Jo­sep Lluís Sert, Fon­da­tion Mar­gue­ri­te et Ai­mé Maeght

La visita

Per la nostra serie estiva abbiamo chiesto a progettisti e persone vicine al mondo della progettazione di raccontarci la loro prima visita a un'opera architettonica che ritengono notevole. Il terzo testo del ciclo «La visita» è scritto da Vega Tescari, scrittrice e docente all’Accademia di architettura di Mendrisio.

Data di pubblicazione
26-08-2021
Vega Tescari
Scrittrice e docente all’Accademia di architettura USI a Mendrisio

[…] il y a un mot de Kierkegaard qui m’a beaucoup touché, il y a beaucoup d’années déjà, très simple: il dit dans son Journal «Il ne s’agit que de trouver l’endroit d’où il faut voir».1
 

Il complesso architettonico della Fondation Marguerite et Aimé Maeght di Saint-Paul de Vence, realizzato da Josep Lluís Sert e inaugurato nel 1964, è uno spazio che anima il concetto stesso di spazio, ponendolo in sottile e costante dialogo con il tempo, anche atmosferico.

Percorrendo gli spazi esterni di questa sede espositiva votata all’arte moderna e contemporanea, si incontra la corte che ospita opere di Alberto Giacometti, il labirinto di Mirò, i mosaici murali di Marc Chagall e di Pierre Tal-Coat, la vasca musiva di Georges Braque, la fontana di Pol Bury, il giardino (progettato da Henri Fisch insieme a Sert) che accoglie – tra le altre – opere di Calder, e ancora la biblioteca, la libreria e la cappella di San Bernardo; l’esperienza che si vive non è solo spaziale ma anche temporale. Un percorso di tempo che diviene misurazione di sé in rapporto al luogo, ma anche un misurare e soppesare l’aria e la luce, il modo in cui ci avvolgono. L’immersione nel luogo è un incontro tra corpo e spazio, un riconoscere la trama della luce, ma anche e sempre una nuova prospettiva, nuovi spazi, tempi e luci. Sono infatti l’aria e la luce a trasformare e rinnovare costantemente l’incontro con lo spazio; uno spazio che non offre un’unica via di percorrenza, ma molteplici possibilità di andate e ritorni, nel tempo della durata e dell’atmosfera. All’interno lo sguardo si proietta spontaneamente all’esterno, all’esterno è come se l’interno ne fosse una prosecuzione, fatta di aria e di luce. Le vetrate disegnano e incorniciano questa permeabilità, l’entrata e l’uscita continua dello sguardo tra dentro e fuori. I percorsi interni ed esterni delineati dalla dimensione architettonica si articolano così lungo traiettorie fatte di limiti e confini, ma anche di continue aperture di orizzonti, di ipotesi di visione.

Sul tetto, due grandi impluvi si srotolano e si inarcano come onde di luce bianca che diventano la trasposizione architettonica di possibili direzioni, di linee di sguardo e di pensiero. Nell’incavo che si crea, non solo l’acqua ma anche l’aria pare trovare un centro gravitazionale, posarsi con il suo non-peso. Malgrado l’innegabile consistenza materica e l’opacità dei materiali, il tetto possiede un carattere aereo e lascia immaginare che vi si possa riflettere il cielo. Il trasparire della luce negli interni, la trasparenza che caratterizza l’unione tra dentro e fuori, il trasparire del tempo nello spazio, creano una costellazione di trasparenze che pare la cifra stessa della Fondation Maeght, la cui incisiva levità è quella di un’idea forgiata nella materia e di una materia che si fa trascrizione e trasposizione di un’idea. «Un pezzo di ferro è soprattutto un’idea che afferra un uomo, un’idea e una forza, inflessibile come una cosa»,2 afferma Eduardo Chillida, scultore il cui nome e la cui opera sono legati alla Fondation Maeght.

In chiusura, il ritorno all’inizio... Percorrendo a piedi il sentiero che conduce alla Fondation Maeght, immerso nella vegetazione e nelle luci che disegnano le loro personali traiettorie, lo sguardo si proietta verso l’alto, si perde tra foglie e rami, con lampi luminosi che a tratti rendono lo spazio quasi impalpabile, sfumato, in un apparire e disparire che segna tempi e modi di un cammino. L’esperienza spaziale della Fondation Maeght comincia così là dove essa ancora non “esiste”, dove ancora è solo un punto da raggiungere, dove ancora ciascuno deve trovare il punto da cui guardare.

Vega Tescari

Tutti i testi della serie «La visita»

Note

  1. Eduardo Chillida, L’arôme du chemin, Maeght, Paris 2004, p. 39.
  2. E. Chillida, Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, trad. it. di S. Esengrin, Marinotti, Milano 2010, p. 19.
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