Una fi­gu­ra em­ble­ma­ti­ca in un'epo­ca di gran­di tras­for­ma­zio­ni

L’eccezionale vicenda umana e professionale di Giovanni Lombardi si è sviluppata in un lungo periodo storico durante il quale la figura dell’ingegnere progettista ha conosciuto mutazioni di grande rilievo. 

Publikationsdatum
04-06-2018
Revision
04-06-2018
Andrea Debernardi
Ingegnere civile, dottore di ricerca in pianificazione territoriale e ambientale, docente a contratto presso il PoliMi, direttore tecnico dello studio META

Portatore di un sapere tecnico (quasi) indiscusso, che ne faceva uno degli artefici della grande fase di sviluppo economico dei Trente glorieuses, l’ingegnere ha dovuto successivamente confrontarsi con i grandi temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale, inserendosi in un quadro sempre più complesso di conoscenze tecniche specialistiche, ruoli e norme sociali, che hanno reso di giorno in giorno più arduo riconoscere il legame tra progettista, progetto e trasformazione effettiva del mondo reale. Il carattere emblematico delle realizzazioni di Lombardi, e forse più ancora il ruolo che egli ha saputo assumere come esperto autorevole e imprenditore pioniere in taluni campi disciplinari, possono allora diventare la base per una riflessione sul ruolo attuale dell’ingegnere progettista, sulle competenze che gli sono richieste, sul riconoscimento che gli spetta, e sulle responsabilità che è chiamato ad assumere.

Sarà peraltro una riflessione di carattere ancora incerto e frammentario, che procederà necessariamente per spunti isolati e argomentazioni ispirate da alcune delle realizzazioni più importanti di Lombardi. Sono infatti proprio queste realizzazioni a esprimere la visione del loro autore, tramandandola anche a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona.1

Calcolo e intenzionalità di progetto

Spunto progettuale: i ponti di Préchacq e sulla Triouzoune

Opere di un progettista non ancora trentenne, i ponti realizzati in Francia – a Préchacq e sulla Triouzoune – testimoniano una sorprendente sicurezza compositiva, che trova le sue basi in una grande dimestichezza con le tecniche di calcolo, allora eminentemente manuali. Le soluzioni identificate, ben diverse tra loro, appaiono ancor oggi valide, in termini non solo di eleganza formale (la snellezza dell’opera), ma anche di processo realizzativo (centinatura e disarmo della struttura).

L’intima relazione fra dimensionamento numerico – fatto eminentemente analitico – e intuizione formale – più propriamente sintetica – è un elemento tipico dei progetti di grandi strutture di tutte le epoche; in Lombardi tuttavia stimolano l’interesse per le tecniche di calcolo automatico allora nascenti, ma destinate ad assumere un ruolo sempre più ampio nell’ambito dell’ingegneria civile.

Il sempre maggiore sviluppo delle tecniche di calcolo automatico offre al progettista strumenti nuovi e potenti, ponendo però problemi crescenti di rapporto tra l’intenzionalità insita in ogni progetto e il senso delle verifiche tecniche, di per se stesse prive di finalizzazione, necessarie per il dimensionamento delle strutture. Del resto, è proprio in quegli anni che, nel celebre romanzo di Max Frisch, l’ingegner Walter Faber cerca di spiegare così la distinzione tra i due livelli:

«… Io le citai Norbert Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, M.I.T., 1948. Naturalmente non intendevo i robot come se li rappresentavano i settimanali a rotocalco, bensì la calcolatrice superveloce, detta anche cervello elettronico perché guidata da valvole elettroniche, una macchina che già oggi supera qualsiasi cervello umano. Due milioni di addizioni o sottrazioni al minuto! Con la stessa velocità sbriga un’operazione di calcolo infinitesimale, logaritmi in un tempo minore di quello che ci occorre per leggere il risultato, e un calcolo che finora avrebbe richiesto tutta la vita di un matematico viene risolto in alcune ore, e risolto più infallibilmente perché lei, la macchina, non può dimenticar niente, giacché include nei suoi quozienti di probabilità tutte le informazioni che le pervengono, più di quante un cervello umano possa immaginare. Ma soprattutto: la macchina non ha emozioni, non ha paure o speranze, che non fanno altro che disturbare, nessun desiderio riguardo al risultato, lavora secondo la logica pura delle probabilità, perciò affermo: il robot riconosce la realtà meglio dell’uomo, sa più di noi sul futuro, perché lo calcola, non fa speculazioni e non sogna ma viene guidato dai propri risultati (feed back) e non può sbagliarsi; un robot non ha bisogno di presentimenti».2

