La pro­get­ta­zio­ne co­me for­ma par­ti­co­la­re del­la cri­ti­ca

Vent'anni di architettura ticinese

Per confutare la diffusa tesi secondo la quale la globalizzazione culturale avrebbe reso tutte le periferie uguali, annullando la differenza tra diverse tradizioni insediative e costruttive, Aurelio Galletti riferisce spesso la sua convinzione di saper distinguere una periferia dall’altra e di saper capire a quale paese appartiene. Aderisco a questa convinzione, come anche a quella per cui la globalizzazione delle conoscenze ha prima di tutto aspetti positivi di crescita civile e di rottura di confini e barriere culturali.

Data di pubblicazione
06-12-2017
Revision
06-12-2017

La diffusione delle conoscenze – favorita da mezzi di comunicazione di efficacia mai vista prima – ha condizionato certamente le culture e le tradizioni nazionali e regionali ed è intervenuta nella loro evoluzione, ma senza riuscire a cancellare i fondamentali caratteri architettonici, le cui ragioni sono fondate nella specificità storiche e geografiche dei luoghi.

In questo senso considero l’architettura ticinese un caso esemplare di resistenza e mi propongo di raccontare le ragioni per cui questa resistenza continua – con forme e intensità diversa – anche dopo quarant’anni dall’ormai mitico 1975 della mostra zurighese Tendenzen, Neuere Architektur im Tessin e dopo quasi vent’anni dall’inizio del nuovo secolo. Ho scritto in questi vent’anni su Archi contro i sostenitori di una pretesa normalizzazione e omologazione dell’architettura ticinese all’architettura internazionale, dominata dal consumo delle immagini delle riviste, e voglio qui raccogliere i principali argomenti che continuano ad alimentare questa convinzione.

La permanenza della semplicità

Innanzitutto, la permanenza della straordinaria forza della elementarità dei concetti progettuali insegnata dai maestri. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, due generazioni di architetti – prima la generazione di Brivio, Ponti, Tami, Camenzind e Brocchi, poi quella di Snozzi, Vacchini, Galfetti, Carloni, Botta, Campi e tanti altri – hanno interpretato con un’architettura nuova la spinta insediativa provocata da una fase di grande sviluppo economico e dalla emergente domanda espressa da nuovi gruppi sociali. Mentre negli altri paesi europei e nella Svizzera tedesca, negli stessi anni, la diffusione della modernità subiva una fase di crisi e ripensamenti, nel Ticino del dopoguerra – fino ad allora tagliato fuori dallo sviluppo economico e dalla modernità – la nuova architettura è stata sperimentata e messa in pratica in forme radicali, con riferimenti diretti agli insegnamenti e alle opere dei maestri mitteleuropei del moderno. La geometria elementare e i concetti insediativi derivanti dallo studio degli antichi insediamenti rurali – alimentato anche dalle contemporanee ricerche milanesi sull’architettura della città – hanno formato una cultura architettonica singolare, insieme complessa e variegata in diverse espressioni linguistiche, ma anche riconoscibile per tratti comuni, soprattutto nei concetti insediativi.

Una delle definizioni più convincenti della semplicità in architettura l’ha dettata Ludwig Hilberseimer riferendosi all’opera di Mies: «l’aspetto semplice di un edificio è dovuto alla chiarezza con cui sono stati risolti i problemi, al fatto che ogni parte è al posto che le compete, in accordo con la funzione che svolge e in un giusto rapporto con le altre parti di tutto l’insieme». Senza pretendere di rappresentare la complessità dello scenario composito di numerosi e importanti architetti, si può affermare che la semplicità, così intesa, ha caratterizzato l’architettura ticinese di quegli anni e che la stessa semplicità – espressa in forme diverse ed evolute sia dal punto di vista tecnico-costruttivo che da quello espressivo – continua a caratterizzarla, anche se il fenomeno ha perso l’effetto di novità e se non sono apparsi nuovi interpreti dotati dello spessore del pensiero e del talento paragonabili a quelli degli anni Settanta, alcuni dei quali sono ancora vivacemente presenti sulla scena progettuale.

