L'in­con­tro con il suo­lo nel­l'ar­chi­tet­tu­ra ti­ci­ne­se

Teoria e pratica

Approfondimento sulla specificità del rapporto tra suolo e architettura nella regione ticinese.

Data di pubblicazione
20-02-2013
Revision
19-10-2015
Tomà Berlanda
Architetto USI, professore all’Università di Città del Capo

1. L’ipotesi sottintesa nella scelta di dedicare un numero monografico al rapporto con il suolo è che sia possibile individuare nelle opere degli architetti ticinesi un comune interesse per il tema, che si traduce in una molteplicità di soluzioni costruttive.
È una domanda interessante, che lega la discussione sulla rilevanza teorica della questione - cioè il riconoscimento che l’itinerario che traduce un’idea in una architettura costruita, strutturalmente stabile e adeguata nella collocazione spaziale, trova un momento decisivo nel modo in cui il manufatto tocca la terra - alle scelte tettoniche di volta in volta inventate.
Negli anni recenti si è sviluppato un discreto corpo di letteratura che affronta il tema dell’attacco al suolo da due principali punti di vista. Il primo concentra l’analisi su un singolo architetto, con l’intento di individuarne l’evoluzione o la continuità nel modo di rapportarsi al terreno. Alcuni esprimono preferenze assolute per una particolare soluzione che diventa una costante nel loro approccio progettuale, mentre altri sono disponibili a declinarne più d’una in funzione delle specifiche condizioni del sito. Il secondo parte dall’individuazione di specifiche categorie o modi ricorrenti di attacchi al suolo e li analizza attraverso le opere di architetti diversi.
Il tema, invece, non è stato affrontato con riferimento a specifiche aree geografiche o alle scuole e gruppi regionali, alla cui produzione architettonica della seconda metà del Novecento viene riconosciuto un notevole grado di omogeneità e di riconoscibilità. Il Ticino è una di queste aree culturali. Le caratteristiche che si trasmettono da una generazione all’altra e che giustificano l’individuazione di una scuola ticinese sono la scelta pertinente e la sincera esibizione della struttura, dei materiali e delle soluzioni tecnologiche, nonché un rapporto con le preesistenze che rifiuta qualsiasi storicismo e mimetismo formale.1

