Ar­ti­gas, o i tor­men­ti dell’ar­chi­tet­to en­ga­gé

L'architettura come strumento ed espressione dell'emancipazione dall'arretratezza culturale, come arma per «rompere gli specchi del salotto borghese»: il percorso di João Batista Vilanova Artigas, protagonista dimenticato dell’architettura brasiliana del Novecento.

Publikationsdatum
05-02-2020

João Batista Vilanova Artigas è una delle principali figure dell’architettura brasiliana del Novecento, ma al di fuori del suo paese il suo nome resta sconosciuto ai più. Solo di recente, sulla scia dell’interesse per Paulo Mendes da Rocha, le cose hanno iniziato a cambiare. Negli ultimi anni non sono mancate ricerche fruttuose, ma per una documentata e non ideologica comprensione della traiettoria complessiva della sua carriera resta ancora molto da fare.1 E del resto questo uomo severo e rigoroso, impegnato a stabilire una coerenza forse impossibile tra impegno civile e politico, da un lato, e attività professionale, dall’altro, è figura contraddittoria, problematica e sfuggente.

Le Corbusier e il problema del modernismo

Artigas è architetto paulista, ma non è di São Paulo. Nato nel 1915 a Curitiba, capitale dello stato del Paraná, si trasferì a São Paulo per frequentare il corso di architettura presso la Escola Politécnica della Universidade de São Paulo;2 ai tempi, in Brasile, di facoltà di architettura non ce n’erano ancora. Una volta formato, e dopo aver lavorato per due dei più avanzati studi della città – Oswaldo Arthur Bratke e Gregori Warchavchik –, intorno al 1940 aprì il suo studio: «Marone – Artigas Engenheiros».

A São Paulo all’epoca la figura stessa dell’architetto era ben lungi dall’aver conquistato una significativa nicchia di mercato. Sarà forse un caso, ma Marone e Artigas si firmavano come ingegneri; e sarà forse anche questo un caso, ma l’opera di Artigas comincerà a cambiare in seguito alla nascita della filiale paulista dell’Instituto de Arquitetos do Brasil (IAB/SP), di cui nel 1943 fu uno dei fondatori.

Marone e Artigas realizzarono alcune case interessanti, tra cui la Rio Branco Paranhos e la Rivadávia Mendonça, e il solo Artigas realizzò la sua prima residenza, la cosidetta «casinha». Ma a partire dalla metà degli anni Quaranta, proprio mentre si avvicinava alle posizioni del partito comunista (PCB) e acquisiva visibilità sulla scena architettonica locale (ad esempio, fu segretario dello IAB/SP nelle sue prime due gestioni), iniziò a procedere da solo. Risalgono a questa fase opere come l’Ospedale São Lucas, a Curitiba, e l’edificio residenziale Louveira, a São Paulo, che attestano un netto avvicinamento al modernismo a scapito dei riferimenti all’opera di Frank Lloyd Wright riscontrabili sino ad allora. Resta comunque difficile individuare le fonti di Artigas; ad esempio la mano di Le Corbusier, al contrario che nella coeva architettura carioca, si palesa solo di rado. Non sorprende che l’originalità del Louveira (1946) stia non nel linguaggio, ma nell’impianto planimetrico: invece che rivolgere il prospetto principale verso la piazza antistante, l’edificio – articolato in due stecche identiche – vi affaccia i fianchi ciechi. È l’enunciato programmatico di una poetica: lungi dall’isolare l’edificio dalla città, la soluzione adottata propone un’altrimenti impossibile integrazione dello spazio verde tra le due stecche con quello della piazza. Il confine tra pubblico e privato si fa soglia porosa; l’edificio partecipa della vita urbana non grazie all’orditura delle proprie facciate, ma a una proposta di uso dello spazio.

Per qualche anno, l’impegno politico e lo sforzo di svecchiare l’architettura paulista appaiono procedere di pari ­passo, come se il modernismo fosse l’equivalente in termini estetici dell’agognata trasformazione della società.3 Lo prova il ruolo svolto da Artigas nei primi anni di esistenza del Museu de Arte Moderna (MAM) di São Paulo, per cui di­segnò la prima sede e ricoprì diverse ­cariche.4 Ma era una luna di miele dai giorni contati. Nel 1951, anche in obbedienza a direttive del PCB, ruppe con il MAM e accusò sia Le Corbusier che il fondatore del MAM di essere degli emissari dell’imperialismo americano.5

