Au­to­fo­cus – Tona­ti­uh Am­b­ro­set­ti

Fotografia d'architettura nella Svizzera italiana

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Publikationsdatum
12-03-2020

Come ha iniziato ad occuparsi di fotografia d’architettura?
Come per molte cose nella vita, la prima volta è stata per caso. Nel 2006, durante la realizzazione di un documentario sui rifugiati afghani nella periferia di Teheran, ho ricevuto una telefonata da Fabrizio Raffaele dell'allora PRS architectes che mi chiedeva di realizzare una serie di immagini di un loro progetto in un villaggio tra Ginevra e Losanna. Al mio ritorno in Svizzera ci siamo incontrati e mi ha spiegato il progetto nei dettagli. Devo ammettere che né capivo molto del linguaggio architettonico né riuscivo a leggere correttamente i piani… Ma la cosa che mi affascinava era l'energia e la passione degli architetti coinvolti. Non avendo delle vere referenze visive e teoriche, ricordo che il mio approccio al progetto è stato molto sculturale e poco condivisibile. Ho capito molto in fretta che bisognava mettersi a studiare, e così è stato. 
Oggi l'architettura è qualcosa che mi appassiona molto da tutti i punti di vista, e soprattutto da quello umano e storico.

Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Ho la fortuna di collaborare con molti architetti geniali. Con alcuni da anche più di un decennio. Non riesco sinceramente a fare una lista, anche perché dinamica e tempistiche del mestiere delle volte ti tengono lontano da qualcuno per due anni, e poi nei due anni successivi ci si vede tutti i mesi…
Trovo molto bella la fiducia che viene posta in me quando mi viene chiesto di fotografare un progetto: è qualcosa di prezioso. Sono molto felice quando ricevo richieste da giovani architetti che mi affidano il loro primo lavoro. Spesso con una carica emotiva molto forte e dei progetti con pochi compromessi. 
Più che aneddoti ho la fortuna di avere ricordi di grandi emozioni.
Un giorno di settembre, quando, in piedi su una scala in mezzo alla strada davanti al Tribunale federale di Bellinzona, ho bloccato tutto il traffico per ottenere un'immagine della facciata con la luce perfetta. L'autopostale che aspettava e tanti colpi di clacson… ma niente di grave.
Il primo giorno alla Vitra Haus con il signor Rolf Fehlbaum: prima dell'apertura, insieme a Daniela Droz abbiamo lavorato per un mese intero sul posto al catalogo 
Home Collection.

E una tutta recente: l'estate scorsa a Vezio, in Malcantone, quando, verso le 7:30 del mattino, ho scoperto quanto perfettamente integrato e magnifico sia il progetto del giovane architetto Federico Rella, proprio nel cuore del villaggio…

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout courtSe sì, quali sono le differenze?
La fotografia d'architettura è speciale perché ha come scopo di permettere allo spettatore che non può visitare di persona il progetto di viverlo attraverso l'immagine che ha davanti. Non si potrà mai restituire la sensazione completa che si prova nell'edificio: non avremo mai l'odore dei materiali, il suono dei nostri passi… Prendere coscienza di questo ci permette di scomporre il soggetto principale in soggetti secondari. Un'immagine parlerà del progetto nel suo contesto, un'altra più in dettaglio dei materiali, una dell'evoluzione della luce nei volumi al mattino, un'altra di sera…
La grande illusione è che in un solo scatto si possa riassumere tutto il progetto; si concretizza spesso in fotografie realizzate con l'utilizzo di focali molto corte, magari con più immagini assemblate, che deformano la percezione dello spazio e secondo me si avvicinano più a un rilievo topografico che a una fotografia d'architettura.
Ho la fortuna di lavorare direi per 3/4 dei progetti in pellicola grande formato, cosa che mi obbliga a prendermi il tempo per costruire ogni immagine. Non ho nulla contro la fotografia digitale, anzi: è un mezzo incredibile che anch'io utilizzo, ma la differenza tra le due sta nel modo in cui permette, a me come fotografo, di confrontarmi con la realtà. Quando lavoro in pellicola, visti i costi e le tempistiche non faccio mai un'immagine con una leggera variazione rispetto alla precedente, e non mi faccio prendere dal dubbio. Ogni foto è buona perché mi prendo il tempo necessario.

