Il ter­ri­to­rio dell’Ac­ca­de­mia

Publikationsdatum
08-04-2019

Fin dalla sua nascita, l’Accademia di architettura ha sempre promosso con intenzione formativa e di ricerca la «cultura del progetto», ovvero la pratica di quel processo che attraverso la conoscenza, la prassi e la tecnica necessaria genera l’atto creativo: dall’intuizione alla realizzazione.

Su questo «cardine», parallelamente alle aree teoriche a base umanistica, tecnica ed espressiva, si basa principalmente l’attività didattica. L’obiettivo è quello di una risposta critica alle sollecitazioni della cultura contemporanea che attraverso il mestiere si deve provocare.

Nel suo lavoro quotidiano nelle aule, negli atelier, nell’Istituto di Storia dell’architettura, nella Biblioteca dell’Accademia con i suoi preziosi fondi e i numerosissimi libri, nei laboratori (Labisalp, Laboratorio Ticino, Osservatorio Sviluppo Territoriale), nell’Archivio del Moderno, attraverso le pubblicazioni della Mendrisio Academy Press e nelle numerose attività culturali che propone al pubblico (anche attraverso la vivace Organizzazione Studenti Mendrisio), la nostra scuola – a oltre vent’anni dalla sua fondazione – è in grado di sollevare questioni che pur muovendo dalle più strette competenze disciplinari si aprono agli scenari sociali, economici, filosofici e politici in cui l’architettura inevitabilmente opera.

Il Teatro dell’architettura appena inaugurato, strumento unico nel suo genere che l’USI e la Fondazione del Teatro hanno voluto e realizzato, dove attraverso mostre, eventi e performance il «mondo» delle arti viene «messo in scena», chiude significativamente la ricchezza degli strumenti che l’ambiente, in pochi anni, ha costruito con grande lavoro.

L’«apertura mentale» e la «solidità propedeutica» che intendiamo provocare, la capacità critica e un approccio creativo mai disgiunto dal pensiero razionale sono la strada percorsa e confermata dai risultati, per preparare i futuri architetti alla complessità e alla bellezza della pratica oltre che a dar senso all’Accademia come strumento sociale pubblico che attraverso la didattica costruisce un «epicentro» culturale sul territorio.

La ricchezza di studenti stranieri, la «fama» che una volta diplomati gli allievi diffondono in ambienti vicini e lontani ci premiano e ci responsabilizzano.

All’Accademia l’architettura è un linguaggio, non una tecnica da gestire. Per questo motivo il sistema «costruttivo» in ogni sua componente è considerato costitutivo di un atto culturale che se esiste, lo legittima.

La «natura», è sempre stata l’inevitabile e necessaria «interfaccia» su cui l’esperienza del progetto prende fisicità e verità sull’idea di fondo di un’evoluzione umana. Lo stesso fitness umano si costruisce attraverso atti fisici costruttivi e per questo ci impone qualità architettonica.

Una scuola di fondamento «umanistico» – come hanno voluto coloro che l’hanno creata circa vent’anni fa – non è una scuola «antropocentrica» in senso stretto, ma della civiltà culturale in senso ampio, responsabile di quei valori aggiunti alla basica sopravvivenza biologica. Le Corbusier, descrivendo i fini della disciplina, ha già usato la definizione objets à réaction poétique.

Gli atti culturali, dunque, appartengono a una «visione» che si traduce in modi.

Questi vanno continuamente esercitati, qui e ora, non sono generali, universali, atemporali o delocalizzati e devono quindi essere «ecologici», nel senso puramente letterale della parola: legati all’ambiente e al momento.

Per trasformare il «rumore» in cultura, l’unica via è dunque l’esercizio.

Come già scritto la nostra scuola non solo fa propria questa finalità ma si propone anche e soprattutto come luogo dove l’esercizio diventa esperienza. Una caratteristica, a mio parere, oggi fondamentale.

Dunque qual è, è stato o sarà il territorio dell’Accademia di architettura dell’USI a Mendrisio?

In che senso territorio? fisico e/o virtuale? Con quali interazioni?

Oggi, dove inizia l’uno e finisce l’altro?

Il primo ha condizioni fisiche, il secondo astratte. La parola, la scrittura la sua «tromba di guerra». Entrambi sono super-potenti.

Diserzioni forse imprecise e solo abbozzate per definire però l’unico comune denominatore che ritengo ineludibile in entrambi: l’uomo come progetto d’ambiente.

Il primo direttore dell’Accademia, Aurelio Galfetti, poneva come base della scuola la condizione che essa (scuola e architettura indifferentemente) fosse dedicata al miglioramento della vita dell’uomo. Oggi queste parole hanno un timbro meno preciso e più difficile da definire. Se il modernismo è stato l’ultimo chiaro progetto della società, oggi il capitalismo globale o tecnologico ci confonde (molto) le idee.

Per citare qualche «gesto» nel senso di definire e esplorare il territorio contemporaneo penso a McJesus – il Cristo dell’artista finlandese Jani Leinonen che ha sostituito la figura di Gesù con il clown del McDonalds (2015) –, al recentissimo libro ideato da Valerio Olgiati e scritto da Markus Breitschmid, Non-Referential Architecture, al primo numero di «Domus» del 2019, diretto da Winy Maas, dal titolo You are urbanism, alla mostra realizzata al nuovissimo Teatro dell’architettura USI di Mendrisio: Khan e Venezia, curata da Elisabetta Barizza e Gabriele Neri, e al libro YELLOWRED di Boesch, Lupini e Machado.

Materiale per esploratori.

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