2. Topografia è ormai un termine abusato nel dibattito architettonico ed il suo significato originario si è dilatato per incorporare, oltre alla descrizione delle caratteristiche geometriche di un sito, preoccupazioni e tematiche nuove rispetto alla tradizionale nozione di crosta terrestre. Riecheggiando tale allargamento di prospettiva, è diventata una consuetudine enfatizzare l’attenzione per l’attacco al suolo e presentare progetti e costruzioni come risultato di un intenzionale rapporto con il sito, inteso nella sua duplice e inscindibile connotazione geografica e umana.
In realtà, gli architetti per i quali la relazione tra costruzione e luogo non si basa su analogie e rimandi geometrici o formali sono ancora una minoranza. È, però, generalmente condivisa l’idea che il paesaggio non sia lo sfondo dell’architettura, ma l’oggetto stesso della trasformazione. Se le dichiarazioni d’intenti possono sembrare simili, esse si materializzano in forme diverse e riflettono diverse intenzioni e priorità. In altre parole, ogni attacco al suolo si configura in funzione della strategia di modificazione del luogo. Per alcuni, l’aspirazione a costruire senza alterare la configurazione del sito si traduce nel tentativo di far sì che l’architettura ne diventi, o ne sembri, un completamento. Simile a questo approccio, che ricorda l’idea classica dell’appartenenza dell’architettura alla terra, perché come diceva Frank Lloyd Wright «la terra è la forma più semplice di architettura», è quello che considera l’architettura come estensione del paesaggio o in esso vorrebbe farla dissolvere.
Per altri, l’architettura nasce dalle forme naturali, ma pur non ignorando gli aspetti essenziali della topografia li trasforma. La capacità di assumere le caratteristiche morfologiche come punto di partenza della progettazione, ma nello stesso tempo dar origine a una nuova entità, e che riecheggia il modo di procedere di Alvar Aalto, è evidente nella casa Balmelli di Tita Carloni e Luigi Camenisch a Rovio (1956-1957) che segue l’andamento del terreno, ma crea anche un nuovo profilo.
Il ricorso all’architettura per dare risalto alla topografia e accentuare ed estendere il sito è un atteggiamento che si manifesta soprattutto quando il manufatto si colloca su sommità o punti cospicui. La chiesa di Santa Maria degli Angeli a Monte Tamaro di Mario Botta (1992-1996), dove il monte è stato «ampliato di una piccola sporgenza», e nella sua massa architettonica è stato integrato di pochi strati di roccia, viene letta come una «prosecuzione della montagna», una «leggera correzione geometrica della massa rocciosa».2
C’è, poi, chi considera la conformazione esistente come un dato da accettare, per turbare la terra il meno possibile. La registrazione degli accidenti del terreno, la conservazione degli oggetti minerali e degli organismi vegetali presenti, più che un vincolo diventa il fulcro dell’intero processo.
Infine, un esplicito intento di contraddizione nei confronti della configurazione del sito si ritrova nelle opere di quegli architetti che non sono indifferenti al luogo, ma rifuggono da qualsiasi integrazione e mimesi, come fa Aurelio Galfetti con casa Rotalinti a Bellinzona (1960-1961) che si pone in intenzionale contrasto con il pendio al quale è accostata.
Anche per Livio Vacchini l’ordine nasce dalla distinzione dalla natura, e la sua architettura si discosta dall’intorno rivelando la propria artificialità logica e tecnica. La palestra a Losone (1995-1997) che lo stesso Vacchini ha paragonato ad un tempio arcaico, una Stohenenge del nostro tempo, appare come un blocco imponente, inaccessibile su una piattaforma posta sopra un esteso prato verde. La sala rettangolare è un blocco di vetro cinto da pilastri di calcestruzzo che si rastremano verso l’alto e sono stati eseguiti in un solo getto. Al livello del suolo non è visibile alcuna entrata, perché gli ingressi si trovano alle estremità delle rampe che scendono al sotterraneo e hanno il significato di scandire il percorso in una fase di discesa all’interno della terra e in una successiva emersione.3
Collegare l’edificio al suolo con un elemento che dal suolo appare staccato, è un modo per segnalare la diversità tra artefatto e natura.

3. L’enfasi con la quale progettisti e critici sottolineano l’importanza della topografia, che letteralmente significa scrittura di un luogo, non si traduce meccanicamente in architettura. A volte il riconoscimento del valore fondativo dell’attacco a terra si riduce a un retorico richiamo alla necessità di sviluppare una non meglio definita sensibilità topografica, mentre la relazione tra manufatto e contesto viene trattata in termini di visione poetica o di linguaggio architettonico, senza che questi elementi si traducano in coerenti scelte costruttive.
Al moltiplicarsi di immagini e metafore che descrivono edifici «ancorati, radicati, seduti, in volo, galleggianti» non corrispondono adeguati metodi di rappresentazione, quali la sezione lunga, o più propriamente detta intersezione, che è lo strumento più efficace per rivelare e sintetizzare tutti gli intrecci tra sito e architettura. Consentendo di evidenziare la configurazione generata dalla solidarietà tra suolo e manufatto, che è diversa rispetto a quella che la linea della terra e la costruzione avrebbero se considerate separatamente, l’intersezione è essenziale per comprendere le modalità dell’incontro e ricondurne la materializzazione ad alcune situazioni di base. A seconda che il piano della pianta coincida con la superficie d’appoggio, che il contatto sia limitato a pochi punti, che l’edificio e il terreno entrino l’uno nell’altro, si parla rispettivamente di aderenza, distacco, incastro. Tale terminologia deve essere integrata rendendo espliciti i criteri in base ai quali ogni architetto sceglie una o l’altra modalità.
La decisione di appoggiarsi al terreno semplicemente consolidato o su una sottile piattaforma, che diventa una sorta di suolo artificiale, può essere ricondotta alla ricerca di un rapporto simbiotico tra interno ed esterno. Può anche coesistere con la convinzione che un edificio sia un artefatto che non è indifferente al luogo, ma rifugge da qualsiasi integrazione, come dimostra la casa Bucerius a Brione sopra Minusio (1965-1966) – una delle due case costruite da Richard Neutra in Ticino – collocata su una piattaforma che si allarga oltre il perimetro dell’edificio.
L’incastro non è mero sinonimo di vano interrato o di edificio ipogeo, ma una configurazione pensata in modo che la terra e la costruzione, condividendo uno spazio definito volumetricamente, siano complementari; un procedimento ben diverso da quello di chi manipola e stravolge la terra per realizzare costruzioni indifferenti ai luoghi.
Anche le motivazioni di chi cerca di limitare il contatto ad una serie di punti possono essere molto diverse, come dimostrano le piattaforme appoggiate su supporti spostati verso l’interno di Mies van der Rohe, gli edifici di Sean Godsell sostenuti da elementi puntiformi studiati caso per caso e alcune recenti opere di Peter Zumthor.
Un edificio non può essere completamente privo di legami con il suolo, ma la limitazione del contatto ad una serie di elementi discontinui consente di lasciarne il piano orizzontale principale staccato. Lo spazio interstiziale che ne risulta separa e allo stesso tempo connette il terreno con l’edificio e consente di leggere con chiarezza la struttura portante.
Casa Nadig a Maroggia di Rino Tami (1956-1957) è un parallelepipedo appoggiato su due muri ortogonali di pietra legati da due travi di calcestruzzo. L’apparente distacco dal suolo pone in risalto la ricerca della soluzione strutturale.