Artigas, comunque, non ricusò mai il modernismo in nome di un’aderenza al realismo imperante nei paesi del blocco sovietico, o del nostalgico ripiegamento nella tradizione. Il modernismo, insomma, non era in questione. Semmai, la domanda che Artigas ha continuato a porsi è stata quella su quale moder­nismo fosse possibile e opportuno in un paese sottosviluppato. «La verità è che realizzare le tesi lecorbuseriane sulla costruzione, considerando il nostro sviluppo tecnologico, era ridicolo», dichiarerà nel 1982:6 ciò che era stato messo a punto nel primo mondo non poteva essere ­trasposto come nulla fosse nel terzo. Occorreva, piuttosto, mettere a punto un’architettura coerente con l’effettivo stadio di sviluppo tecnico ed economico del suo paese e pertanto capace di operare in maniera trasformativa all’interno delle condizioni date: l’architettura, ebbe a dire, dovrà costruire un «repertorio poetico del desiderio dell’uomo del mondo sottosviluppato di bandire dal suo universo l’arretratezza culturale».7

Enfasi strutturale

Disallineato tanto rispetto alla koiné modernista quanto al realismo socialista, Artigas vivrà a partire da questo momento in un mondo scisso: scisso tra le direttive del partito e un’acuta coscienza critica, tra l’indefessa militanza civile e l’affermazione della necessaria autonomia della creazione artistica. Per lui non ci sarà pace. Si tratterà ogni volta – nei margini di manovra concessi dall’incarico specifico – di misurare le forze, trovare gli equilibri, esibire le contraddizioni, aprire nuovi varchi. Ogni progetto sarà un campo di battaglia.

L’ambito principale (e quasi unico, con l’eccezione dello Stadio Morumbi) su cui negli anni Cinquanta Artigas ebbe modo di compiere le proprie sperimen­tazioni fu la casa unifamiliare. Non fu una scelta, ma una sofferta necessità. ­La committenza interessata all’architettura, a São Paulo, era quella privata; ed è qui che si dedicò, progetto dopo progetto, alla messa a punto di un’architettura impegnata – come scrisse Lina Bo Bardi – a «rompere gli specchi del salotto borghese».8

È in tale contesto che l’architettura di Artigas acquisisce tratti inconfondibili. Se il linguaggio del Louveira sembrava ottenuto per sottrazione di rimandi ­specifici, quello delle opere degli anni Cinquanta sembra voler prendere forma dalle tensioni da cui l’opera è attraversata. A esprimerle con rara forza metaforica – con particolare evidenza in opere come il Santa Paula Iate Clube o l’Anhembi Tennis Clube (1961), o la più tarda Rodoviária di Jaú (1973) – è la struttura. Non a caso, Artigas tende a far cadere l’accento sul conflitto tra aspirazioni e limiti, tra forza e peso: fare architettura, disse una volta, è sfidare
la legge di gravità – è saggiare e forzare il margine di manovra dato.9

Nella pressoché totale interezza della sua opera, tale conflitto ha come teatro la costruzione in cemento armato: materiale da cui l’opera di Artigas è indissociabile, a tal punto da far apparire la costrizione a impiegarlo come un’opzione deliberata. L’acciaio presuppone uno stadio di sviluppo industriale assai avanzato, mentre i materiali da costruzione tradizionali, dal legno ai mattoni, implicano la conservazione di uno status quo; né l’uno né gli altri fanno quindi al suo caso. Il cemento, per contro, consente grandi luci senza richiedere una precisione assoluta nel disegno e nella posa; è materiale che richiede scarsa specializzazione della mano d’opera, ma con la sua povertà e le sue imperfezioni è consono a un paese che si sta industrializzando. Reca in sé i segni del lavoro. Di per sé informe, è l’incarnazione stessa dell’impegno a dare forma al presente in vista di un futuro che non è ancora dato – chance questa che, come Artigas doveva intuire, era ormai preclusa ai paesi sviluppati.

Indifferenza tipologica

Nel 1959 le vicissitudini politiche offrirono ad Artigas l’opportunità di testare le proprie riflessioni fuori dall’ambito della casa. Con l’elezione di Carlos Alberto Alves de Carvalho Pinto a go­vernatore venne avviato nello stato di ­São Paulo il Plano de Ação, che pre­vedeva un vasto programma di opere pubbliche. Artigas era ormai la figura più carismatica della Faculdade de Arquitetura, fondata nel frattempo, e venne coinvolto in tale programma.