Se il «robot» conosce la realtà meglio dell’uomo, proprio in quanto privo di desideri riguardo al risultato, come utilizzarlo a supporto di un progetto che, in quanto prefigurazione di un futuro auspicabile, a quei desideri e a quel risultato è inevitabilmente orientato? Una possibile risposta, evidente nell’opera di Lombardi, sta nella capacità di porre il problema, attribuendo alla sua corretta definizione un ruolo-guida nei confronti delle tecniche di calcolo che, infatti, vengono incessantemente sperimentate e innovate, mutando da progetto a progetto. Quasi a rispondere alla citazione precedente, molti anni dopo Lombardi scriverà:

«I mezzi di calcolo tuttora a disposizione sono estremamente potenti e ulteriori sviluppi sono prevedibili entro brevi termini. Possiamo perciò immaginarci che fra non molto tutti i problemi teorici importanti potranno essere risolti in modo soddisfacente.

Purtroppo, l’esame della pratica quotidiana conduce a conclusioni assai meno ottimistiche. Si costata che i problemi presentati dalle dighe sono raramente, o forse mai, dovuti ad errori di calcolo, ma bensì ad ipotesi erronee introdotte nell’analisi implicitamente o a volte accettate con estrema leggerezza.

Vi sono poi coloro che preferiscono calcolare piuttosto che ragionare e capire.

Norme, regolamenti e metodi codificati in numero eccessivo non favoriscono neppure lo sviluppo dello spirito critico in quanto rimandano ad altri la responsabilità della scelta di ipotesi e di procedure. L’utilizzo dei metodi di calcolo raffinati non può in nessun caso sostituire le conoscenze pratiche e teoriche di chi opera nel campo delle dighe (…).

Il rimedio a questa pericolosa evoluzione va forse ricercato nello sviluppo dello spirito critico dello studente prima e dell’ingegnere poi. In fondo l’intuizione dell’ingegnere basata sulla profonda e solida conoscenza delle leggi della fisica, della meccanica, della geologia e geotecnica ovvero sulle scienze naturali in genere dovrebbe permettergli d’intravedere la soluzione del problema già prima di passare al calcolo. Solo così potrà giudicare la validità dei risultati ottenuti».3

È in questo modo che la finalizzazione tipica del progetto si inserisce all’interno delle procedure analitiche, le interroga, quasi forzandole nella loro articolazione, in modo che il calcolo, di per sé indifferente al risultato, risponda alle aspettative del progettista (o anche, nel caso, che le deluda, ma su una base rigorosa che permetta di modificare ed elevare il livello della sfida tecnica insita nel progetto).

Si tratta, però, di un processo non neutrale, in quanto il progettista stesso, acquisendo familiarità con tecniche di calcolo via via più complesse, che definiscono campi di possibilità tecniche sempre meno intuitivi, non può infine che farsene parzialmente influenzare, assumendo così certi risultati, selezionati in base al loro interesse, come elemento di maggior conoscenza e, dunque, base di riflessione per future intuizioni formali. Ed è in questo modo che, contemporaneamente al conseguimento dei risultati «senza bisogno di presentimenti», il calcolo analitico svolge a sua volta, innegabilmente, un ruolo di orientamento della capacità del progettista di intravedere le soluzioni del problema stesso e, dunque, nell’identificare gli esiti anche formali dell’attività di progettazione.

Opera, contesto, (in)visibilità

Spunto progettuale: diga di Contra in Val Verzasca

La sperimentazione di tecniche di calcolo avanzate, già importante nel caso dei ponti francesi, svolge un ruolo-chiave anche nel primo importante progetto ticinese di Lombardi, ovvero la diga di Contra in Val Verzasca. L’esito finale, giustamente celebrato per i risultati ottenuti in termini strutturali, risulta però qui orientato, ancor più che nel caso precedente, da un terzo fattore-chiave, e cioè la profonda conoscenza del sito prescelto per la realizzazione dell’opera. È in effetti ampiamente riconosciuto che, in campo geotecnico, l’applicazione delle tecniche di calcolo debba essere attentamente soppesata in funzione non soltanto delle finalità progettuali, ma anche delle peculiari caratteristiche dei terreni interessati, continuamente variabili da luogo a luogo, in modo anche discontinuo, a seconda della storia geologica del sito. Ne deriva che porre correttamente il problema progettuale significa assumere una dettagliata e profonda conoscenza di un contesto che, nonostante le dimensioni imponenti dell’opera, ne costituisce la cornice ambientale comunque preponderante, non soltanto sul piano funzionale delle spinte e delle resistenze in gioco, ma anche su quello formale della collocazione dell’intervento all’interno dell’ambiente naturale.

