L'­ar­chi­tet­tu­ra svi­z­zera è vuo­ta

Il Padiglione elvetico alla Biennale di Venezia 2018

In quell’overdose da installazioni che regolarmente coglie il visitatore della Biennale di architettura di Venezia, il Padiglione svizzero del 2018 – vincitore del Leone d’oro – può davvero essere un’esperienza straniante.

Publikationsdatum
26-07-2018
Revision
06-08-2018
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

I curatori (Alessandro Bosshard, Li Tavor, Matthew van der Ploeg, Ani Vihervaara) hanno infatti inventato un dispositivo spaziale così terribilmente simile – almeno a prima vista – alla brochure di un’agenzia immobiliare da provocare un disorientamento intellettuale rispetto all’enfilade di elaborati modelli, disegni e prolisse spiegazioni che condiscono gli altri luoghi della kermesse veneziana. Banalissimo parquet, bianco alle pareti e sul controsoffitto, porte e finestre da catalogo: sembra di entrare in un depliant. Manca solo un venditore dalla cravatta sgargiante.

Ma l’apparenza inganna: se l’ingresso del padiglione ha dimensioni consuete (ovvero un’altezza di 240 cm, standard svizzero), addentrandosi nello strano appartamento ogni stanza presenta misure e proporzioni variabili, formando una sequenza che i visitatori, superata la sorpresa inziale, possono collegare alla tana del Bianconiglio di Alice, dove la figura umana si perde in un mondo troppo piccolo o grande per lei. La porta è gigantesca, il piano della cucina è irraggiungibile, la presa della corrente è minuscola oppure oversize. In un attimo il visitatore estrae lo smart-phone per scattare un selfie finalmente divertente, dopo tante foto di installazioni che non guarderà più.

«Invece di rappresentare la costruzione, costruiamo la rappresentazione», spiegano i curatori. «Ciò che è stato costruito nel Padiglione svizzero non è una «casa», ma la visita a una casa». E difatti si tratta di un’abitazione «impossibile», creata affiancando in pianta e sezione una serie di spazi desunti da immagini di appartamenti: «un labirinto di prospettive interne» che vuole comunicare «l’incapacità della fotografia di comunicare scala, dimensioni, profondità o contiguità spaziale».

Prima di essere una riflessione sulla realtà, il padiglione ragiona sul suo simulacro: «sono fotografie che rappresentano lo spazio?» si chiedono i curatori. «Forse, ma è difficile vedere al di là della superficie. Queste immagini propongono un’architettura progettata per abitanti (ancora) ignoti, che possiedono oggetti sconosciuti e conducono vite di cui non si sa nulla. Questa incertezza va a liberare l’involucro dalle sue funzioni, conferendogli una certa autonomia. Sempre più smarcata dai dati concreti, la delimitazione dello spazio diventa la vera protagonista delle immagini. Immagini in cui l’involucro interno non solo restituisce lo sguardo a chi l’osserva, ma inizia anche a porgli delle domande».

Molti altri temi, allora, vengono in primo piano. Da una parte, l’appiattimento e l’omologazione degli appartamenti che, non solo in Svizzera, sembrano tutti uguali: tralasciando i dettagli tipicamente elvetici come la presa di corrente – che qui, ingrandita e rimpicciolita, diventa caricaturale – si ha l’impressione di essere a Zurigo e allo stesso tempo in tutto il mondo. Dall’altra parte, tale standardizzazione si rapporta invece al corpo umano, imprigionato in una gabbia di 240 cm d’altezza per tutto il tempo della sua vita domestica. L’appartamento è una gabbia, la cui indeformabilità si palesa proprio grazie agli improvvisi cambi di scala permessi dal padiglione, che estremizza e rovescia la costrizione conformante della realtà immobiliare. Così facendo, la percezione si deforma: nelle stanze «gli elementi dello spazio preso nella sua continuità sono banali, ma rifiutano di divenire familiari», spiegano i curatori. «Ciò prende il nome di «defamiliarizzazione», «estraniamento», oppure talvolta di «alienazione»».

La riflessione del Padiglione svizzero non punta però solo a mettere in risalto la superficialità del real estate, che spaccia per minimalismo à la page l’appiattimento al ribasso delle qualità architettoniche dell’abitare. L’aspetto forse più interessante risiede infatti nella lucida autocritica che lascia un sapore amaro agli architetti dopo aver compreso la questione. Per capirla, basta sfogliare le riviste di architettura – sì: anche Archi – e guardare con occhio disincantato come sono di solito progettati e presentati gli interni delle case dei nostri sogni architettonici. Le immagini da cui prende forma il padiglione sono tutte prese da siti di progettisti svizzeri. Da questa prospettiva, il Padiglione elvetico ci fa allora compiere un rapido ma profondo slittamento semantico, che trasforma il Free space (motto coniato da Yvonne Farrell e Shelley Mc Namara per l’odierna Biennale) in empty: lo spazio libero/liberato del movimento moderno, l’emancipazione della rivoluzione architettonica del XX secolo, la pianta libera e tutto il resto vengono tristemente ridotti a spazio vuoto, uniformato e uniformante. Progettiamo case tutte uguali, e forse a volte non siamo capaci di redimerle neanche abitandole. Una discussione sull’arredo si potrebbe aprire a questo punto: anche i capolavori del design novecentesco sono ormai troppo spesso impiegati e vissuti come vuote icone di una certa idea di glamour. 

Le qualità e la profondità del Padiglione svizzero si comprendono insomma passo dopo passo, nonché pagina dopo pagina dell’interessante catalogo pubblicato per l’occasione. Nei vari saggi contenuti in House Tour: Views of the Unfurnished Interior (edito da Park Books) si approfondiscono tutte le sfumature di quella candida ma controversa verginità ostentata dagli interni contemporanei: dalla storia del «denudamento» dell’interno domestico alle odierne sperimentazioni spaziali nel campo dell’Housing in Svizzera.

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