Come ho spiegato in altre sedi, è improprio parlare di una «Escola Paulista» capeggiata da Artigas, includendo in ­tale categoria traiettorie accomunabili solo in superficie e, almeno in parte, ­sviluppatesi indipendentemente dall’architetto paranense, anche se è innegabile che nel quadro del Plano de Ação, per cui occorreva elaborare numerosi progetti per le stesse tipologie (scuole e tribunali) in poco tempo, avvenne un intenso scambio di soluzioni almeno tra Artigas e i suoi assistenti, Mendes da Rocha e Pedro Paulo de Melo Saraiva.10

Ben più rilevante è però un altro processo, coevo e dovuto alle stesse ra­gioni: quello consistente nel travaso in opere pubbliche (e a grande scala) di soluzioni sperimentate nelle case. E se vi è un tratto non epidermico che lega l’opera di Artigas a quella di Mendes da ­Rocha è proprio il rifiuto di ogni determinazione tipologica. L’architettura va declinata caso per caso, ma è innanzi tutto una. Il duplice compito dell’architetto consisterà da un lato nell’elaborare l’«abrigo» – la grande copertura che funge da riparo alle attività, non conta quali, destinate a svolgersi liberamente al di sotto della protezione offerta –, dall’altro nell’articolare uno spazio nato come unitario. La casa Taques Bitencourt e le scuole di Itanhaém e di Guarulhos, opere più o meno coeve (1959-1961), si giocano tutte sull’adempimento di questi due obiettivi complementari. E lo stesso succede con il progetto per la sede della facoltà in cui Artigas insegnava.

Come un manifesto, la FAU (1960-1969) incarna ed esibisce larga parte dei principi alla base della sua «poetica». Il fulcro del progetto è lo spazio interno: se fuori è una muta cassa in cemento posata su sostegni dallo strano profilo, l’interno – tutto racchiuso sotto a un unico, colossale «abrigo» – è una complessa concatenazione di spazi che si librano a quote differenti, ma orbitano intorno a un grande vano centrale illuminato zenitalmente. L’accento sullo spazio interno non è casuale: in contrapposizione alle dinamiche che regolano (o meglio, deregolano) la crescita della metropoli, l’edificio racchiude una proposta di spazio pensato per favorire – ancor più che la trasmissione della conoscenza – gli scambi e gli incontri tra le persone. L’interno della FAU, in un certo senso, è quindi un surrogato della strada e della piazza. Oltre che contrapposti, tuttavia, interno ed esterno sono messi in relazione: a piano terra l’edificio è aperto (è «un tempio senza porte», ripeteva Artigas) e, una volta entrati, le rampe s’incaricano di far scorrere i flussi di utenti senza soluzione di continuità. Consapevole della sua alterità rispetto al tessuto urbano, insomma, la FAU si propone di attrarre nelle proprie viscere e proporre un modello alternativo di vita in comune.

L’obiettivo, assai ambizioso, ci appare oggi ancora più toccante alla luce della storia: nel 1969, quando la FAU venne inaugurata, il Brasile era ormai una dittatura. Ma Artigas non era uomo da starsene con le mani in mano. Con il governo militare che lo aveva imprigionato, costretto all’esilio e cacciato dall’insegnamento doveva in qualche modo fare i conti, e l’unico modo in cui sapeva farlo era con l’architettura. In alcune sue opere, come la casa Elza Berquó (1967), esternò una disillusione sino a pochi anni prima inimmaginabile e che suona come una sincera autocritica. Ma con una scelta sofferta decise di non abdicare, malgrado la dittatura, alla sua battaglia culturale e politica. Nella sua deliberata continuità con la produzione anteriore, infatti, la sua opera si poneva ora come un atto di resistenza, come lo sforzo al tempo stesso di perseguire quel che era possibile in un contesto avverso e di trasmettere al futuro il messaggio che l’architettura non è né una disciplina autonoma e autoreferenziale, né un’arma rivoluzionaria. Si trattava chiaramente di una via stretta, difficile e ambigua, in bilico tra contraddizioni sempre più insanabili.11

A quel che sarebbe accaduto dopo Artigas non avrà modo di assistere: morì nel gennaio del 1985, un paio di mesi prima che in Brasile si tenessero le prime elezioni politiche dopo un ventennio di dittatura.