D’altro canto, forse anche a causa dell’attenta conoscenza del sito, le scelte progettuali qui appaiono il più possibile aderenti alle condizioni locali del substrato. Ne deriva quasi un paradosso, che si ripeterà poi più volte nel corso dell’attività professionale di Lombardi: l’opera, imponente e tutto sommato molto vicina al Piano di Magadino e all’area urbana di Locarno, tutta stretta nella sua gola, non è quasi visibile dal mondo esterno. In certa misura, anzi, non è stata pensata né realizzata per essere vista: anche se evidentemente frutto di un processo non esclusivamente funzionale, la sua ideazione non è avvenuta in rapporto a una possibile fruizione formale da parte di un osservatore esterno. In questo modo, essa assume un valore quasi «anti-architettonico», comunque non monumentale, affidato non tanto alla proiezione sul mondo esterno di una astratta intenzionalità progettuale, quanto nella capacità di instaurare un dialogo articolato con il suo intorno, che ne viene infatti profondamente trasformato.

Singoli gesti, occasioni, genius loci

Spunto progettuale: nuova strada e galleria autostradale del San Gottardo

Nei viadotti realizzati per la nuova strada di valico del San Gottardo (1966-1970), Lombardi fornisce un’altra interpretazione del possibile dialogo fra infrastruttura e contesto territoriale. Dove non ha più modo di aderire al pendio divenuto troppo ripido per consentire il tracciamento di tornanti di raggio adeguato, la strada se ne distacca, con semplici viadotti, fra cui quello di Fieud, profondamente inflesso a coronare un tornante. Concretizzandosi in un gesto leggero, quasi minuto in rapporto alla grandiosità del contesto, la soluzione realizzata eccelle per la sua semplicità composta e commisurata al problema: lo scopo è «correggere» una situazione specifica, non certo quella di «imporre» al versante un intervento che ne neghi le peculiarità fisiche, e nemmeno i caratteri formali.

Vengono qui in mente la vecchia strada del Gottardo (Tremola), o anche quella dello Stelvio, il cui principale valore consiste forse non tanto nella «grandezza» dell’opera umana sovraimposta al contesto, quanto piuttosto nella sua capacità di aderire tenacemente al terreno, sfruttandone le caratteristiche per conseguire l’obiettivo ultimo di attraversamento del valico, e articolando in modo soltanto leggermente diverso la giacitura dei luoghi, in ultima analisi facendosi essa stessa versante montano.

È difficile dire quanta parte di questo esito sia dovuta a intenzioni effettive del progettista di allora, e quanto invece risulti dalla limitatezza dei mezzi di cui disponeva: ma a ben vedere tra i due fattori non esiste reale contrapposizione, in quanto ogni progetto, in ultima istanza, consiste proprio in una esplorazione dei limiti tecnici dell’azione umana, in rapporto a obiettivi funzionali preordinati, ma anche all’inevitabile condizione relazionale con l’intorno naturale e costruito, che ne costituisce insieme vincolo e condizione.

Né lo specifico genius loci espresso da Lombardi nella strada del Gottardo dovrebbe meravigliare, se si tiene conto che egli stesso era originario della Leventina. Si tratta di una circostanza invero comune per i progettisti dei grandi attraversamenti alpini, stradali e ferroviari, come Germano Sommeiller o Luigi Negrelli, anch’essi figli di quelle stesse «terre alte» che, con la loro opera, si sforzavano di attraversare. Ed è forse possibile arguire che alcune fra le maggiori intuizioni progettuali di Lombardi – come ad esempio la curvatura assunta per tracciare il successivo traforo autostradale (finalizzata nel contempo a migliorare il posizionamento dei condotti di areazione e a evitare le cattive condizioni geotecniche intercettate dal vicino tunnel ferroviario), siano state il risultato, più che della sua semplice competenza di progettista, di una minuta conoscenza dei luoghi interessati dall’intervento.

Ne deriva comunque, anche in questo caso, seppur indirettamente, un profondo rispetto per gli equilibri naturali soggiacenti all’azione umana, che realizza opere comunque «piccole» rispetto all’entità delle forze naturali sollecitate dalla loro realizzazione. Questo rispetto per il contesto tende oggi a configurarsi sempre più come aspetto basilare della professione dell’ingegnere civile.

