Prima l’ar­chi­tet­tura poi la sos­te­ni­bi­lità

Da quando, negli anni Novanta, si è iniziato a parlare di «architettura sostenibile», questa etichetta è partita all'assalto della Baukultur. Ma cosa significa? Quali ambiguità cela? Tra certificazioni forse superflue, tendenze e greenwashing, le riflessioni di Stefano Moor e Yves Schihin di Oxid Architektur a colloquio con Frédéric Frank.

Date de publication
30-06-2021
Frédéric Frank
Professore di teoria dell’architettura e della città all’HEIA di Friburgo

Negli anni Novanta era una materia per pochi specialisti che avevano studiato ingegneria, invece oggi quello della sostenibilità è un tema sempre più centrale sia nell’insegnamento che nella produzione architettonica. Il fatto che alcuni dettagli costruttivi non siano più realizzabili ha un forte impatto sull’espressione architettonica, come pure le problematiche legate alla scelta dei materiali, alla resa della struttura o all’impiego di voluminosi impianti tecnici.

Con uno sguardo volto a progetti emblematici del passato oggi non più realizzabili e uno rivolto al futuro, gli architetti si interrogano sui vantaggi e sui danni causati da questa situazione. A questo proposito, Frédéric Frank ha incontrato Stefano Moor e Yves Schihin, due architetti che hanno completato la loro formazione negli anni Novanta, poco prima di questo profondo cambiamento. Grazie a un background intellettuale e culturale comune dovuto agli studi all’EPFL (Politecnico federale di Losanna) e alle loro interessanti esperienze professionali è nata una conversazione a distanza che affronta le principali questioni legate ai criteri della sostenibilità nell’architettura, soprattutto residenziale.

Frédéric Frank – Pensate che la qualità architettonica sia messa a rischio dalle esigenze legate al rispetto dei requisiti di «sostenibilità» (sociale, economica, ecologica)?

Yves Schihin – Le esigenze legate alla sostenibilità non compromettono la qualità architettonica. Nel caso del nostro studio, ad esempio, abbiamo deciso di sviluppare strategie a favore della sostenibilità, non soltanto aggiungendo norme o misure, ma attuando un approccio veramente globale. Siamo molto interessati a questo tema e in ogni progetto cerchiamo di proporre soluzioni a diversi livelli. Ecco perché il mio socio Urs Rinklef e io l’estate scorsa abbiamo scelto il nome Oxid Architektur quando abbiamo rilevato lo studio fondato da Marianne Burkhlater e Christian Sumi, con cui lavoravamo da circa vent’anni. Con questo nome abbiamo voluto evocare l’evoluzione dei materiali, l’impatto del tempo su di essi, la loro patina. Fin dall’inizio abbiamo cercato di utilizzare materiali sostenibili, e nei nostri progetti questo si traduce in un particolare interesse per la riconversione, il riciclo e l’impiego del legno.

A questo proposito, le conoscenze acquisite nello studio Burkhalter Sumi prima che la sostenibilità diventasse un tema sociale – o peggio, una moda – hanno avuto un valore inestimabile. Inoltre sviluppare strategie per la sostenibilità permette di entrare in contatto con clienti e investitori consapevoli del fatto che in questo settore c’è tutto un mercato. Naturalmente è un’arma a doppio taglio, poiché il loro interesse è principalmente economico: per loro spesso si tratta di avere una unique selling proposition (USP) per potersi distinguere in un mercato a volte poco dinamico, in particolare nell’edilizia residenziale collettiva. Il corollario è che le strategie di questo tipo non possono non avere una certificazione, il che non è sempre una buona cosa.

Stefano Moor: Capisco perfettamente. E a giudicare dal vostro portfolio vedo che sapete di cosa parlate e che la qualità architettonica del vostro lavoro non passa in secondo piano a causa dei cosiddetti imperativi della sostenibilità. Quindi mi fido. Vorrei aggiungere però che appena sento l’espressione «architettura sostenibile» mi irrito. Innanzitutto è il termine stesso a infastidirmi: in italiano «sostenibile» suggerisce un senso di pesantezza assente nel francese «durable», parola di cui gli architetti si appropriano più facilmente.

Yves Schihin: Sì, in tedesco si usa «nachhaltig», un aggettivo più vicino al francese.
 