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Le richieste che ricevo a volte vengono da molto lontano, quindi spesso chiedo piani e immagini del lavoro per farmi un'idea del progetto. Se l'agenda funziona (cosa che in sé è la mia più grande difficoltà pratica), la prima cosa che chiedo è di visitare il progetto insieme agli architetti. Questo per me è il momento più importante. Osservo attentamente il contesto e la posizione per determinare le ore migliori per ogni punto di vista e ascolto con molta attenzione gli architetti che spiegano gli obiettivi del progetto.
Il mio scopo è lasciarlo parlare. Ho una pratica da autore-artista e quando lavoro come fotografo d'architettura mi considero al servizio del progetto; penso semplicemente ad aiutarlo a esprimersi attraverso le immagini. Ogni progetto è diverso e ogni progetto ha una "parola" diversa. Cerco di ascoltarlo e tradurlo in fotografia.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Una fotografia per me molto importante tra quelle scelte (ma lo sono un po' tutte) è quella della capanna Monte Rosa nel suo contesto. Il 4 dicembre 2009, con una temperatura di circa -20 gradi, l'elicottero di Air Zermatt ci posò davanti alla capanna alle 8:30 circa. Della spedizione facevano parte Philippe Carrard, il signor Zurniwen e me.
Scopo dell'operazione: ottenere delle immagini della capanna nel suo contesto invernale. Mentre i miei compagni si occupavano di controllare il funzionamento della struttura, allora al suo primo inverno, io mi sono incamminato verso la montagna per ottenere un punto di vista da cui realizzare un'immagine globale. Dopo un bel girovagare nella neve fresca lo trovai e subito mi resi conto che c'era un grande problema: non avevo assolutamente pensato alla luce invernale! Il sole era molto basso e quindi le montagne facevano ombra al progetto. Mi lanciai in una stima dell'orario ideale e con molto ottimismo immaginai una finestra di sole tra le 13 e le 14, quando la luce sarebbe passata tra il Monte Rosa e il Liskamm.
Ridiscesi e mi misi a lavorare sui dettagli della struttura. All'ora giusta partii in fretta verso il punto stabilito per ottenere l'immagine: uno sprint nella neve fresca con un sacco da 25 kg sulla schiena! Mi ricorderò sempre la magnifica sensazione dopo lo scatto e, chiuso il telaio portapellicola 4x5, quella di averla lì tra le mie mani, questa immagine. 
Tutto quello che ho appena raccontato nessuno lo può capire guardando semplicemente la fotografia. Ma questa mia storia si intreccia con il risultato e la rende per me molto importante.
Per me questa fotografia contiene in una maniera molto semplice tre fattori che sono difficili da riunire in una sola immagine: un contesto di montagna incredibile, con il Cervino sullo sfondo; un progetto che integra perfettamente questo paesaggio; la traccia nella neve che parte dal progetto e va fino al punto di vista della macchina fotografica, dandoci un'idea delle dimensioni e della scala dell'edificio rispetto a tutti gli elementi dell'immagine. 

Nato a Lugano nel 1980, Tonatiuh Ambrosetti è cresciuto a Ponte Capriasca. Ha cominciato a praticare la fotografia a metà degli anni Novanta, prima come autodidatta e in seguito come assistente del fotografo Igor Snider, da cui ha appreso la passione per il banco ottico e la fotografia di grande formato.

Nel 2000 si è trasferito a Losanna, dove ha frequentato l'ECAL fino al diploma, per tornarvi da insegnante nel 2012; da allora è professore titolare. Dopo la laurea ha cominciato a svolgere dei mandati fotografici nei settori dell'architettura, del design e della moda. Al contempo persegue una ricerca artistica incentrata sulla relazione tra uomo e natura, indagata con un approccio pluridisciplinare che include scultura, incisione e fotografia; questi lavori sono stati presentati in gallerie e musei in Svizzera e all'estero.

Dal 2005 collabora con l'artista Daniela Droz sia nella sua ricerca artistica sia per fotografie su commissione.

 

www.daniela-tonatiuh.ch | www.tonatiuh.ch

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