Ju­liaan Lam­pens, Ca­sa Van Was­se­n­ho­ve, Sint-Mar­tens-La­tem, 1974

La visita

Per la nostra serie estiva abbiamo chiesto a progettisti e persone vicine al mondo della progettazione di raccontarci la loro prima visita a un'opera architettonica che ritengono notevole. Il primo testo del ciclo «La visita» è scritto da Paolo Canevascini, architetto e insegnante.

Data di pubblicazione
06-08-2021
Paolo Canevascini
Architetto e docente AAM, membro della commissione concorsi SIA Ticino

Sono venuto a conoscenza dell’opera di Juliaan Lampens pochi anni fa, per cui tardi nella mia formazione, in maniera piuttosto fortuita ma forse non così casuale, perché mi trovavo all’interno di un'altra casa capolavoro dell’architettura del XX secolo, Can Lis di Jørn Utzon, di cui ho già avuto modo di scrivere su questo sito per altri motivi. Il trovarsi a parlare di una casa belga con un tedesco all’interno di una casa spagnola progettata da un danese può apparire l’inizio di una barzelletta, ma è forse solo la dimostrazione di come vi sia un filo segreto che lega i capolavori, benché diversissimi per collocazione e soluzione architettonica. Ad ogni modo, dopo avere visto le immagini di questo piccolo gioiello, l’universo Lampens si è aperto in maniera folgorante. Inutile dire che solo pochi mesi dopo questo primo impatto mi trovavo a organizzare un viaggio sulle tracce di questo straordinario architetto. Tra i due momenti, la ricerca di pubblicazioni o notizie per capirne meglio l’opera – e qui ho compreso che la mia ignoranza è anche condizionata dal ridottissimo catalogo di notizie che circondano il maestro fiammingo, pure in patria, dove ha costruito la totalità delle proprie architetture. Persona schiva e isolata, un artigiano paziente dell’arte del costruire, nelle rare testimonianze scritte ha tuttavia saputo essere lapidario e poetico, come nei suoi magnifici schizzi. Poco incline al dibattito pubblico dell’epoca, se non con le opere che gli sono sopravvissute, Juliaan Lampens è morto due anni fa nel silenzio.

La casa Van Wassenhove si trova in un quartiere residenziale di un piccolo borgo delle Fiandre orientali. Senza conoscerne l’esatta ubicazione, a fatica la si potrebbe trovare, per com’è nascosta dalla vegetazione del giardino rigoglioso. Un breve viale porta dalla strada al portico d’entrata, e subito si scorge la facciata meridionale, altrimenti completamente chiusa, espressione fedele della sezione che poi si scoprirà al suo interno. Addentrandosi nell’androne d’ingresso si è subito avvolti dall’elemento domestico del legno: due grandi ante scorrevoli celano un vano funzionale d’entrata. Una porta, anch’essa di legno massiccio, m’introduce in un atrio stretto, basso e scuro, in cui la luce mi richiama all’interno attraverso i primi scalini, che affronto con la fretta di chi vuole conoscere tutto e subito.