La definizione di semplicità di Hilberseimer non è semplice. Ci parla di coerenza tra le parti e tra le parti e l’insieme, di appropriatezza delle forme rispetto al programma, di un procedimento progettuale impegnativo nel quale la semplicità non è il presupposto, ma l’esito finale. E ci parla della «risoluzione dei problemi», cioè della dimensione civile del mestiere la cui finalità è sociale. La semplicità non è un vezzo intellettuale ma è la qualità derivante dall’uso intelligente e parsimonioso delle risorse, sia economiche che espressive. La semplicità è intesa come qualità necessaria per conferire senso al lavoro dell’architetto, e per renderlo immediatamente comprensibile.

Il rigore indispensabile per perseguire questa coerenza e appropriatezza continua a distinguere i migliori interpreti dell’attuale produzione architettonica ticinese. Voglio fare un esempio per chiarire questa affermazione. Ho visitato recentemente il Naturmuseum di San Gallo (di Meier Hug Architekten e Armon Semadeni), un nuovo edificio pubblicato dalle riviste, che si distingue nel paesaggio costruito per la singolare morfologia a «tubi» voltati e slittati tra di loro. Oltre al raffinato involucro cementizio disegnato da scanalature verticali, è interessante la composizione di volumi ripetuti, sottolineata dalle lunghe prese di luce poste sul coronamento di ognuno dei tubi paralleli e accostati. Tuttavia la visita del museo rivela che la spazialità interna non corrisponde alla morfologia annunciata all’esterno. Soprattutto al piano alto, situato sotto alle volte, gli spazi – ancorché funzionali alle esigenze espositive – si estendono in senso trasversale all’edificio contraddicendo la direzione e dimensione dei tubi. Sono convinto che oggi in Ticino non sarebbe verosimile costruire un edificio pubblico importante che presenti una contraddizione così eclatante tra la tipologia rappresentata nell’aspetto esteriore e la distribuzione degli spazi interni. Non sarebbe verosimile perché alcuni principi di chiarezza e coerenza dei concetti e del fare architettonico sono ancora patrimonio culturale condiviso.

L’architettura didascalica

L’architettura ticinese degli anni Settanta è stata un’architettura di principi tradotti in forme abitate. La sua peculiarità rispetto ad altre architetture regionali è stata il suo essere «didascalica», priva di mediazioni tra l’affermazione dei principi e la loro rappresentazione nella costruzione. Cioè un’architettura intellegibile, nella quale è possibile riconoscere i principi direttamente nelle forme dell’architettura. Una condizione intellettualmente rigorosa che tuttavia non ha limitato la generazione di diverse forme espressive e poetiche. La condivisione dei principi – pure con linguaggi distanti tra loro – collega il pensiero degli architetti ticinesi alla temperie culturale milanese degli stessi anni. Ma a Milano le elaborazioni teoriche di Aldo Rossi, Giorgio Grassi e di Vittorio Gregotti alimentavano soprattutto la produzione di colti esercizi di disegno, mentre nella stessa città i progettisti della speculazione costruivano la grande periferia metropolitana.

Il riferimento a Tendenzen sembra ritualmente obbligatorio quando si ragiona dell’architettura ticinese. Il lucido testo di Martin Steinmann, che accompagnava l’esposizione, ancora oggi non ha perso nulla della sua efficacia critica riferita alle opere esposte nel 1975. Steinmann parlava della «“natura” tecnica dell’architettura che è sempre riconducibile a elementi e procedimenti descrivibili». E aggiungeva che «è sensato considerare critica e prodotto come attività strutturalmente interdipendenti. L’espressione “ricerca architettonica” indica appunto la confluenza delle due attività in una sola: la progettazione come forma particolare della critica». L’affermazione interpreta ribaltandolo l’assunto snozziano per cui l’analisi critica del terreno e del contesto è parte essenziale del progetto. La progettazione è attività critica, in essa si realizza la dimensione civile del mestiere, la cui finalità è di trasformare la forma fisica del territorio per mettervi ordine e abitarvi.

