«Living (together) in a material world»
Guida ai nuovi materiali della Biennale
Tra tutti i contributi della Biennale 2021, Silvia Berselli concentra l’attenzione sulle innovazioni nello sviluppo dei materiali da costruzione. Le installazioni propongono una serie di riflessioni sull’ambiente costruito, a volte scaturite da opportunità concrete, altre volte dalla volontà di esplorare nuove potenzialità da tradurre in realtà. Un altro punto da notare: ognuna di queste “innovazioni” continua un'antica tradizione costruttiva.
Il primo impatto con questa Biennale potrebbe risultare deludente: tante buone intenzioni, proposte, blande provocazioni, il tutto presentato in forma di installazioni e video che proiettano il visitatore in una dimensione più prossima a quella della kermesse lagunare dedicata all’arte. Verrebbe da chiedersi dove è finito il progetto: lo abbiamo rincorso nelle sale dell’Arsenale e tra i padiglioni dei Giardini, cercando di individuare un asse tematico che lega lavori anche molto diversi e li mette a confronto, costruendo un tavolo di discussione globale che riteniamo possa essere il contributo più stimolante da mettere in valigia, al ritorno da Venezia: lo stato attuale della ricerca sui materiali.
Identità di pietra
Tra i materiali tradizionali, alla Biennale non c’è solo l’onnipresente legno grezzo. Anche la pietra è oggetto di riscoperta e analisi, ad esempio attraverso l’installazione che apre il padiglione centrale dei Giardini, dove si trova un’impressionante pioggia di ossidiana dello studio keniota Cave Bureau. Il progetto di analisi Jerusalem Stone di Ifat Finkelman e Deborah Pinto Fdeda considera gli effetti di una legge inglese del 1918 ancora in vigore in Israele, secondo la quale tutti gli edifici di Gerusalemme devono essere costruiti con la pietra locale. Questo provvedimento lega la storia materiale della città antica al suo ordinamento politico attraverso l’attribuzione alla pietra di valori simbolici, etici e identitari. Dalla fine degli anni Sessanta però il materiale scarseggia ed è diventato oggetto di speculazioni private e di una trasformazione nell’approccio: da materiale strutturale è stato ridotto a una lastra sottile, cosmetica, da applicarsi indifferentemente a qualunque tipo di soluzione architettonica per mantenere un’immagine stereotipata e compatta del territorio. A causa dello sfruttamento massiccio e sregolato delle cave di pietra, Israele si sta trasformando in un paesaggio lunare e discontinuo, disseminato di crateri profondi, in cui il legame tra natura e architettura da armonico si sta trasformando in perverso.
L’analisi lascia aperta una domanda sulla verità costruttiva, a cui si cerca di dare una risposta dall’altra parte del muro, dove le condizioni di sfruttamento del materiale sono identiche, con il progetto All-purpose dei giovani palestinesi di AAU Anastas. Il progetto nasce da una sperimentazione durata sei anni all’interno del laboratorio Stone Matters, che ha portato alla costruzione in Palestina di strutture a volta in pietra, realizzate adattando alla stereotomia tradizionale le moderne tecniche di modellazione e stampa 3D. Al crocevia tra pratiche locali e impulsi globali, il disegno del prototipo evidenzia i giunti tra le parti, che funzionano come tasselli di un mosaico strutturale in grado di generare morbide volte ribassate su esili pilastri. Il risultato media natura e artificio, presentando un disegno che ricorda il guscio di una tartaruga o l’incastro mobile di placche tettoniche, insieme a una texture che rivela i segni del lavoro umano.
Uomini e robot
Se i materiali tradizionali non sempre riescono a rispondere alle esigenze contemporanee, quali sono i nuovi materiali che si propongono di farlo? I progetti più interessanti in questo senso si trovano nella sezione «Material Culture» alle Corderie dell’Arsenale.
Il laboratorio di produzione digitale diretto da Gramazio Kohler Architects all’ETH di Zurigo presenta diverse realizzazioni sperimentali della DFAB House (uno dei moduli dell'Empa's Nest a Dübendorf) che sfruttano le potenzialità della robotica e della produzione digitale. Lo «Smart Slab» è composto da undici segmenti di 7,4 metri prefabbricati in cemento e assemblati meccanicamente. La geometria è ottimizzata perché aiuta a concepire la struttura, che deve distribuire carichi complessi, con sbalzi fino a 4,5 metri. Il materiale è distribuito in una griglia gerarchica di nervature curve profonde da 30 a 60 centimetri. Tra queste, le superfici di cemento di 1,5 centimetri di spessore sono bombate per aumentare al massimo la stabilità, riducendo al minimo la quantità di materiale necessaria. Di conseguenza il solaio pesa il 70% in meno di un solaio classico in cemento armato massiccio. Da un lato il solaio è retto da una parete ondulata realizzata in «Mesh Mold»: una struttura a rete tridimensionale saldata da un robot industriale, in grado di fungere al contempo da cassero e da struttura, su cui viene proiettato e lisciato il cemento. Dalla parte della facciata, il solaio poggia su colonne modanate in tempo record (4 ore) grazie a un processo di casseratura scorrevole («Smart Dynamic Casting»), completamente robotizzato, che consente la sagomatura di geometrie non standard per estrusione. Le colonne snelle dalle entasi pronunciate e i cassettoni del soffitto riprendono con un linguaggio contemporaneo il tema architettonico classico del dialogo tra natura e artificio, tra forme libere e geometria.
