La Società ticinese per l’arte e la natura e il Palacinema
Di seguito pubblichiamo la replica della STAN, Società ticinese per l'Arte e la Natura, all’articolo di Paolo Fumagalli apparso in Archi 4/2018.
Replica che giunge tardiva in redazione, a oltre sei mesi dalla pubblicazione dell’articolo, quando Archi e i suoi lettori si sono orientati verso altri temi e dibattiti. Ci rincresce che la STAN abbia sottovalutato la tempistica: il dibattito che avrebbe potuto scaturire, a tempo debito, da questa presa di posizione sarebbe stato stimolante e avrebbe sicuramente alimentato altri interessanti contributi.
Riteniamo comunque doveroso concedere alla STAN la possibilità di replicare. Sono però necessarie alcune precisazioni in relazione a quanto affermato nel testo di Riccardo Bergossi, già vicepresidente della Società ticinese per l'Arte e la Natura.
Compito di Archi non è«celebrare» gli edifici che pubblica, ma presentare criticamente i progetti su cui si sofferma. Specificamente Archi offre gli strumenti – testuali e grafici – affinché il lettore possa trarre le sue conclusioni sulle opere pubblicate. L’impostazione critica è determinata dall'assetto generale del numero e dal taglio dei contributi, sempre nell’intento di qualificare il livello del dibattito, dando l’opportunità agli estensori degli articoli di esprimersi liberamente.
Leggendo la replica di Bergossi, ci chiediamo se in questo caso gli obiettivi dell’associazione siano davvero stati raggiunti: la trasformazione dell’edificio soddisfa i principi di tutela della STAN? (MD SM)
Sul n. 4 del 2018 di «Archi» è apparso un articolo di Paolo Fumagalli dal titolo: Un commento sul concorso per il Palazzo del Cinema di Locarno. Dalla lettura del testo si apprende che il Palazzo del Cinema, così come è stato realizzato, non soddisfa l’estensore. Bizzarro che una simile uscita avvenga in un contesto in cui il nuovo edificio viene invece celebrato, ma tant’è. Doppiamente bizzarro che l’autore della censura sia stato membro della giuria del concorso che sei anni fa tale progetto ha premiato e mandato all’esecuzione e che finora tali opinioni fossero secretate. Ma Fumagalli spiega che la giuria sarebbe stata obbligata a scegliere la proposta che contemplava il mantenimento delle scuole comunali perché la STAN, la Società ticinese per l’arte e la natura, con un comunicato stampa, a concorso già avviato, avrebbe minacciato opposizioni al progetto nel caso si fosse optato per proposte che prevedessero la sostituzione del fabbricato storico. Infine, in quello che sembra un tentativo di delegittimazione, Fumagalli schizza una fantasiosa rappresentazione degli esordi della nostra associazione che ne adombra l’origine nell’ambito dell’opposizione alla diffusione dell’architettura del Movimento moderno negli anni Venti.
La STAN non concorda con la ricostruzione proposta, che reputa oscura e tendenziosa, e ritiene necessario intervenire per chiarire i fatti e metterli nella giusta sequenza.
Partiamo dall’inizio, cioè dalle vecchie scuole comunali di Locarno. Fumagalli le definisce edificio «ibrido», nel senso «di essere costituito di una parte originaria risalente al 1894 (progetto dell’arch. Ferdinando Bernasconi sr.) e un’altra parte realizzata con un successivo ingrandimento nel 1931 (architetti Silverio Rianda e Gianpiero [sic, ma Piero] Respini)». A noi risulta che la definizione di ibrido per un edificio faccia riferimento alle funzioni che questo ospita, non alle fasi della sua realizzazione. L’essere costituiti da parti realizzate in tempi diversi per gli edifici storici rappresenta la normalità e non è un titolo di demerito, ma un elemento di interesse. Non si può certo sostenere che la Cattedrale di Lugano sia svalutata dal fatto di essere un edificio romanico con facciata rinascimentale, cappelle barocche, sagrato neoclassico e ora arredi liturgici moderni.