Il concetto viene poi sviluppato da Steinmann con una citazione da Edgard Allan Poe riferita alla letteratura. Dice Poe che «i fili non vanno nascosti, anzi vanno messi in mostra, e sono da ammirare almeno quanto le bambole che mettono in movimento. Il risultato e che noi ci diciamo, senza versare una lacrima: ecco qualcosa che scioglierà in lacrime il lettore». E conclude dicendo che l’«effetto poetico di un’opera si produce quando i procedimenti che la compiono non servono solo il contenuto ma lo costituiscono, perché “sono messi in mostra come qualcosa che dev’essere ammirato”». L’esempio del teatro brechtiano è forse il più efficace per spiegare la condizione didascalica dell’architettura di quegli anni. Nella messa in scena di Galileo di Bertolt Brecht – era il 1963 – Giorgio Strehler fece rimuovere i pannelli, che normalmente occultano agli spettatori lo spazio del sottoscena, mettendo in luce la complessità delle macchine dei movimenti scenici, appositamente illuminate. Gli artifici necessari all’effetto poetico – i fili di Poe – venivano così non solo rivelati, ma entravano a far parte dell’opera, della relazione speciale che nel teatro si stabilisce tra gli attori e il pubblico.

Il Laboratorio Ticino

Negli ultimi venti anni la condizione didascalica si è venuta, in generale, riducendo. I principi che hanno caratterizzato l’architettura degli anni Settanta sono diventati leggibili in filigrana ed è necessaria un’attività critica per svelarli, anche se continuano a sostenere l’impianto degli edifici e sono largamente condivisi. Si può considerare la situazione contemporanea come un indebolimento del carattere precipuo della modernità ticinese, oppure la si può leggere come maturazione culturale necessaria, come uscita da una condizione di avanguardia. Entrambe le interpretazioni sono valide, perché fare architettura nel nuovo secolo ha comportato innanzitutto confrontarsi con un contesto diverso. La questione energetica – con i conseguenti obblighi normativi – ha imposto problematiche costruttive sostanzialmente diverse da quelle degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi l’uso parsimonioso delle risorse assume un altro significato e condiziona fortemente il repertorio formale disponibile. Il riconoscimento dei principi è possibile soltanto in filigrana perché i fili di Poe sono spesso occultati dagli spessi strati epidermici necessari a soddisfare le normative energetiche. 

Ma il contesto che è mutato in modo più significativo è quello territoriale; sono la cultura e i modelli abitativi, sui quali tornerò più avanti per sostenere come quella territoriale sia la condizione, il passaggio obbligatorio, attraverso il cui riscatto si possono aprire orizzonti diversi.

Il termine «Laboratorio Ticino», usato per la prima volta da Roberto Masiero in un testo scritto per Archi nel 2000, descrive con efficacia la ricerca a tutto campo che nel nuovo secolo gli architetti ticinesi delle generazioni successive a quella dei maestri hanno esercitato. I progetti recenti di seguito pubblicati – alcuni dei quali ancora in cantiere – sono significativi di alcune delle tendenze presenti nello scenario architettonico contemporaneo, e costituiscono il filo rosso che seguirò per accennare sinteticamente a diverse direzioni della ricerca. Al proposito citerò soltanto i nomi degli architetti il carattere della cui architettura è più eloquente ai fini descrittivi, chiedendo fin d’ora perdono ai tanti colleghi non citati.