Autorevolezza (e solitudine) dell’esperto, ruolo sociale dell’imprenditore

Spunto progettuale: attività in Turchia, Algeria, Ecuador, Messico

In misura emblematica, Lombardi non è stato soltanto calcolatore e progettista, ma esperto autorevole, consultato ai massimi livelli a supporto di scelte pubbliche strategiche. In questa veste, è stato certamente in grado di orientare discussioni e decisioni, assumendosi – anche in giovane età – responsabilità molto rilevanti circa l’effettiva fattibilità tecnica di opere infrastrutturali complesse, come la diga di Contra, realizzata con altezza molto superiore a quanto inizialmente preventivato dalla Committenza.

Questo ruolo gli derivava innanzi tutto dalla sua profonda conoscenza delle dinamiche fisiche, meccaniche e naturali che fanno da necessaria cornice alla progettazione, di norma non attingibili al normale dibattito politico, e basate su una analisi meticolosa e il più possibile oggettiva delle singole situazioni. Ma in questo caso la responsabilità del tecnico è anche motivo di solitudine: ci si assume, infatti, l’onere di indicare una soluzione, sapendo che la realtà è il giudice più severo, e che non mancherà di confermare o smentire le ipotesi alla base del progetto. Nel contempo, l’esito rilevante in termini di decisioni di pubblico interesse conferisce notorietà e autorevolezza, con esiti in termini di prestigio personale, che possono però accompagnarsi anche a un incremento della pressione esercitata dalle aspettative sociali nei confronti dell’esperto stesso.

È un meccanismo che si ritrova anche nella costruzione (sociale) delle «archistar», ma che merita forse qualche ragionamento più approfondito circa il «giusto» livello di responsabilità attribuibile alle competenze personali, entro un contesto tecnico sempre più affollato dal punto di vista normativo e procedurale. Da un lato, infatti, il rispetto della norma costituisce una fondamentale garanzia, volta a ricondurre la gestione dei rischi tecnici entro una soglia socialmente accettabile (le norme tecniche europee sulla costruzione delle gallerie stradali e ferroviarie parlano di ALARP = As Low as Reasonably Praticable). Dall’altro, la costruzione stessa di norme adeguate alla complessità dei tempi richiede un orientamento «esplorativo», che può essere governato soltanto da tecnici o istituzioni altamente competenti e autorevoli sul piano disciplinare.

Nel caso di Lombardi, poi, il piano dell’autorevolezza tecnica si sovrappone, sin quasi a fondersi, con quello dell’attività imprenditoriale. Grande conoscitore della materia e antesignano del calcolo numerico, egli è stato in grado di riunire entrambi gli aspetti in un’esperienza di successo, che – non a caso, in un’epoca di grandi società di ingegneria in qualche misura «anonime» o impersonali – continua a portare il suo nome. Nel conferire alla sua società metodi, logiche progettuali e intuizioni, egli sembra essere stato in grado di trasferire a una struttura organizzativa più ampia una capacità di connotazione «autoriale» spesso oggi smarrita nella complessità dei processi e nella separazione dei tecnicismi che cooperano nella progettazione delle grandi opere. Non è raro (almeno in Italia) che delle grandi realizzazioni infrastrutturali si finisca per perdere il senso unitario, non riuscendo più a ricondurre la configurazione assunta dall’opera a una precisa intenzionalità, espressa da uno o più progettisti, e talora persino a un rapporto adeguatamente commisurato fra obiettivo iniziale e strategia realizzativa. La figura di Lombardi testimonia che un approccio almeno in parte diverso è possibile, e che il mantenimento di una responsabilità sugli esiti finali del progetto è un risultato attingibile, pur di poter contare su una struttura professionale coesa e motivata.

Sarebbe interessante, in questo senso, provare a capire in che modo sia possibile facilitare la disseminazione di esperienze così legate a singole personalità, innalzando la qualità media della progettazione, e con essa il livello di responsabilità e di riconoscimento sociale delle società di ingegneria. La risposta, presumibilmente, non potrà prescindere da un alto livello di dedizione, né dalla consapevolezza dell’importanza della formazione dei collaboratori, secondo un’etica del lavoro che, sola, può garantire di guardare con ottimismo alle sfide del futuro.

L’ottimismo del progetto tra ambizione e sostenibilità

Spunto progettuale: tunnel di base del San Gottardo

In un famoso saggio di qualche anno fa, l’economista tedesco Werner Rothengatter e i suoi colleghi pianificatori Bent Flyvbjerg e Nils Bruzelius descrivevano il rapporto tra grandi opere (Megaprojects) e rischi economici come una «anatomia dell’ambizione». Effettivamente, numerosi studi hanno confermato la sistematica tendenza, da parte dei progettisti di infrastrutture di trasporto (specie ferroviarie), a sovrastimarne l’utilità e a sottostimarne i costi, discostandosi così, talora in misura netta, dalle premesse iniziali di fattibilità delle stesse.4 Ne è derivato un dibattito internazionale, anche acceso, relativo alle modalità di valutazione economica delle «grandi opere» e alle loro conseguenze in termini di allocazione dei corrispondenti rischi finanziari, di natura sia pubblica che privata.