4. Le opere di Tami sono un lascito ineludibile per la successiva generazione di architetti che pure hanno posizioni variegate nei confronti del modo di legarsi al suolo.
Sia i singoli edifici – le case che sempre «cercavano di essere ben sedute» e per questo in ogni suo lavoro si preoccupa di «sposare la casa col terreno»4 – che gli interventi a scala territoriale lungo l’autostrada N2 tra Chiasso e il Gottardo (1963-1983) nei quali è difficile fare distinzione tra architettura, land art e landscape architecture,  trattano il suolo come materiale primario del progetto.
Aurelio Galfetti e Luigi Snozzi sono entrambi attratti dalla dimensione territoriale del rapporto tra architettura e suolo, ma la declinano con strumenti diversi. Nei Bagni di Bellinzona, che Galfetti ha costruito con Flora Ruchat e Ivo Trumpy (1968-1970), l’attacco al suolo, che consiste in una passerella che connette e articola spazialmente il percorso, non è un accorgimento tecnico pensato a posteriori per garantire stabilità all’edificio, ma il cardine stesso del progetto. Il luogo dove si fa il bagno è, in realtà, un percorso e la passerella, cioè l’infrastruttura che crea lo spazio, ha una dimensione paesaggistica.
Per Snozzi l’interesse per il territorio – sintetizzato in uno dei suoi aforismi «fino a poco tempo fa gli insediamenti umani erano carte geologiche» – prevale su quello per il singolo edificio ed abbraccia un ambito che si estende a tutti gli strati della crosta terrestre, da quello dove insistono le fondazioni fino al centro della terra. «Ogni casa raggiunge il centro della terra, un vero prato arriva fino al centro della terra» è un altro dei suoi aforismi.5 Snozzi è affascinato dal valore simbolico delle fondazioni, dalla loro capacità di comunicare l’ossatura dell’idea architettonica e di essere, quindi, una sintesi di tutto il percorso progettuale. «Un edificio comincia sempre dalle sue fondazioni», dice, ed è convinto che per capire un’architettura basta osservare le fondazioni, perché «le più belle piante dell’architettura, le vedi dalle cantine, è li che matura tutta l’idea».6
Inoltre, per Snozzi il progetto è uno strumento di ricognizione e la scoperta del terreno è il momento decisivo del percorso nel quale intuizione e invenzione possono avere un peso diverso, ma comunque interagiscono.7 Come ha osservato Alvaro Siza, «nelle sue valli, Snozzi, ricerca meticolosamente ogni traccia sul suolo e ogni voglia di cambiamento. Tanti sono gli elementi che attirano la sua attenzione.. filari di viti, muri, fondazioni di antichi conventi, abitudini antiche e in trasformazione».8 Camminare, per misurare ed esplorare il sito, è una pratica seguita da quegli architetti, che Jacques Gubler chiama «architetti agrimensori» e tra i quali include Snozzi, che costruiscono il progetto «con la punta della matita e con i piedi», cioè partendo dalle tracce e dai segni scoperti andando a piedi9 e per i quali l’esplorazione del terreno non è una mera operazione tecnica di raccolta di dati quantitativi e misurabili, ma un processo di selezione e interpretazione inscindibile dal progetto.
Pierre-Alain Croset considera l’orografia qualcosa che deve essere rivelato grazie all’architettura. È un concetto che usa nella lettura di molte opere di Snozzi, casi esemplari di promenade architecturale concepita come «lettura dell’orografia». A suo giudizio, Snozzi prende le mosse dalla conformazione del terreno e inventa la topografia per comporre sequenze di immagini incorniciate nel paesaggio. Nelle sue case, mai disposte come prospetti statici10 i valori geografici del sito sono rivelati attraverso il percorso di avvicinamento e «stupisce il grande rispetto manifestato nei riguardi dell’orografia naturale: piccoli dislivelli, minimi spostamenti di terra e terrazzamenti appena affioranti si dimostrano sufficienti laddove abitualmente le nuove costruzioni tendono a cancellare definitivamente i caratteri dell’orografia originaria».11