In effetti in francese «durable» si preferisce a «soutenable», che nella lingua parlata sembra un anglicismo usato male e suggerisce lo stesso senso di pesantezza evocato in italiano. È anche importante precisare che quando si parla di sostenibilità nel campo dell’edilizia, lo si fa spesso impropriamente. La maggior parte delle misure raccomandate riguarda soltanto l’aspetto energetico, cioè solo un parametro delle questioni ecologiche, invece l’idea di sviluppo sostenibile – nel senso corretto del termine – tocca anche temi economici e sociali. La portata della questione è molto più ampia. Una delle missioni dell’architetto è in sostanza quella di creare edifici solidi e duraturi – torniamo alla firmitas vitruviana – che rimangano in piedi molto più a lungo di quanto previsto dai bilanci energetici o economici attuali: come intendete voi questa missione nel contesto odierno?

Stefano Moor – Non so se i valori che insegno come professore di Costruzione e progettazione architettonica all’Haute École de Genève siano validi, ma ho la sensazione che, soprattutto per gli studenti, i vari corsi secondari e quelli relativi alla sostenibilità introducano troppi parametri rispetto all’insegnamento della progettazione. Certamente l’insegnamento dell’architettura ne viene profondamente influenzato, soprattutto in relazione alla missione di cui parlava Frédéric. La mia preoccupazione è che introdurre tutti questi vincoli induca negli architetti in formazione una grande confusione e uno squilibrio tra ciò che è essenziale – a mio parere la corretta collocazione di un edificio e la progettazione della sua struttura – e ciò che viene dopo. In fondo la sostenibilità non è un elemento nuovo.

Il compito dell’architetto è quello di creare un’opera che duri oltre la sua stessa vita, il che ha sollevato a lungo domande sulla qualità della costruzione, sui materiali utilizzati ma anche sul potenziale di sviluppo dell’edificio creato. Per me questo rimanda alla questione fondamentale: come si costruisce? Come possiamo oggi edificare qualcosa che sia destinato a durare? Io preferisco innalzare un edificio nel posto giusto e in un secondo momento affrontare la questione dell’isolamento, del ricambio dell’aria o dell’energia grigia usata per produrre questo o quel materiale. Quando vedo gli stabili di oggi, rivestiti con 25 cm di materiale isolante con un ciclo di vita breve, ho l’impressione che siamo enormemente indietro con i tempi. Quando ero bambino andavamo a sciare con delle giacche così spesse che non potevamo muoverci, sembravamo tanti omini Michelin. Oggi, abbiamo a disposizione giacche più sottili di un centimetro. Non ditemi che non è tecnicamente possibile disporre di materiali isolanti ad alte prestazioni, e quindi più sottili, a prezzi accessibili.

Yves Schihin – Mi pare che siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Sono d’accordo sul fatto che le certificazioni sono seccanti e sono un’arma a doppio taglio. Infatti, se non si fa riferimento a una certificazione è difficile giustificare un’idea – ad esempio nel recupero – anche se il progetto è per sua stessa natura sostenibile. Nel 2020 abbiamo vinto un concorso per la conversione della sede UBS di Zurigo con un progetto chiamato «Buck40». Fin dall’inizio il progetto – che abbiamo chiamato «Riutilizzare, Ridurre, Rivalutare» – ha adottato un approccio sostenibile basato su una strategia volta al mantenimento dell’edificio esistente. La strategia si è poi tradotta in un lifting delle facciate, nella reinterpretazione delle rampe di carico, nell’introduzione di un atrio e nella sopraelevazione dell’edificio esistente tramite una struttura in legno in cui verranno creati dei giardini pensili a terrazze. Però l’edificio non soddisfa di fatto alcuna certificazione, anche se l’intervento è sostenibile: questo ovviamente non ha alcun senso.
 

A volte c’è una completa discrepanza tra gli obiettivi perseguiti e la certificazione assegnata. Ricordo un recente progetto residenziale sviluppato alla periferia di Losanna in una posizione poco attraente, particolarmente esposta al traffico stradale e nelle immediate vicinanze di una linea elettrica ad alta tensione: eppure il costruttore ha basato tutta la comunicazione sull’ottenimento della certificazione di quartiere sostenibile. Il cinismo di questo «greenwashing» lascia senza parole. Però che cosa mi dite della sostenibilità – nel senso più completo della parola – nell’edilizia residenziale collettiva?

Yves Schihin – Lo ripeto, quello che mi interessa sono le strategie progettuali che si possono sviluppare per ottenere alloggi collettivi sostenibili senza dimenticare che si tratta di «architettura». L’insegnamento dei docenti che abbiamo avuto quando eravamo studenti all’EPFL – in particolare Bernard Huet, Jacques Lucan e Luigi Snozzi – rimane fondamentale. Poi, in una seconda fase, bisogna elaborare riflessioni che permettano lo sviluppo di strategie progettuali sostenibili. Nel caso degli edifici residenziali che abbiamo realizzato in via Ghiringhelli a Bellinzona abbiamo valutato la questione della demolizione e ricostruzione dal punto di vista della sostenibilità: la demolizione era inevitabile, ma siamo riusciti a mantenere le fondamenta dell’edificio preesi­stente. Proprio in questo consiste ciò che io definisco «sviluppare strategie progettuali». C’è una visione sostenibile, ma si tratta anche di conservare le tracce del luogo, come le avrebbe definite Luigi Snozzi.

