La politica della Biennale: Intervista al Presidente Roberto Cicutto
Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il Presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto per fare il punto sulla mostra di Architettura in corso e, in generale, per discutere sul ruolo chiave dell’istituzione e sulle modifiche apportate alle sue politiche economiche, sostenibili e sociali.
Nato a Venezia nel 1948, Roberto Cicutto si trasferisce a Roma dove intraprende la carriera cinematografica. Nel 1978 fonda la società di produzione Aura Film e nel 1984 costituisce la Mikado Film, con cui distribuisce e produce film dei più rappresentativi registi italiani e stranieri. Dal 2009 al 2020 ricopre la carica di Presidente di Istituto Luce-Cinecittà. Roberto Cicutto è Presidente della Biennale di Venezia dal 29 febbraio 2020.
La selezione di un curatore trasmette un messaggio significativo. Cosa l'ha spinta a scegliere Lesley Lokko per la Biennale di Architettura 2023 e Adriano Pedrosa per la Biennale di arte 2024?
Ho cercato personalità con una prospettiva esterna al mondo occidentale, non tanto per trattare arte e architettura dell’Africa e dell’America del Sud, già ampiamente esplorate in edizioni precedenti, ma per presentare una visione curatoriale diversa. Da ex produttore cinematografico, mi interessava il concetto di “controcampo”, ovvero spostare la cinepresa per inquadrare il punto di vista opposto. Ho conosciuto Lokko nel 2021, quando è stata membro della giuria internazionale della Biennale di Architettura e ho apprezzato il suo approccio incentrato sulla comunicazione e la trasmissione del significato dell’architettura. D’altra parte, Pedrosa sarà il primo curatore della Biennale d’Arte proveniente dall’America Latina, un fatto significativo in 130 anni di storia.
Visitando questa edizione della Biennale, emerge con chiarezza che l'interesse principale sia legato a problematiche sociali, ecologiche e politiche, tanto che, secondo alcune critiche, sembra essere l’architettura stessa a mancare. Pertanto, ci si potrebbe chiedere se sia riduttivo definirla ancora come "Biennale di Architettura" per il pubblico.
L’architettura assorbe i bisogni della società civile e influenza il modo di vivere delle persone più di altre discipline. A tal proposito, Lokko definisce “practitioners” i partecipanti alla sua mostra, poiché ritiene che le condizioni di un mondo in rapida ibridazione richiedano un’interpretazione diversa e più ampia del termine “architetto”. Già nella sua rappresentazione, l’architettura utilizza vari media: cinema, fotografia, arte figurativa, realtà aumentata e intelligenza artificiale. L’inclusione di temi diversi è comune a tutte le arti. Oggi tutto può essere contaminato e contaminabile. L’importante è che i messaggi siano trasmessi in modo comprensibile e non criptico, cosa che Lokko è riuscita a fare. Se in “How will we live together?” Sarkis aveva aperto la strada a un cambiamento di prospettiva, affrontando il tema di possibili convivenze future attraverso un codice di lettura accessibile al visitatore, “The Laboratory of the Future” è una Biennale impegnativa; oltre a rappresentazioni e installazioni, trasmette messaggi che richiedono pazienza e ascolto attento.
Nel 2022, Biennale ha ottenuto la certificazione di neutralità carbonica. In termini pratici, quali sono state le strategie adottate da questa Biennale per raggiungerla e quali risultati tangibili sono emersi? Inoltre, è previsto l’implemento di ulteriori vincoli riguardanti costi, materiali, numero di visitatori o altre variabili?
Il merito è stato quello di non limitarsi al riciclo del materiale utilizzato, alla corretta gestione dei rifiuti e all’ottimizzazione dell’esperienza dei visitatori, che riduce l’impatto globale di un’inezia e serve principalmente a placare la coscienza.
È necessario un metodo e il Covid è stato una scuola. Siamo consapevoli che la parte più rilevante dell’impronta carbonica è legata alla mobilità dei visitatori; allo stesso tempo, abbiamo preso atto che la Biennale non può esistere senza la presenza delle persone. Attraverso un’operazione di monitoraggio resa necessaria per motivi sanitari, abbiamo studiato nuove formule per accogliere il pubblico attraverso un’attività di sensibilizzazione fondata sul dialogo con il visitatore. La riduzione delle emissioni sotto il nostro controllo è affiancata dalla compensazione di quelle residue attraverso il finanziamento di progetti di energia rinnovabile. Come detto, nel 2022, la Biennale ha ottenuto effettivamente la certificazione di neutralità carbonica per tutte le manifestazioni svolte durante l’anno. Un contributo importante in tal senso, proviene proprio dai curatori: Lokko ha riutilizzato e adattato il 90% del materiale dell'allestimento precedente; inoltre, la decarbonizzazione è uno dei temi principali. Per la futura Biennale d’Arte “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, Pedrosa ha impostato una mostra snella nella forma e nei contenuti, con una notevole riduzione del materiale di stampa.
