L’in­geg­ne­re co­me «pro­dut­to­re»

Editoriale – «Archi» 5/2019

«Confesso di essere sempre stato appassionatamente ansioso di conoscere e di inventare nuovi schemi strutturali e nuovi congegni costruttivi. Non ritengo che il progettista responsabile debba passivamente seguire la metodologia del momento; piuttosto egli deve anticiparne gli sviluppi, essere il protagonista delle innovazioni. […] disporre di mentalità imprenditoriale, determinare i procedimenti costruttivi, conoscere le macchine coinvolte, sapere come sfruttarle nelle diversificate esigenze, essere in grado di preven­tivare costi e tempi di realizzazione dell’opera» (Silvano Zorzi, 1981).

Publikationsdatum
02-10-2019

Seguendo un filone di ricerca che indaga aspetti particolari di alcuni esponenti dell’ingegneria contemporanea, Archi propone in questo numero uno sguardo sull’opera di Silvano Zorzi (1921-1994), uno dei protagonisti della fase finale di quel periodo d’oro della Scuola d’ingegneria italiana apertosi nel secondo dopoguerra e già in crisi a metà degli anni Sessanta. Laureato nel 1945 in ingegneria della costruzione al Politecnico di Losanna e in ingegneria idraulica a Padova, il suo profilo professionale è chiaramente segnato dalla formazione durante l’esilio svizzero nei «campi di internamento universitario» organizzati da Gustavo Colonnetti con il sostegno dell’ateneo romando.

Anni difficili in cui il giovane studente conoscerà la nuova tecnica del calcestruzzo precompresso ed entrerà in contatto con il milieu dell’ingegneria, dell’architettura e del design del secondo Novecento italiano (Aldo Favini, Vico Magistretti, Ernesto Nathan Rogers, Angelo Mangiarotti, solo per ricordare alcuni dei nomi emblematici di questa fortunata stagione). Una costellazione di saperi che si cimenta con la fondazione nel 1944 del Centro di Studi per l’Edilizia di Winterthur, rivolto ad approfondire i temi della ricostruzione incentrati sulla progettazione integrata per l’industrializzazione del settore. Zorzi rientra in Italia dopo la Liberazione: all’esperienza realizzata presso il Centro Studi per la Coazione Elastica di Torino ­segue negli anni Cinquanta l’apertura a Milano di un proprio studio di progettazione che, nel 1961, diventerà la IN.CO. Ingegneri Consulenti SpA.

Come documentano Barazzetta e Neri nelle prossime pagine, l’esperienza elvetica lascia tracce biografiche e professionali fondamentali nel suo background: «tali vicende mostrano il forte scambio culturale e scientifico che Zorzi fu in grado di mantenere tra l’Italia e quanto accadeva a nord delle Alpi, conducendo i propri lavori con ibridazioni di teorie e tecniche della progettazione avanzata, anticipando l’attuale epoca globale».

I suoi ponti – caratterizzati da una cifra di essenzialità e leggerezza della forma strutturale, sempre attenta all’inserimento del manufatto nel paesaggio o nel contesto urbano – fanno parte del tracciato della rete stradale che copre la penisola italiana negli anni del boom economico. Tuttavia, egli affronta anche le difficoltà degli anni successivi, quando le condizioni produttive del Paese e della stessa ingegneria strutturale risultano radicalmente cambiate. È proprio in questo frangente che esprime uno spirito da grande innovatore che resiste all’omologazione.

Nonostante l’estinzione della figura classica dell’autore/progettista di grandi strutture, ormai rimpiazzato dal team polispecialistico e da sistemi costruttivi standardizzati, Iori osserva come «Zorzi riesce comunque a disegnare capolavori. Razionalizza il cantiere e lo industrializza senza rinunciare al getto in opera. Non ama la prefabbricazione in officina […] immagina piuttosto un cantiere-macchina […] che si muove seguendo l’avanzamento del ponte, attrezzato per consentire il getto monolitico», e quindi introduce la «centina autovarante» e il «carrellone scorrevole» per la progressiva costruzione a sbalzo dei viadotti.

In questo modo Zorzi sembra incarnare il prototipo dell’ingegnere/produttore che trasforma in senso tecnico l’apparato produttivo – come segnalano i curatori attingendo dal Benjamin dell’Autore come produttore (1934) – ma anche il professionista che, in sintonia con le considerazioni di Biraghi, superando il semplice gesto di ripetizione di un procedimento già dato, è invece capace di operare una svolta tramite un apporto innovativo. Zorzi si presenta dunque come un ingegnere moderno consapevole del suo ruolo e della sua collocazione nel sistema produttivo. Non stupisce infatti che la sua opera susciti ancora grande interesse tra i «costruttori di ponti» dei nostri giorni (come testimonia la lettura che ne dà Conzett nel suo saggio).

Nella sua impronta di structural designer si coglie un forte legame tra l’approccio interdisciplinare, retaggio degli studi elvetici, e una proficua contiguità con il gruppo milanese di architetti che negli anni Settanta porterà il design italiano al successo internazionale. Non a caso, nel 1950, in una puntuale collaborazione progettuale con Angelo Mangiarotti e Aldo Favini, emerge già chiaramente l’importanza dei contatti nati durante l’esilio: scoperte inedite che arricchiscono il dibattito e le conoscenze sull’opera dell’ingegnere padovano.

 

I contributi di Archi 5/2019 incentrati sull'opera di Silvano Zorzi

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