L’architettura colta

Giacomo e Riccarda Guidotti, autori dei due progetti in cantiere a Monte Carasso e a Bellinzona, appartengono ad una pattuglia di architetti, nati tra gli anni Sessanta e Settanta, la cui ricerca va fatta risalire agli insegnamenti di Luigi Snozzi, e anche di Livio Vacchini. Questi architetti, che da una descrizione così sommaria della loro ricerca potrebbero essere considerati dei «conservatori» del pensiero snozziano degli anni Settanta, in realtà sono stati capaci più di altri di praticare la progettazione come forma particolare della critica, riproponendo la condizione didascalica con un nuovo repertorio formale.

La casa «a fungo» dei fratelli Guidotti a Monte Carasso deriva tutte le sue ragioni dalla realtà fisica del contesto. La necessità di formare uno spazio centrale per dare senso ai fabbricati esistenti, l’economia nell’occupazione del terreno, l’interpretazione in positivo dei vincoli relativi alle viste e alle distanze, l’economia della scelta costruttiva, l’intelligenza di dettagli risolutivi dei problemi energetici e acustici, hanno sortito un edificio sorprendente. È una lezione radicalmente didascalica sulla tripartizione classica tra basamento, ridotto al minimo appoggio possibile, coronamento e fusto. E la casa-pergola di Bellinzona Ravecchia è l’esito felice, e altrettanto formalmente sorprendente, di un ragionamento sul carattere di quella parte della città, e sul non-senso delle norme regolamentari che invitano a contraddirlo. L’abitazione orizzontale in corso di costruzione a Ravecchia è una prova di rigenerazione urbana che suggerisce innovazioni normative e urbanistiche dalle potenzialità inesplorate.

Come esempio di questo atteggiamento, un progetto recente e significativo è l’edificio di appartamenti realizzato a Cureglia da Mirko e Dario Bonetti insieme a Stefano Moor (cfr. Archi 5/2010 pp. 47-51), che stabilisce una relazione fisicamente radicale con il contesto.

La casa per appartamenti a Lugano Viganello di Lukas Meyer e Ira Piattini e la piccola casa ad Aurigeno di Francesco Buzzi sono due esempi eloquenti, proprio con le loro diversità, dell’atteggiamento del folto gruppo di architetti che domina la scena colta della produzione ticinese. Completamente emancipati dal linguaggio dei maestri, questi architetti sono capaci di cogliere ogni occasione progettuale come un’occasione di ricerca morfologica, con i riferimenti di volta in volta diversi alla lunga e complessa vicenda del moderno mitteleuropeo e all’architettura internazionale, e costruiscono ogni volta il vocabolario adeguato al programma e al luogo specifico. È soprattutto rivolto alle loro opere il mio riferimento alla lettura in filigrana dei principi dei maestri ticinesi, principi che comunque nelle loro opere sottendono la relazione con i luoghi e conferiscono chiare ragioni alle loro forme. Meyer e Piattini sono tra coloro che coltivano di più l’ispirazione dai riferimenti storici, mai oggetto di esplicite citazioni e sempre rielaborati in un linguaggio attuale. La casa di Viganello ne richiama diversi, distillati con eleganza in una forma originale, interpretando la particolare urbanità, fatta di case isolate, di quella parte di Lugano situata tra il Cassarate e la collina.

La casa di Aurigeno rappresenta, per Buzzi, una specie di tarda prova della «ticinesità» della propria formazione. Nelle ultime opere di case di appartamenti, la ricerca dello studio era impegnata con maggiore evidenza sulla facciata degli edifici, con la rischiosa sperimentazione di strati aggiuntivi rispetto a quelli minimi necessari, diretta a produrre effetti espressivi trasgressivi. Contraddittoriamente, il progetto di Aurigeno dimostra la permanenza resistente e sotto traccia di quella qualità fondamentale che Edoardo Persico chiamava l’orgoglio della modestia. Sul bordo del vecchio e integro nucleo, il fabbricato adotta le regole insediative e formali più antiche, alle quali si erano ispirati i maestri del moderno. L’edificio è come se ci fosse sempre stato. Ma, annunciato all’esterno dalla libertà delle bucature e dal distacco del volume dal suolo, il piccolo edificio nasconde un segreto contemporaneo: i lati corti della struttura lignea portano una grande trave-parete longitudinale, alla quale è appesa la scala, che libera completamente la pianta del piano terra.