Sull’edificio in questione Fumagalli è lapidario: «Il valore storico e architettonico delle ex-scuole sono scarsi, l’edificio è uno spurio sorto in momenti differenti e il cui insieme non è per niente straordinario». L’uscita è da valutare per quello che è, un’opinione non argomentata, tanto più che l’invito a insediare la Casa del Cinema in quell’edificio (non al suo posto) venne da Jean-Frédéric Jauslin, allora direttore dell’Ufficio federale della cultura, e fu fatta propria dal gruppo di lavoro che nel 2009 elaborò lo Studio di fattibilità “La Casa del Cinema Locarno” su incarico della fondazione omonima, in cui erano presenti i sindaci dei Comuni della regione. Il documento, consultabile online, contiene un capitolo intitolato: «Il valore storico e architettonico del palazzo», che termina con queste parole: «Negli ultimi decenni, tuttavia, è venuta maturando – in generale in Europa, ma anche nel nostro Paese – una maggiore attenzione al patrimonio architettonico ed artistico di fine Ottocento e inizio Novecento: anche per le opere del tardo eclettismo ha così preso corpo una rivalutazione, oltre al già considerato riconoscimento del periodo neoclassico. In quest’ottica, l’ipotesi di valorizzare il Palazzo delle ex scuole comunali di Piazza Castello appare quindi tutt’altro che peregrina, e sicuramente degna di essere approfondita». E ancora: «Il palazzo delle ex scuole è – con il pretorio, l’ex Palazzo del Governo (ora sede SES), il Grand Hotel e l’ampliamento del convento di San Francesco, precedente sede della scuola Magistrale – uno degli edifici più rappresentativi dell’architettura di fine Ottocento e inizio Novecento rimasti in città. Non fosse che per questo motivo, l’ipotesi di un suo riutilizzo appare dunque assolutamente adeguata». Ad analoghe conclusioni sull’edificio erano giunti anche i compilatori della Guida d’arte della Svizzera italiana, edita dalla Società di Storia dell’Arte in Svizzera nel 2007, che lo hanno menzionato con una descrizione, e quelli dell’Inventario federale degli insediamenti svizzeri da proteggere (ISOS), pubblicato nel 2010, che ha attribuito alle vecchie scuole l’obiettivo di salvaguardia massimo (categoria A). Aggiungiamo che nel 1894 il progetto delle Scuole comunali corrispondeva agli standard di razionalità e igiene più aggiornati dell’edilizia scolastica, dato di fatto che si evince dal confronto con esempi analoghi e che rende merito al suo progettista Ferdinando Bernasconi senior (1867-1919), autore tra l’altro del Pretorio e del teatro Kursaal di Locarno, del municipio, della scuola del disegno e del cinema di Mendrisio, oltre che di villini nel Quartiere nuovo di Locarno. Tra questi, nel 1908, la sua residenza fu in città il primo edificio con struttura in cemento armato. Aggiungiamo che Bernasconi è stato anche architetto cantonale per dodici anni e arriviamo alla conclusione che lo spessore del progettista dovrebbe bastare a prestare alla sua opera un’attenzione maggiore di quella mostrata da Fumagalli. La stessa Guida d’arte della Svizzera italiana menzionata prima cita ben 16 opere di Bernasconi, e non si può sostenere che sia un lavoro frutto di una combriccola di nemici dell’architettura moderna, visto che vi appaiono citate anche opere dello stesso Fumagalli (in numero minore però).
Il bando di concorso, prosegue Fumagalli, «lasciava totale libertà di scelta ai progettisti concorrenti: conservare l’edificio esistente, ampliarlo, o abbatterlo per costruirne uno nuovo». Ma «a concorso ormai avviato (…) ecco che la STAN, Società ticinese per l’arte e la natura, dichiara pubblicamente con un comunicato del 12 luglio 2012 (…) che le ex scuole comunali esistenti costituiscono un esempio storico di valore, e implicitamente fa capire che si opporrà contro la sua demolizione. Ibrido (come l’ho definito) o no, non ha importanza: l’edificio va mantenuto, conservato. Ovvio, una simile presa di posizione da parte di una società da tutti riconosciuta per la serietà e l’impegno nel proteggere l’architettura antica costituisce una pressione e ha un influsso importante sull’opinione pubblica. (…) Una simile pressione ha il sapore del ricatto».
Il comunicato stampa della STAN del 12 luglio 2012 è stato ampiamente presentato dai tre quotidiani il successivo 16 luglio ed è possibile consultarli nelle biblioteche cantonali. Non era un’uscita estemporanea ma seguiva diverse altre prese di posizione dello stesso tenore, la prima delle quali risaliva al 2005, non conteneva minacce né esplicite né implicite, né toni ricattatori, semplicemente esprimeva preoccupazione per il destino del palazzo delle vecchie scuole. Che il concorso fosse già avviato non corrisponde al vero, fu infatti aperto solo il 20 luglio, quando il Municipio conosceva il testo del comunicato da una settimana. Se gli avessero riconosciuto il peso che Fumagalli pretende di dargli, le autorità politiche avrebbero potuto intervenire sul bando. Non lo hanno fatto. Fumagalli si è dimenticato di dire che, in quegli stessi giorni, il Municipio locarnese stava discutendo dei beni culturali da tutelare a livello locale ai sensi della Legge sulla protezione dei beni culturali del 13 maggio 1997. Il Municipio in seguito avrebbe dichiarato di avere ricevuto l’elenco compilato dall’Ufficio dei beni culturali il 25 luglio. Il contenuto era tuttavia trapelato e si sapeva da settimane che le ex scuole rientravano tra gli oggetti che il Cantone chiedeva al Comune di Locarno di porre sotto tutela.