Mi ritrovo in un mondo a sé e la percezione è potente. In pochi secondi abbraccio l’intero spazio perché dal centro della casa, girandomi a tutto campo, posso intravedere accenni di ogni elemento abitativo. Mi lascio avvolgere dalla luce che proviene da poche fonti. La più evidente è quella dalla lunga vetrata che regala un quadro orizzontale del giardino, ampio quanto la massima estensione della casa, ma basso quanto basta per dare l’impressione di essere in uno sterminato verde e che il villaggio non esista più. Le altre fonti provengono dall’alto: la prima è un foro rotondo tra il tavolo da pranzo e il piccolo studio; c'è poi un grande taglio posto ad ovest, al di sopra degli spazi più intimi dell’abitazione. Il tetto che cade a cascata, oltre a condurre la luce abilmente in ogni angolo, invita alla salita ancor prima di prendere coscienza del piano giorno (mi rendo conto che è riduttivo parlare di suddivisioni funzionali in una casa tanto fluida), e quindi proseguo sulla scala, che mi porta dapprima a scoprire il recinto quadrato che protegge la nicchia dello studio. La scelta del taglio diagonale ad allargare il piano di lavoro mi ricorda una casa-atelier mai costruita di un altro maestro che sicuramente Lampens ha amato, Le Corbusier. Mi siedo al tavolo e vedo lo spazio del soggiorno dall’alto; qui la presenza del giardino diventa ancora più discreta. Ho voglia di salire ancora; dapprima raggiungo il bagno, protetto da due lame che non si toccano e non lo chiudono. Continuo e oltrepasso l’unica lama portante interna che aiuta il sostegno del tetto e dà protezione all’ultimo spazio, quello destinato al dormire. Un cilindro in legno contiene il letto che, una volta chiusa una porticina anch’essa frazione del cerchio, restituisce solo la luce e l’atmosfera fin qui vissute. Tra il cerchio e le pareti che lo circondano si creano superfici di supporto al puro dormire e si ristabilisce la continuità con il soggiorno sottostante. Ho visto, prima della visita, immagini della casa abitata dal proprietario, un insegnante letterato e solitario, che si è fatto cucire addosso il vestito perfetto. La distinzione tra le funzioni che ho appena elencato svaniva per i libri, gli oggetti e le opere d’arte disposti in continuità su ogni superficie orizzontale. Scendo verso la sala, che finalmente posso godere, ritornando con lo sguardo agli spazi appena visitati. Infine, l’angolo conviviale: un grande tavolo ancorato alla costruzione che deborda verso il soggiorno e pare sorreggere lo studio – o viceversa – introducendo alla cucina, scolpita nel cemento delle pareti perimetrali e completata dall’uso del legno. È il momento di uscire; non faccio fatica a riconoscere la via. L’assenza di riquadri che caratterizza la grande vetrata è interrotta dall’importanza del telaio dell’unica porta che mi accompagna verso la terrazza, dove il movimento del tetto, che qui dà un colpo di reni e si rialza, mi fa scoprire l’ampiezza del giardino. Non pioveva quel giorno, ma nella mia memoria s’insinua il ricordo fasullo dello scrosciare dell’acqua su tutta la copertura, attraverso un doccione che porta in un vaso di raccolta rotondo. Il giardino attorno è uno sfondo, selvaggio e protettivo, per questa casa fuori dal tempo.

Casa Van Wassenhove, nella sua minuscola dimensione, contiene tutto il mondo dell’architettura. Si sente un’abilità estrema nel coniugare una pianta libera ed essenziale con una sezione articolata e complessa sia al suolo che verso il cielo. La stessa discontinuità di quota del piano d’appoggio è una lettura rispettosa della morfologia del terreno, che genera poi la spazialità intera della casa, così come descritto con precisione nelle poche righe dell’autore che commentano l’opera: «ma il ritmo del tetto in pendenza è il prodotto del rilievo del suolo, che presenta una differenza di 1,20 m in rapporto al livello della strada».1 L’unione delle due componenti, pianta e sezione, crea un luogo dove ogni attività ha un proprio focus definito e nel contempo la relazione tra le parti è totale, variando fortemente secondo il punto in cui ci si trova. L’articolazione tra gli ambienti è gestita da forme geometriche pure – il quadrato, il cerchio e, in particolare nella sezione, il triangolo –, che qui si applicano in svariati modi. L’atmosfera è consolidata dalla scelta di tre materiali: il primo è la luce, gli altri il legno e il cemento grezzo, che si occupano di trasportare la prima in ogni anfratto della casa, in maniera misurata rispetto al muoversi del sole. Ci sarebbe anche un quarto materiale, il vetro, ma Lampens lo fa sparire abilmente incastonandolo tra gli altri. E qui sta un’altra grande dote dell’architetto belga: la riduzione del dettaglio attraverso la creazione di soluzioni uniche. La lastra che s’incastra nel cemento, la banale lampadina fatta rientrare nello spessore del solaio disposta in libertà a creare un cielo stellato artificiale, la corrugazione della parete a ospitare fatti tecnici come la cappa di una cucina e molto altro ancora. L’intelligenza nell’invenzione sta anche all’interno del processo che ha portato alla forma: una risposta camuffata all’esigenza di un tetto che non fosse piano, così come richiesto dalle regole edilizie della zona.

Un’opera d’architettura totale, precisa ed emozionante, nella quale sarei dovuto tornare poco più di un anno fa per qualche giorno, assieme a degli studenti; ma la pandemia che tutto ha fermato ha sospeso anche questa possibilità. La casa non si è accorta di tutto questo e so che ci accoglierà di nuovo.

Paolo Canevascini, 19 maggio '21

Tutti i testi della serie «La visita»

Note

  1. In Juliaan Lampens 1950 – 1991, p. 69, catalogo dell’esposizione del 1991 curata direttamente dall’architetto, edizione originale deSingel, Anversa, liberamente tradotto in italiano dall’autore del presente testo.
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