di moduli elementari, la saldatura dei tre concetti della forma, dei materiali e del sistema costruttivo.

Tutto questo emerge passo passo nell’esposizione, dove disegni schizzi modelli piante facciate schemi prospettive illustrano l’origine del progetto, l’idea. L’invenzione. Anche le incertezze: come quando, dopo un incontro avuto nel cantiere del Salk Institute a la Jolla (1959-1965), ringrazia l’architetto messicano Luis Barragan (1902-1988) per avergli suggerito – a lui che non sapeva come risolvere lo spazio centrale tra i due edifici – di lasciarlo semplicemente vuoto: «I would – gli scrive Barragan – not put a tree or blade of grass in this space. This should be a plaza of stone, not a garden. If you make this a plaza, you will gain a facade - a facade to the sky.»

Da Kahn a Herzog e de Meuron: l’ampliamento della fiera di Basilea

È certo un bello shock, ritornando dalla mostra sull’architettura di Kahn, giungere in tram sotto l’architettura della nuova ala della Messe Basel, ultima opera di Herzog e de Meuron.
Dopo le complesse meticolose e ponderate articolazioni spaziali e volumetriche di Kahn si piomba nella realtà di questo nuovo secolo: davanti ad un edificio lungo 220 metri, largo 90 metri e alto 32 metri, con una superficie interna di 38’000 metri quadri e costato 430 milioni di franchi. Costruito in soli 22 mesi. Il merito del duo H&dM è di essere riusciti, nonostante le enormi dimensioni di questo di per sé banale edificio (un cassone privo di finestre destinato ad accogliere gli stand espostivi della fiera) a realizzare non solo una forma avvincente – in questo sono maestri – ma anche a trovare una scala adeguata alla città. Merito del suddividere in tre fasce orizzontali i fronti dell’edificio, con un piano terreno interamente vetrato e i due piani superiori con un progressivo aggetto verso l’esterno. Merito pure, mediante la vetratura del piano terra – alto 10 metri –, dell’aprire verso l’esterno i contenuti «pubblici» dell’edificio, come gli spazi per negozi, bar, ristoranti, foyer e un luogo per eventi dalla capienza di 2’500 spettatori. Merito inoltre del realizzare – del punto in cui l’edificio come un ponte attraversa la strada – il City Lounge, una piazza coperta con le entrate all’edificio ai due lati e la fermata del tram al centro, con un grande e spettacolare foro a forma di imbuto rovesciato a prendere la luce e vedere il cielo. Merito infine del rivestimento dei piani superiori, costituito da strisce lamellari in alluminio intrecciate che vanno a formare una superficie ondulata, ora concava ora convessa.

Ma a mio parere, a fianco di questi indubbi meriti nel saper gestire un volume così imponente dentro la città, vi è anche il demerito di aver tradito questa città. Nel senso che i 220 metri del volume architettonico interrompono la prospettiva di Clarastrasse, una strada importante nell’assetto urbanistico di Basilea, che si dipana quasi rettilinea dal ponte sul fiume Reno fino alla Badischen Bahnhof. Non solo, ma ancora più grave è che l’edificio di Herzog e de Meuron va a chiudere, nel luogo mediano di questa stessa strada, il punto focale costituito dallo spazio della Messeplatz e di distruggere la vista della bella torre vetrata di Morger & Degelo & Marques che domina questa piazza e che era visibile nella sua verticalità da lontano, nella prospettiva di Clarastrasse. Oggi ci sono dei buoni motivi per sostenere la spinta a densificare le città. Ma ha il suo prezzo. E denuncia anche i suoi pericoli. Specie quando, come qui a Basilea, tradisce quei valori urbanistici che danno significato alla città stessa.

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