La Maison Fibre è un prototipo su due livelli realizzato dalla tedesca FibR insieme all’Università di Stoccarda e a un team di ricerca sul design strutturale. Il padiglione è costruito in fibre di vetro e di carbonio, intrecciate intorno a supporti metallici dal lavoro di bracci robotici computerizzati. Il prototipo viene concepito come un prodotto tessile, realizzato intrecciando fili mossi da un telaio meccanico. I cavi possono essere stoccati e trasportati in bobine, ma per diventare strutturali devono essere immersi in una resina trasparente, che necessita di diverse ore di essiccazione e cottura. Il progetto è dunque modulare e i singoli pannelli, molto leggeri, vengono prefabbricati in azienda e trasportati facilmente in situ. Il paragone proposto è con la Maison Dom-Ino di Le Corbusier, ma il peso della Maison Fibre per la stessa superficie coperta è di 50 volte inferiore. L’azienda propone un vasto campionario di fibre, anche vegetali, da introdurre nel progetto e assicura l’assenza di scarto e la possibilità di smontare e reimpiegare altrove i pannelli. Il prototipo richiama alla mente alcuni progetti radicali degli anni Sessanta, da Ionel Schein a Chanéac a Pascal Häusermann, che proponevano l’impiego in architettura della plastica, allora materiale innovativo per eccellenza, attualizzando una feconda tradizione di ricerca che mira ad espandere i confini disciplinari e a rinnovare le pratiche. L’azienda costruisce e testa padiglioni sperimentali dal 2011, realizza oggetti di design e sta ultimando il prototipo della prima facciata leggera in fibra.
La presenza dei robot in Biennale è resa tangibile dall’installazione Magic Queen dello studio austriaco MAEID (Büro für Architektur und Transmediale Kunst), in cui un gigantesco braccio meccanico scava e scolpisce una massa di terreno abitata da flora fungina, esplorando il rapporto tra tecnologia e sistemi viventi. I sensori modificano continuamente il comportamento del robot in funzione dei dati raccolti, creando tra i vari elementi un legame simbiotico che viene espresso attraverso un suono ambientale e reso visibile su schermi.
Paesaggi lunari
Le visioni futuristiche raggiungono un punto massimo con il Moon village degli americani SOM (Skidmore, Owings & Merrill), prototipo di insediamento lunare ideato in sinergia con l’European Space Agency (ESA). Se la realizzazione di una base sul nostro satellite appare ancora lontana, la necessità di sviluppare materiali ultraleggeri, gonfiabili, stoccabili in capsule minime, apre un campo di applicazioni ampio e con i piedi ben ancorati a terra. Per le doppie pareti delle capsule residenziali sono stati testati dei tessuti altamente performanti, con un’intercapedine di gas in grado di isolare termicamente l’habitat. Un prototipo di questo tipo potrebbe essere impiegato nelle regioni caratterizzate da climi estremi, come i poli o l’equatore, o sui rilievi montuosi, data la facilità di trasporto, agevolando le campagne di ricerca.
Un paesaggio simile a quello lunare è il territorio arido della Wetland, presentata nel Padiglione degli Emirati Arabi Uniti (EAU). Il sebkha è un ambiente desertico con un’alta concentrazione salina, che l'uomo ha saputo sfruttare per costruire (in particolare si pensi all'oasi di Siwa in Egitto, realizzata con mattoni di sale). Piuttosto che sfruttare questa risorsa in un ecosistema ora protetto negli Emirati Arabi Uniti, il progetto si propone di impiegare i residui della dissalazione, il processo industriale che consente al Paese di ottenere acqua potabile da quella marina. Il magnesio così ottenuto servirebbe come base per realizzare un cemento a bassa emissione di carbonio, potenzialmente neutro, perché indurendosi assorbirebbe CO2. Ricordiamo che per erigere il Burj Khalifa a Dubai sono stati versati 330'000 m3 di cemento. Al centro del padiglione, 3000 elementi da costruzione formano una struttura al contempo artistica e dimostrativa. Gli elementi presentano quattro diverse forme simili a rami di corallo e devono essere sovrapposti studiando la stabilità dell’insieme con modelli virtuali.
Nel complesso i nuovi materiali presentati alla Biennale permettono ai progettisti di sognare, di immaginare scenari futuri non tanto lontani: in fondo, basta un biglietto per Venezia e possiamo toccarli con mano, e chissà che il domani non si possa costruire anche così, con l’aiuto di un braccio robotico e di un cemento che prende l’aspetto di un corallo e si comporta come un albero.
Scritto in italiano, questo articolo è apparso originariamente in traduzione francese nel numero di luglio 2021 di «TRACÉS».