Re­cen­sio­ne a Mat­thew Min­drup, «The Ar­chi­tec­tu­ral Mo­del»

Un libro che ricostruisce la storia del modello fisico e del suo ruolo nel progetto prima dello sviluppo accelerato delle tecnologie dell’informazione e delle tecniche di rappresentazione.

Data di pubblicazione
14-01-2021

Mentre la pratica architettonica e la sua comunicazione sembrano affidarsi sempre più alla crescente potenza dei mezzi digitali, ecco un libro che ricostruisce la storia del modello fisico e del suo ruolo nel progetto prima dello sviluppo accelerato delle tecnologie dell’informazione e delle tecniche di rappresentazione. Si tratta di uno sguardo retrospettivo, in parte nostalgico (inevitabile per una disciplina come l’architettura che fa della mediazione tra tempo e spazio uno dei motivi della propria necessità), temperato tuttavia dal dispositivo che sovrintende all’organizzazione tassonomica del volume. Il difficile problema della classificazione di una famiglia di oggetti che oscilla tra descrizione della realtà e immaginazione di una sua possibile trasformazione viene infatti risolto dall’autore organizzando i numerosi e interessanti materiali raccolti attraverso la loro «funzione». La ricerca esplora a largo raggio la dicotomia tra rappresentazione – cui è prevalentemente dedicata la prima parte del libro – e progetto – affrontato maggiormente nella seconda –, rivelando una inclusiva e sfaccettata fenomenologia. Tra il capitolo iniziale, dedicato alla restituzione dell’esistente e alle sue componenti feticiste e didattiche, e il testo conclusivo, sul ruolo del modello come motore della proliferazione concettuale e ideativa, scopriamo una serie di condizioni più sfumate: dagli aspetti onirici e affettivi a quelli strumentali; dalla questione della «risoluzione» o astrazione dei modelli (di cui Leon Battista Alberti raccomanda la «semplicità») alle complesse interazioni tra la loro materialità – inclusa quella degli objets trouvés – e le qualità dei manufatti fisici di cui si stanno cercando forme e caratteristiche.

Nel costruire di volta in volta i molteplici punti di vista offerti al lettore, Matthew Mindrup si avvale di una varietà di strumenti concettuali sofisticati, spesso suggeriti dall’intervallo temporale particolarmente vasto preso in considerazione (i reperti commentati coprono circa sei millenni di storia) e dalla necessità di interpretare gli aspetti della rappresentazione fisica, intenzionale o accidentale, all’interno delle culture che le hanno espresse. Tuttavia, le «sezioni» tracciate lungo ciascun capitolo connettono rapidamente tempi molto distanti, alimentando produttivi cortocircuiti tra dispositivi interpretativi differenti, siano essi letterari, estetici, filosofici, legati alla mitologia, all’ermeneutica, all’esegesi biblica, alla semiotica o alla logica formale. Il meccanismo narrativo che ne deriva dà l’impressione di un apprezzabile equilibrio tra fedeltà ai materiali commentati (alle direzioni di ricerca in essi stratificate e che non smettono di suggerire) e simmetria dell’apparato interpretativo che li ordina e li organizza in un insieme coerente di oggetti comparabili.

La «tenuta» dell’impostazione scientifica generale risponde positivamente all’obiettivo di fornire un dispositivo di orientamento a chi volesse approfondire la materia, reso ancora più efficace dai riepiloghi a conclusione dei capitoli, e rende plausibile la possibilità di affrontare una prospettiva storica così ampia. Quest’ultima offre al lettore non onnisciente una quantità di aspetti poco conosciuti e vere scoperte (per me deliziosi i vari esempi di rappresentazione degli architetti e della disciplina in cui i modelli sono variamente coinvolti), insieme a inevitabili zone d’ombra. Ad esempio, le vicende contemporanee possono apparire, a chi se ne occupa più da vicino, un po’ compresse, trattate come i materiali più antichi nonostante una disponibilità di informazioni molto più elevata. Tuttavia, merito non secondario della trama ordita da Mindrup è proprio la capacità di offrire questo e altri spunti a ulteriori, possibili indagini. E meritoria è soprattutto l’attitudine a mostrare il potenziale della rappresentazione analogica nell’alimentare il pensiero della trasformazione ambientale.

L’intero volume, anche nel commentare gli episodi più antichi, continua infatti a suscitare riflessioni sulla condizione della disciplina nella lunga transizione verso il digitale e sull’operatività dei propri strumenti specifici: sugli spazi immaginativi che proprio i loro limiti – dimensionali, scalari, materiali – hanno avuto la capacità di aprire e che continuano a offrire al progetto.

«Archi» 6/2020 può essere acquistato qui, mentre qui si può leggere l'editoriale con l'indice del numero.

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