Durisch+Nolli, che si sono aggiudicati tutti e quattro i Premi SIA Ticino svoltisi negli ultimi anni, sono lo studio che rappresenta meglio di ogni altro il talento e il successo di questo folto gruppo di architetti. Sarebbe, d’altra parte, davvero arbitrario attribuire a questi architetti i medesimi aggettivi, perché ogni studio offre interpretazioni diverse del modus hodiernus di fare architettura. Per esempio, il lavoro di Nicola Baserga e Christian Mozzetti si colloca a cavallo tra questo gruppo e il primo di cui abbiamo parlato, per l’autonomia dei loro riferimenti e il rigore delle ragioni della loro architettura. Con lo stabile sodalizio con gli ingegneri Pedrazzini e Guidotti, hanno interpretano la lezione di Vacchini sulla relazione necessaria tra forma e struttura con opere tra le più significative degli ultimi anni.

E poi la scena variegata offre altre e diverse figure, come per esempio Wespi De Meuron Romeo, le cui abitazioni sui bordi del lago Maggiore fondano la loro singolarità sullo studio delle case dei nuclei antichi di quelle montagne. Le loro austere piccole abitazioni, apprezzate dalla evoluta clientela svizzero–tedesca, presentano soluzioni distributive e morfologiche disarmanti per semplicità spaziale e lontane dai modelli più diffusi in Ticino. La loro relazione con la cultura architettonica della modernità ticinese è sfasata nei tempi e conquistata per via indiretta. È una rielaborazione della cultura insediativa rurale, come fu quella originaria di Botta e di Snozzi, effettuata cinquant’anni dopo.

La «casa rossa» a Cureglia di Edy Quaglia rappresenta invece il lavoro di tanti architetti attivi nei lavori di scala minore, architetti-artigiani dalla grande sapienza costruttiva, spesso alla prova con interventi di ristrutturazione di edifici dei nuclei storici. La casa rossa dimostra la capacità di Quaglia di controllare anche la scala maggiore del progetto abitativo, verificando le conoscenze e l’esperienza maturata in sedicesimo. Su un sedime sopraelevato, l’edificio risolve la relazione con la strada attraverso l’artificio della formazione di un grande vuoto che lega l’ingresso dalla strada alla nuova costruzione, rivelando tutta la sezione fino alle fondamenta.

Tra questi professionisti legati al territorio, citiamo l’esempio di Pietro Boschetti, un altro architetto-artigiano che ha lavorato alla scala dei nuclei antichi – penso agli interventi a Vezio – dimostrando di saper affrontare il salto di scala con l’ampliamento della clinica di Novaggio.

Infine, la casa a Mendrisio di Mihail Amariei rappresenta le nuove presenze professionali lontane dalla tradizione del moderno ticinese. Il sapiente lavoro di Amariei – che si è formato all’Accademia di Mendrisio – potrebbe essere collocato alla periferia di Zurigo invece che in Ticino e rivela la sua distanza dalla cultura locale. Le relazioni con la topografia, e anche l’impianto e l’aspetto dell’edificio lo fanno appartenere a un altro universo culturale.

La condizione territoriale

Questi architetti, alcuni caratteri del cui lavoro ho cercato sommariamente di descrivere, sono quelli che partecipano ai concorsi per le opere pubbliche e che più spesso li vincono. Ma sono per lo più esclusi dal mercato professionale dei maggiori interventi residenziali e terziari che trasformano il territorio determinandone il paesaggio, interventi che sono invece progettati da tecnici non selezionati dal punto di vista culturale. Ci sono, quindi, due «mercati», e l’effetto ambientale di questa dicotomia è ben riconoscibile nel paesaggio, che viene costruito soprattutto da questi ultimi.