State riflettendo sulla possibilità di immaginare un nuovo formato della Biennale? Pensate di mantenere la divisione per stati, di ripensare la durata dell’evento e dei tempi di preparazione?
Ci sono dei limiti oggettivi: il mandato del Presidente, scelto dal Ministero della Cultura, dura soltanto quattro anni. Ho iniziato nel 2020 e i curatori Hashim Sarkis e Cecilia Alemanni erano già stati incaricati dal presidente Paolo Baratta. Ho nominato Lokko e Pedrosa, che nel 2024 potrebbe anche presentare la sua Biennale con un nuovo Presidente.
Altro tema ancora, riguarda la gestione della curatela. Le Biennali di Arte e Architettura hanno luogo ogni due anni per la loro condizione di contemporaneità, mentre per Cinema, Danza, Musica e Teatro, che hanno un carattere di ricerca e richiedono quindi tempi più lunghi, i curatori hanno un mandato di quattro anni. Per quanto riguarda i contributi nazionali, questi rappresentano una peculiarità della Biennale di Venezia, anche a livello architettonico. I padiglioni sono nati con la Biennale. La prima esposizione si tenne nel Palazzo “Pro Arte”, ai Giardini di Castello, nel 1895. Penso che sia fondamentale mantenere questa formula non per conservatorismo ma per la sua unicità. Inoltre i padiglioni rappresentano uno strumento di statistica e mappatura geopolitica degli artisti e dei temi nel corso della storia.
Qual’è la relazione fra Biennale e Politica? Qual’è il ruolo politico di una Biennale?
I Giardini di Castello sono un luogo unico nella diplomazia culturale mondiale. Anche quest’anno, la Biennale ha aperto le porte agli artisti russi e sostenuto la partecipazione di contributi dall’Ucraina. Già nel corso del Novecento, la mostra ha attraversato momenti di profonda trasformazione legati a crisi, guerre, conflitti sociali e cambiamenti generazionali; i curatori dei padiglioni non in sintonia con i Governi dei propri paesi hanno più volte espresso il proprio dissenso e generato dibattiti politici. La partecipazione simultanea di commissari provenienti da 80 paesi, con differenze geografiche, sociali e contraddizioni interne, rappresenta uno straordinario caleidoscopio di contemporaneità. Il mio primo atto da Presidente è stato chiedere ai curatori dei vari settori di ripercorrere la storia della Biennale in un dialogo interdisciplinare. Da qui è nata l’idea della mostra “Le Muse Inquiete, la Biennale di fronte alla storia”, che è diventata il punto di partenza per trasformare Venezia in un autentico centro di ricerca nel campo delle arti contemporanee. L’ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee, conserva e valorizza il patrimonio dal 1895 ed è destinato a diventare la settima arte della Biennale; un laboratorio dove professionisti, studenti e appassionati possano esaminare le linee teoriche e offrire reinterpretazioni critiche.
In una Biennale apparentemente così orientata all’apertura verso il mondo, qual è stata la motivazione dietro il rifiuto del progetto del Padiglione Austriaco “Partecipazione” che mirava a rafforzare la connessione fra la città di Venezia e la mostra?
Ci sono stati confronti con i curatori e il dialogo continuerà perché il tema del rapporto fra cittadinanza e istituzione pubblica è importante e attuale. Purtroppo, i Giardini di Castello non appartengono alla Biennale ma al Comune di Venezia. L’intera area, così come quella dell’Arsenale, è sotto la tutela dalla Sovrintendenza delle Belle Arti. Non si tratta di un atto di censura, ma semplicemente collegare puntualmente la città e la mostra non è possibile da un punto di vista logistico e di permessi, poiché siamo all’interno di strutture storiche non propriamente flessibili. Aprire un varco o costruire un ponte per consentire all’intera cittadinanza di accedere al padiglione non rappresenta un atto di democratizzazione; a quel punto, ogni padiglione dovrebbe avere la possibilità di farlo. Lo slogan “La Biennale ai Veneziani” mi sembra storicamente forzato e demagogico. I curatori, a cui abbiamo proposto di estendere l’attività in una struttura esterna al recinto della Biennale, non hanno mai realmente considerato di realizzare il progetto ma hanno abilmente impostato la mostra attorno a questo atto mancato.
Quali sono gli spunti più interessanti di questa Biennale di Architettura?
Lo stimolo più interessante è probabilmente anche il più semplice: avere la pazienza, la curiosità e l’interesse di capire che ci sono voci che sono ascoltate meno di altre; se ci mettiamo alla ricerca di queste voci, possiamo imparare molte cose.
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