5. L’attenzione alla percezione fenomenologica dell’architettura fa sì che alcuni interpretino le «figure» architettoniche come strumenti grazie ai quali l’architetto può leggere e riscrivere la topografia di un sito. Secondo questo approccio, la piattaforma, che media l’andamento del terreno o crea un nuovo piano distaccato, stabilisce e segnala una precisa relazione altimetrica con l’esistente; il muro, oltre che filtro e supporto, è un elemento di misura del terreno; la passerella concentra l’attenzione sulle due parti che collega sottolineandone la separatezza; la rampa, prolungando e rallentando il percorso di avvicinamento, crea una serie di orizzonti intermedi tra la terra e la costruzione.
In quanto parte di una consapevole strategia della costruzione del legame con il suolo, la piattaforma – che secondo Jørn Utzon è l’evento critico dal quale emerge l’architettura – assolve molte funzioni. Può segnalare la quota di riferimento principale o stabilirne una nuova, può mettere in relazione la costruzione con una porzione più o meno ampia di terreno, può evidenziare una intenzionale separazione tra il suolo e l’edificio o tra la parte della costruzione adiacente al suolo e quelle superiori.
Il basamento attira l’attenzione al legame con la terra e alla soluzione costruttiva che lo sostanzia, esprimendo così l’artificialità costitutiva di ogni intervento architettonico. La piattaforma rimanda alla concezione classica, tripartita dell’architettura. Ogni architettura è sempre «tendenzialmente tripartita, si appoggia sulla terra, si innalza e si chiude nel cielo», dice Livio Vacchini, e conformemente a questa visione, colloca la palestra di Losone su uno zoccolo rialzato.12
Ogni muro è diverso, ma sempre risolve e segnala l’attacco al suolo e ridefinisce il sito. Per Mario Botta la gravità è la forza che lega l’opera di architettura alla terra e costituisce la ragion d’essere del principio costruttivo nella ricerca dell’equilibrio per trasmettere i carichi al suolo. A suo giudizio, il gesto primo del costruire è dato dal «sovrapporre alla terra una pietra» e perciò, «piuttosto che di pietra su pietra si deve parlare di pietra su terra».13 I suoi muri sono più una massa che una superficie ed enfatizzano il peso della terra e il peso dell’architettura che saldano insieme.
Come elemento di raccordo al suolo, la passerella ha un forte valore simbolico. Ponendo i due elementi che connette l’uno di fronte all’altro, li lega ma allo stesso tempo ne evidenzia la separazione.
La cappella di Santa Maria degli Angeli a Monte Tamaro, che Botta definisce «una passerella viadotto che esce dalla montagna»; è un «ponte metafisico» che vertiginosamente lascia la terra per gettarsi nel vuoto.14