È il contesto territoriale che è profondamente mutato dopo gli anni Settanta, e ancora di più nel nuovo secolo. Rispetto al nuovo territorio e alle modalità della sua costruzione, si è formata una distanza rilevante con la cultura degli architetti, una sorta di incomunicabilità. Il fenomeno – diffuso in tutta Europa con l’eccezione dei paesi più a nord e delle aree urbane della Svizzera tedesca e romanda – è paradossale, perché la riduzione del ruolo sociale degli architetti si è verificata contemporaneamente al successo popolare delle immagini dell’architettura (o dell’architettura delle immagini), quando gli architetti più famosi del mondo sono diventati star celebrati dai media.

Le piccole case progettate per i nuovi ceti negli anni Settanta da Botta e da Snozzi sulle colline intorno alle città sono diventate un modello abitativo diffuso, che ha conquistato tutti i ceti sociali. Lasciare la città e abitare in una casetta isolata nel verde è diventata la meta di ogni giovane coppia. Le piccole città ticinesi non hanno vissuto le immigrazioni e gli ingrandimenti otto-novecenteschi che hanno conferito dimensione e forma a tutte le città europee. La cultura urbana non ha avuto l’occasione di consolidarsi, e i nuovi modelli abitativi si sono imposti velocemente frammentando gli insediamenti sul territorio dei fondovalle in migliaia di casette, insediamenti artigianali e infrastrutture.

La contraddizione tra la situazione territoriale così marcatamente antiurbana (e antisociale) e la cultura degli architetti ha assunto un aspetto culturalmente drammatico. Il concetto di città come condizione più evoluta dell’abitare ha accomunato il pensiero dei protagonisti di tutte le generazioni, a prescindere dalla differenza dei linguaggi. La tensione di ogni progetto a intessere relazioni con il contesto per fare città era e continua ad essere un principio irrinunciabile, e contemporaneamente è stata occasione di grandi frustrazioni. Il progetto urbano di Monte Carasso – conosciuto nelle scuole di architettura di tutto il mondo come esperimento urbanistico di coniugazione tra abitazione individuale e città, e tra abitazione e spazio pubblico – dopo quasi quarant’anni non ha prodotto sviluppi e applicazioni in contesti urbani di maggiori dimensioni. Lo scontro con i modelli abitativi egemoni l’ha visto perdente.

Rispetto alle battaglie condotte negli anni Settanta e Ottanta per imporre l’architettura moderna, certamente il disimpegno politico ha conquistato molti architetti, si sono allentati i vincoli di solidarietà tra colleghi, non si sono più registrati gli episodi di progetti collettivi che avevano distinto la fase «epica» della modernità. In generale si è assistito, con eccezioni anche importanti ma individuali, a un indebolimento della progettazione come forma particolare della critica, alla quale la nostra rivista ha cercato di opporre resistenza. Una certa eclisse della critica, d’altra parte, ha riguardato non solo il mondo dell’architettura, ma in generale la vita sociale, e lo scenario delle forze politiche oggi prevalenti lo dimostra. Il modello dell’abitazione individuale diffusa sul territorio, insieme a quello del trasporto individuale – condiviso con le aree confinanti del Comasco e del Varesotto – si è consolidato in sistema, comprendente una politica del credito funzionale agli interessi immobiliari, ed è stato favorito dalla pianificazione urbanistica. La politica ha assecondato il modello culturale, vi si è appiattita. La politica ha perso, in generale, la capacità progettuale, la profondità della visione, e si è ridotta alla ricerca del consenso immediato, da verificare in tempo reale con i sondaggi.