Note

  1. La sintesi più convincente è ancora quella proposta in João Masao Kamita, Vilanova Artigas, Cosac & Naify, São Paulo 2000, ma vale la pena di consultare anche il saggio di Guilherme Wisnik, Vilanova Artigas y la dialéctica de los esfuerzos, in «2G», 45, 2011, pp. 11-24. Tra gli studi dedicati a opere spe­cifiche, si veda Felipe de Araujo Contier, O edifício da Faculdade de Arquitetura e Urbanismo na Cidade Universitária: projeto e construção da escola de Vilanova Artigas. Tesi di dottorato, São Carlos, IAU USP, 2015. Tra le altre pubblicazioni degli ultimi anni, oltre a quelle a cui si rimanderà in nota, cfr. almeno Leandro Medrano, Luiz Recamán, Vilanova Artigas. Habitação e cidade na ­modernização brasileira, Editora Unicamp, Campinas 2013; Miguel Antonio Buzzar, João Batista Vilanova Artigas. Elementos para a compreensão de um caminho da arquitetura brasileira, 1938-1967, Senac–Edusp, São Paulo 2014; Vilanova Artigas e a FAU/USP, numero monografico di Monolito, 27, 2015; Rosa Artigas, Vilanova Artigas, Terceiro Nome, São Paulo 2015; Antonio Carlos Barossi (ed.), O edifício da FAU-USP de Vilanova Artigas, Editora da Cidade, São Paulo 2016; Marcio Cotrim, Vilanova Artigas. Casas paulistas 1967-1981, Romano Guerra Editora, São Paulo 2017; Daniele Pisani, «A cidade é uma casa. A casa é uma cidade». Vilanova Artigas na história de um topos, Editora Escola da Cidade, São Paulo 2019. Nel 2015 è stato inoltre uscito Vilanova Artigas: o arquiteto e a luz, documentario sull’architetto diretto da Laura Artigas e Pedro Gorski.
  2. Si veda quanto sostenuto da Artigas nel montaggio di testi autobiografici contenuto in Vilanova Artigas, Editorial Blau, Lisboa 1997, pp. 15-33.
  3. «La modernizzazione era un salto necessario in un paese arretrato», spiegherà: João Batista Vilanova Artigas, Tradição e ruptura, in Id., Caminhos da arquitetura, Cosac & Naify, São Paulo 2004, p. 177 (si tratta del testo di un’intervista del 1984). A questa fase corrisponde anche una lunga permanenza negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio della John Simon Guggenheim Memorial Foundation (1946-1947).
  4. Cfr. Daniele Pisani, O Trianon do MAM ao MASP. Arquitetura e política em São Paulo (1946-1968), Editora 34, São Paulo 2019, pp. 136-139.
  5. Cfr. João Batista Vilanova Artigas, Le Corbusier e o imperialismo, in «Fundamentos. Revista de Cultura Moderna», vol. III, 18, 1951, pp. 8-9, 27; Id., A Bienal é contra os artistas brasileiros, in «Fundamentos. Revista de Cultura Moderna», vol. IV, 23, 1951, pp. 10-12. Il testo che più di tutti esplicita le tensioni dell’architetto in questi anni è Os caminhos da arquitetura moderna, in «Fundamentos. Revista de Cultura Moderna» , vol. IV, 24, 1952, pp. 20-25. I brevi testi di Artigas sono stati in larga parte raccolti nell’antologia Caminhos da arquitetura.
  6. Citato in Rosa Artigas, Vilanova Artigas, cit., p. 11.
  7. João Batista Vilanova Artigas, Sobre escolas…, in «Acrópole», 377, 1970, p. 12.
  8. Lina Bo Bardi, Casas de Vilanova Artigas, in «Habitat», 1, 1950, p. 2. Ogni opera, in questo senso, sarà intesa come «una scarica di energia che provoca un corto circuito nel tessuto contraddittorio della realtà esistente», João Masao Kamita, Vilanova Artigas, cit., p. 24.
  9. L’equilibrio tra forma e contenuto sarà possibile solo in seguito a mutamenti sociali di là da venire: questo è quanto dichiarato da Artigas nel finale della prova di concorso a cui fu sottoposto il 28 giugno 1984 per riottenere il proprio ruolo di professore alla FAU USP. Cfr. João Batista Vilanova Artigas, Prova didática, in Id., Caminhos da arquitetura, cit., p. 195.
  10. Mendes da Rocha, in particolare, mise a punto un’architettura dai tratti peculiari ben prima che le sue strade incrociassero quelle di Artigas: cfr. Daniele Pisani, Paulo Mendes da Rocha. Complete Works, Rizzoli International, New York 2015, pp. 37 sgg., 47 sgg.; Id., Paulo Mendes da Rocha. A construção de um horizonte discursivo no início da carreira do arquiteto, in «Projeto Design», 405, 2013, pp. 48-55; Id., O exemplo de Reidy e a lição de Artigas. Uma nota sobre o ideário de Paulo Mendes da Rocha, in Fernando Serapião, Guilherme Wisnik (eds.), Infinito vão. Brasil, Monolito, São Paulo 2019, pp. 374-378.
  11. Particolarmente significativa a tale proposito è la rottura tra Artigas e tre dei suoi migliori allievi – Flávio Império, Rodrigo Lefèvre e Sérgio Ferro –, che criticarono il maestro per le sue scelte compromissorie. Cfr. almeno Pedro Fiori Arantes, Arquitetura nova. Sérgio Ferro, Flávio Império e Rodrigo Lefèvre, de Artigas aos mutirões, Editora 34, São Paulo 2002; Ana Paula Koury, Grupo Arquitetura Nova. Flávio Império, Rodrigo Lefèvre e Sérgio Ferro, Romano Guerra Editora-Edusp-FAPESP, São Paulo 2003; Daniele Pisani, Paulo Mendes da Rocha, cit., pp. 167 sgg.

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