La collocazione del progetto nel suo contesto, per non parlare del suo «ancoraggio», acquista quindi una nuova dimensione. Poi, declinando la tipologia delle «case di ringhiera» presenti nell’Italia settentrionale e in parte anche in Ticino, abbiamo scelto di reinterpretare il sito con riferimenti che ci hanno affascinato. Oltre alla collocazione, che permette di sfruttare al massimo gli esistenti locali sotterranei, la nostra strategia di sostenibilità integra anche parametri economici – riducendo i costi di scavo e collegando appartamenti molto compatti tramite ballatoi – e parametri sociali. A questo proposito, l’aspetto che ci interessa è l’esperienza del «vivere insieme» che proponiamo nel cortile e che trova risonanza nelle diverse proporzioni del progetto, sia nei ballatoi sia nelle planimetrie degli appartamenti.

Stefano Moor – Hai citato un progetto esemplare; certo il vostro studio conosce bene l’argomento e sa trasformare quei vincoli in architettura reale. Quello che contesto, invece, è che il dibattito attuale si concentri sulla sostenibilità per mettere in secondo piano l’architettura. Cito un aneddoto che mi è stato raccontato da Mario Ferrari, ex collaboratore di Luigi Snozzi, a proposito di una riunione di progetto a Losanna cui partecipò negli anni Novanta. La parola sostenibile cominciava allora a entrare nel linguaggio comune. Alla fine dell’incontro Luigi Snozzi chiese: ««Mais qui est ce Monsieur Durable?». Nella sua mente Snozzi aveva selezionato gli elementi essenziali della discussione e questo parametro, già abusato all’epoca, non era tra quelli, il che aveva provocato il divertente equivoco.

Yves Schihin – Certo, tuttavia mi sembra che nella nostra pratica attuale non abbiamo bisogno di inventare nulla per far fronte a queste nuove esigenze. Si tratta soltanto di reinterpretare le conoscenze che già abbiamo.

Stefano Moor – Infatti. Ma il mio punto è che non si può parlare soltanto di sostenibilità. Siamo talmente concentrati su questo tema che a volte perdiamo l’essenza del nostro mestiere. E non sarà certo un intero arsenale di norme a indicarci come farlo. Penso che la responsabilità della sostenibilità andrebbe gestita a livello territoriale, ad esempio in Ticino dove le conseguenze dell’espansione urbana sono catastrofiche. Quali sono le linee guida per intervenire sui siti già urbanizzati? Bernard Huet ha già sollevato la questione dell’«architettura per o contro la città». Al seminario di Monte Carasso abbiamo riflettuto su come densificare queste aree già urbanizzate. Tuttavia dobbiamo ammettere che c’è un enorme divario tra le nostre riflessioni e la realtà prodotta continuando a obbedire ai meccanismi promozionali.

Yves Schihin – Senza dubbio Bernard Huet, sotto la cui supervisione ho conseguito la mia laurea all’EPFL nel 1999, ha dato un contributo essenziale al seminario. Sono precisamente le questioni che abbiamo dovuto affrontare nel progetto di via Ghiringhelli, tuttavia non sono in contraddizione con le strategie di sostenibilità, anzi a nostro avviso sono addirittura complementari. In questo senso, mi sembra che diciamo la stessa cosa. Come architetti, ci interessa capire cosa significa reinterpretare secondo i vincoli della sostenibilità alcuni aspetti fondamentali dell’architettura, ad esempio quelli evidenziati da Louis Kahn: la struttura, lo spazio, la luce. Nel nostro caso è proprio questo che ci affascina dell’architettura in legno. Senza una coerenza costruttiva tra il sistema portante primario, il secondario e il terziario, non c’è realizzazione qualitativa possibile. L’espressione della struttura correttamente eseguita rimane quindi possibile nonostante i forti vincoli energetici. Come ha detto Paul Artaria: «Una casa di pietra può essere progettata, una casa di legno deve essere costruita».

Per continuare a leggere questo articolo, acquista qui «Archi» 3/2021. Qui si può leggere l'editoriale con l'indice del numero.

Traduzione di Alessandra Gallo

Sur ce sujet