Gli architetti hanno senza dubbio importanti responsabilità per non avere contrastato la deriva culturale, ma certamente non è loro la responsabilità centrale. Affermarlo comporterebbe liberare dalle sue responsabilità la politica, che ha abdicato alla sua missione di elaborare e promuovere le aspirazioni più elevate.

La prospettiva

La crescente consapevolezza degli enormi costi economici, oltre che sociali, di questo tipo di trasformazione territoriale fa registrare da qualche anno alcune novità sul fronte dell’impegno a contrastarlo. A indicarlo sono i segnali di ritorno all’impegno politico di diversi architetti, la vivace attività delle loro associazioni e il successo di nuove occasioni e luoghi di dibattito. E va citato anche un recente risveglio della politica cantonale nei confronti dei temi territoriali, anche se obbligatoriamente sollecitato dalla legislazione confederale.

Contrastare un modello così radicato sarà una battaglia lunga, ma la condizione territoriale appare sempre più chiaramente come il terreno del possibile riscatto dell’architettura, come la scala con la quale il progetto contemporaneo deve confrontarsi. Occorre riflettere sul fatto che negli ultimi trent’anni l’unico «pezzo di città» costruito in Ticino, l’unico compiuto progetto a scala urbana è stato Piazzale alla Valle di Mario Botta a Mendrisio.

Paradossalmente, la scarsa urbanità delle piccole città ticinesi può addirittura rappresentare un vantaggio, nel senso di favorire la ricerca di morfologie aperte e ibride per il progetto di nuove densità e centralità, soprattutto dirette a riscattare i territori della cosiddetta città diffusa. A Zurigo, per esempio, le vaste e formidabili esperienze di nuova urbanizzazione non di rado sono ancora legate al modello dell’isolato chiuso (la rue corridor criticata da Le Corbusier), mutuato dal forte carattere della città esistente.

Nello scenario internazionale, l’architettura elvetica ha una posizione speciale, non solo per la cultura tecnica e l’eccezionale precisione esecutiva, ma anche perché non partecipa alla ricerca degli effetti spettacolari che dilaga a tutte le latitudini. All’interno della Svizzera, l’architettura ticinese ha un ruolo certamente minoritario, per la scarsità della produzione, per l’assenza di protagonismo – che ha distinto, nei decenni scorsi, gli architetti di Basilea, di Zurigo e quelli romandi – e, non ultimo, per lo scarso governo del territorio da parte di Comuni e Cantone e il conseguente disordine del paesaggio costruito. Pur con queste limitazioni, l’architettura colta costruita in Ticino dagli architetti di cui ho sopra accennato è riuscita a mantenere una posizione di eccellenza, per il rigore e la chiarezza delle sue ragioni. La lettura in filigrana di queste ragioni, in generale non più rappresentate in modo didascalico, ha promosso le opere dei ticinesi dalla originaria «nicchia» mediatica regionale, troppo stretta e ancora riferita alla lezione dei maestri degli anni Settanta, e ha messo i loro autori in condizione di competere sulla scena nazionale.

Nel periodo epico degli anni Settanta la novità ticinese era fondata sulla capacità di interpretare le nuove istanze sociali e di rispondere alla domanda di nuovi servizi. Oggi l’architettura ticinese può tornare protagonista se gli architetti saranno capaci di trasformare la consapevolezza dell’attuale condizione territoriale in energia progettuale, recuperando pienamente il pensiero critico. Prima di tutto, gli enti pubblici devono finalmente assumersi la responsabilità di promuovere – come avviene nelle aree urbane di Zurigo e di Ginevra – le soluzioni insediative per un uso parsimonioso del territorio, che altrimenti rimane, come è stato fino ad ora, abbandonato all’iniziativa privata. Sono necessarie soluzioni insediative a grande scala in grado di riscattare il disordine territoriale rispondendo ai bisogni più evoluti, elaborate con rinnovato realismo dalla cultura architettonica.

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