6. La ricognizione delle configurazioni alle quali la solidarietà del manufatto architettonico con il suolo può dar origine deve essere accompagnata dall’analisi di come ogni idea progettuale si concreta in soluzione costruttiva se si vuole che la modalità dell’attacco a terra perda la connotazione di astrazione geometrica. Opere che dal punto di vista tipologico sembrano simili, rivelano intenzioni diverse se analizzate alla luce delle modalità di attacco al suolo, come dimostra il confronto fra tre case di Snozzi, Botta e Vacchini.
A prima vista tutte e tre appaiono semplici scatole di calcestruzzo armato su un pendio, ma ognuna instaura con il sito una peculiare relazione che è possibile cogliere guardando il modo in cui è stato realizzato il contatto con la terra.
Casa Kalman a Minusio (1972) è un manifesto costrui­to dell’approccio di Snozzi che, attraverso la critica interpretazione della geografia e della topografia, identifica particolari caratteristiche naturali o resti della storia e della cultura e li riformula per intensificare la percezione del luogo. Il muro di contenimento segue la curva di livello – la condizione geologica esistente che informa l’organizzazione della casa – e collega l’architettura alla più larga fisica entità del lago. La contrapposizione tra il ripido pendio e l’andamento orizzontale del piano della valle è accentuata dalla passerella che indirizza e sposta l’attenzione dell’osservatore dall’oggetto architettonico verso la concreta esperienza della topografia del sito.
Casa Bianchi di Botta a Riva San Vitale (1973) è una torre che si erge isolata, come un osservatorio. Ma se la torre rimanda all’atto di guardare, la passerella d’accesso rimanda a quello di attraversare. Percorrendola il terreno diventa parte integrale dell’esperienza di entrare in casa e allo stesso tempo, essa articola il distacco tra le forme naturali e l’artefatto facendo emergere l’opposizione tra la casa e il paesaggio suburbano.
La casa a Costa Tenero di Vacchini (1992-1993) è un parallelepipedo appoggiato perpendicolarmente sul pendio collinare, ad un’altezza di circa 140 cm rispetto alla quota di accesso. La casa è definita da una struttura ridotta al limite delle leggi fisiche. Il tetto è un’ unica trave in calcestruzzo precompresso che, alleggerita da tubi in acciaio, poggia su sei pilastri posti alle estremità del rettangolo di base. Una piccola pensilina e una pedana in calcestruzzo rivelano l’ingresso ed indicano la separazione tra esterno ed interno. La soglia, che divide e connette, è il momento significativo dell’incontro tra terreno e costruzione, ma non è parte di un processo di narrazione. La casa ha la sua logica, la montagna ne ha un’altra, è una «gestalt come le opere di Donald Judd».15

7. Molti architetti hanno assimilato l’insegnamento dei maestri, come si evince dagli esempi qui pubblicati. La struttura portante di casa Minghetti e Rossi a Gordola di Nicola Baserga e Christian Mozzetti (2009-11) si limita a due appoggi interni che permettono di non «infierire» sulla terra. Due travi longitudinali appoggianti su plinti portano la soletta di copertura, mentre la soletta inferiore è appesa tramite tiranti centrali alle pareti laterali.
È un approccio non dissimile da quello usato per l’autorimessa cmb a Camorino da Dario e Mirko Bonetti (2009), che sollevando un lungo volume chiuso sopra pochi appoggi puntuali idealmente rafforza l’andamento orizzontale della pianura circostante.
Il rapporto con un sito assimilabile a una linea orizzontale è presente anche nella casa monofamiliare a Biasca di Luca Coffari (2011). Una pesante piattaforma di calcestruzzo funge da zoccolo nel quale è incastrato un involucro che rimane visivamente staccato da terra.
Casa Ostinelli a Vacallo di Ivano Gianola (2007-09) presenta una tensione creata tra i piani orizzontali del pavimento e della copertura. L’imponente spessore della soletta del tetto, quasi a voler sottolineare un paradosso statico è rivestito da alte lastre di pietra verde che dominano la composizione.
Nella casa ai Pozzi a Minusio, Silvia e Reto Gmür (2007-11) hanno sfruttato un terrazzamento pianeggiante per posizionare il basamento dell’edificio che segnala la separazione della casa dal pendio e allo stesso tempo fa si che il contesto diventi parte del suo interno.
La casa a Ronco a Pregassona di Jachen Könz e Ludovica Molo (2007) è invece sollevata rispetto al suolo e, staccandosi dal terreno terrazzato, garantisce la continuità del prato sottostante.