Tuttavia, a ben vedere, è in qualche misura inevitabile che ogni progetto porti con sé una certa dose di ottimismo, connaturata all’idea stessa di una condizione futura migliore dell’attuale; ed è anche evidente che, senza una qualche dose di ambizione, nessun progettista si assumerebbe la responsabilità di ideare nuove tecniche, metodi, opere, facendosi carico dei corrispondenti rischi. Ma fino a che punto la spinta dell’ambizione può essere giustificata quando questa fa conto su risorse pubbliche, di cui il progettista, e l’insieme delle tecnostrutture entro le quali si trova ad operare, debbono rispondere nell’ambito di precisi mandati istituzionali? Senza voler negare il ruolo attribuibile all’autorevolezza del tecnico e alla sua capacità di controllo del processo di ideazione dell’opera, è oggi sempre più necessario che questo processo si collochi efficacemente entro procedure di valutazione (economica, ambientale, sociale…), condotte on the safe side allo scopo di rendere più trasparenti le scelte di progetto.

Riprendendo una frase dello stesso Lombardi: «L’ingegnere deve saper immaginare anche soluzioni che escano dallo schema tradizionale, ma poi saperle analizzare e valutare pacatamente senza lasciarsi trascinare dagli eccessivi entusiasmi sollevati, se caso, dall’originalità della sua proposta».

Evidentemente, tutto ciò rende sempre più complessa l’attività del progettista, allontanandolo da ogni possibile profilo «pionieristico», e depauperandone forse, almeno in parte, i caratteri di innovazione e originalità. Ma è possibile anche che, se ben intesa, la crescente articolazione dei rapporti tra progettisti e valutatori di progetti ponga ai progetti stessi nuove sfide culturali, finalizzate a inquadrare meglio i rapporti tra responsabilità progettuale e committenza pubblica, all’interno di contesti politici complessi e a volte contraddittori, ma pur sempre ispirati (almeno si spera) a principi di diritto e democrazia.

D’altro canto, il rispetto per le dinamiche ambientali è sempre stato un tema caro a Lombardi, che in alcuni casi ha saputo anche farsi precursore di criteri, quali l’efficienza energetica, oggi considerati «quasi» normali, anche se non sempre ben conosciuti nelle loro implicazioni sostanziali. E si tratta di criteri sempre più rilevanti nel caso della progettazione delle grandi infrastrutture di trasporto, un tempo considerate semplicemente come «motori dello sviluppo economico», ma oggi spesso contestate come potenziali elementi disgregatori della qualità ambientale e degli equilibri ecosistemici ad essa collegati.

Compare così, di nuovo, il tema dei limiti, della misura. Ed è probabilmente emblematico che esso emerga proprio dall’opera di un grande progettista di opere enormi e invisibili, la cui pregnanza sta forse, più che nel proiettare una astratta intenzionalità progettuale, soprattutto nell’instaurare un dialogo con il loro intorno: il progettista parla – dicendo qualcosa – soltanto dopo aver ascoltato; né pretende infine di trovarsi al centro dell’attenzione. Si tratta (forse) di un insegnamento fondamentale, in un’epoca chiaramente contraddistinta, anche all’interno delle professioni tecniche, da un eccesso di narcisismo; senza però che l’understatement si traduca in una sterile attitudine mimetica, facendo perdere di vista le responsabilità connesse all’aver progettato, ovvero all’aver «detto qualcosa» in quella situazione, in quelle condizioni, collaborando, per quanto possibile e opportuno, alla trasformazione del mondo.

 

Note

  1. Desidero ringraziare l’ing. Francesco Amberg e l’ing. Andrea Pedrazzini per gli utili riscontri e suggerimenti, tanto più preziosi in quanto derivanti anche da una diretta conoscenza del protagonista del mio scritto.
  2. Max Frisch, Homo Faber, ed. orig. 1957, trad. it. Feltrinelli, Milano 1997, pp. 64-65.
  3. G. Lombardi, La modellazione nel campo delle dighe in calcestruzzo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2004.
  4. Anche se questo non sembra essere il caso della Nuova Trasversale Ferroviaria Svizzera, che si è caratterizzata per un incremento di costo tutto sommato ridotto rispetto al preventivo iniziale, e per evoluzione dei traffici nel complesso in linea con le previsioni.

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