8. La ricognizione delle opere di tre generazioni di architetti ticinesi mette in luce una condivisa attenzione per l’attacco al suolo che si traduce nella ricerca di soluzioni costruttive appropriate. Piace qui citare come esempio la consapevolezza della necessità di esplorare nuovi percorsi di ricerca riconoscibile nella Capanna Cristallina (2009) di Baserga e Mozzetti dove la scelta dell’attacco al suolo ha richiesto, prima che una soluzione tecnica, la ricerca della «giusta collocazione» del manufatto. L’ubicazione della capanna rispecchia la volontà di non costruire sulla fragile topografia del passo e di occupare un terrazzo adiacente ritenuto più adatto alle caratteristiche climatiche. Il rapporto con il sito è ricercato, più che attraverso rimandi formali, attraverso l’uso dei materiali. Uno zoccolo, formato con pietre recuperate dalla vecchia Capanna e con materiale di scavo, si estende da un lato per diventare terrazza. Il piano seminterrato in calcestruzzo, che salda la capanna alla terra, ha la funzione di isolare la parte abitativa dal terreno, mentre l’involucro leggero possiede un’elevata coibenza termica ed una ridotta inerzia termica.
Se da un lato appare chiaro come, negli anni più recenti, la scelta della modalità dell’attacco a terra tende a incorporare nuove preoccupazioni che riflettono il superamento della tradizionale nozione di topografia, dall’altro quelli che sembrano essere gli esempi più interessanti non attingono a un repertorio statico di soluzioni già sperimentate, ma propongono innovazioni dal punto di vista tecnologico, strutturale e dell’uso dei materiali, confermando così la vitalità della scuola ticinese.

L'autore è architetto, tra i primi laureati AAM, dottore di ricerca. Dal 2010 in Ruanda è professore e titolare di ASA studio. La sua tesi di dottorato, "Topografie architettoniche: lessico grafico dell'attacco al suolo",  è in corso di pubblicazione presso Routledge.

Note

  1. Schmertz, Mildred, The Ticino Group: Toward an architecture of place, in «Architectural Record», n. 175, 1987, p. 110.
  2. Oechslin, Werner, Mario Botta: l’architettura sacra, l’espressione e la pietra, in Gemin, Mario (a cura di), Mario Botta. Cinque architetture, Skira, Milano, 1996, pp. 126-148.
  3. Masiero, Roberto, Prima e dopo il classico. Sull’architettura di Livio Vacchini, in Livio Vacchini. Opere e progetti, Electa, Milano, 1999, p. 16.
  4. Carrard, Philippe, Oechslin Werner, Ruchat-Roncati, Flora (a cura di) Rino Tami, Segmenti di una biografia architettonica, gta, Zurich, 1992, p. 50.
  5. Snozzi, Luigi, Aforismi, in Disch, Peter, Luigi Snozzi, L’opera completa 1958-93, ADV, Lugano, 1994, pp. 104-105.
  6. Croset, Pierre Alain, Una conversazione con Luigi Snozzi, in «Casabella», n. 567, 1990, pp.20-22 e Id. Un’architettura aulica e funzionale, ivi, pp. 6-7.
  7. Lichtenstein, Claude, Design as recognition, in Luigi Snozzi, Birkhauser, Basel, 1997, pp. 7-25.
  8. Siza, Alvaro, Impressioni di un viaggio in Ticino, visitando le case di Snozzi, in Disch, Peter, cit., pp. 20-23.
  9. Gubler, Jacques, Motions, émotions: notes sur la marche à pied et l’architecture du sol, in «Matières», n. 1, 1997, pp. 6-14, ora in Guerrand, Henri (a cura di), Thème d’histoire et d’architecture, Infolio, Gollion, 2003, pp. 15-30.
  10. Croset, Pierre Alain, L’architettura e l’urbanistica di Luigi Snozzi, in Disch, Peter, cit. p. 48.
  11. Croset, Pierre-Alain, ivi, p. 46.
  12. Masiero, Roberto, cit., pp. 17-65.
  13. Botta, Mario, Luce e gravità, in Cappellato, Gabriele (a cura di), Mario Botta, Compositori, Bologna, 2008, p. 8.
  14. Botta, Mario, Il monte e la cappella, in Pozzi, Giovanni e Botta, Mario, Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro, Casagrande, Bellinzona, 2001, p. 5.
  15. Lucan, Jacques, Livio Vacchini, L’implacabile necessità del tutto, in Disch, Peter (a cura di), Livio Vacchini architetto, adv, Lugano, 1994, p. 26.
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