Anche nella ricostruzione sulle origini e sulle finalità della nostra associazione, Fumagalli dimostra di non essere bene informato. Dell’associazione Fumagalli scrive che «prima di chiamarsi STAN, il suo nome era “Heimatschutz” che tradotto dal tedesco significa “protezione della patria” (…) fondata nel 1905 (…) in prima linea nel “difendere la patria” da quella nuova architettura che nel primo Dopoguerra proponeva nuove forme architettoniche». Nessuna di queste affermazioni è veritiera. La STAN è stata fondata nel 1908 a Lugano come Società ticinese per la conservazione delle bellezze naturali ed artistiche (STCBNA). Venticinque furono i fondatori, undici dei quali costituirono il primo consiglio direttivo, un gruppo espressione della società civile del tempo in cui si contano un ingegnere forestale, Arnoldo Bettelini, che fu il primo presidente, pittori, scultori, professori e due architetti: Paolo Zanini e Americo Marazzi (si veda «Il nostro Paese», n. 336, dicembre 2018, pp. 4-11). Fine della società era preservare le specificità del paesaggio regionale, sia quello naturale sia quello antropico tradizionale, entrambi allora minacciati dal fortissimo sviluppo connesso alla crescita esponenziale dell’industria dei forestieri. Nel primo caso si voleva anche interrompere la prassi di attuare i rimboschimenti seguiti alla deforestazione con conifere provenienti dal versante settentrionale delle Alpi, e favorire l’uso di specie autoctone nella formazione di nuovi giardini, nel secondo porre fine all’incuria in cui versavano i monumenti e gli abitati antichi e scoraggiare l’utilizzo per le nuove costruzioni di stili alpini e nord-alpini, reputati non consoni al paesaggio e al clima, segnatamente per i tetti a falde molto inclinate. I fondatori, privi di doti divinatorie a quanto ci risulta, non potevano certo prevedere l’architettura moderna, né che vent’anni più tardi sarebbero stati realizzati in Ticino edifici con tetti piani, ma indubbiamente nel primo decennio di attività, per mezzo di due concorsi a tema che riscossero grande adesione, cercarono di portare i progettisti locali a ricercare le caratteristiche dell’architettura regionale e a verificarne l’applicabilità nell’edilizia corrente. Ma nel 1905 l’architettura moderna era il Liberty, che nei primi atti della società era criticato per l’abbondanza di decorazione e per il suo carattere considerato stravagante, e che sarebbe stato affossato dalla SIA nella sua assemblea tenuta a Locarno nel 1909. L’ordine professionale degli architetti dimostrò allora un’identità di vedute con la Società ticinese per la conservazione delle bellezze naturali ed artistiche che sarebbe stata suggellata l’anno seguente, quando proprio l’architetto Americo Marazzi era scelto come primo redattore del bollettino dell’ordine degli architetti, la “Rivista tecnica della Svizzera italiana”. Di interventi della nostra associazione per contestare le architetture moderne realizzate ad Ascona alla fine degli anni Venti e nella prima metà degli anni Trenta non abbiamo trovato traccia, così come in verità non si trova traccia di prese di posizione degli ordini professionali degli architetti in loro favore. Come Fumagalli ci insegna, bisognerà attendere il 1973 perché «Rivista tecnica» si accorga di Carl Weidemeyer.
Tornando all’intervento della STAN nel luglio del 2012, se questo ha favorito un dibattito pubblico sul tema di mantenere o no il palazzo delle vecchie Scuole comunali di Locarno, non possiamo che rallegrarcene, perché questo è il ruolo della nostra associazione, vale a dire riconoscere la sostanza storica degna di attenzione, documentarne il valore con gli strumenti che abbiamo a disposizione – uno dei quali, l’inventario ISOS, ce lo fornisce la Confederazione – e farlo conoscere. Se la STAN è intervenuta anche a favore di edifici del Dopoguerra, e perfino degli anni ’70 e ’80, le valutazioni sull’architettura nuova le lasciamo fare ad altri, per esempio alle giurie di concorso. Siamo però dell’idea che a Locarno il destino di quell’edificio fosse un tema già caldo anche senza il nostro intervento, come dimostrano le discussioni nell’ambito del Consiglio comunale riportate dalla stampa, che condussero a un passo dal referendum. Sempre secondo Fumagalli, un “bravo” progettista, libero di creare senza i vincoli del mantenimento delle vecchie scuole avrebbe potuto fare grandi cose. Bene, tra gli ottanta partecipanti che al concorso non hanno mantenuto il vecchio edificio ci mostri pure le proposte degne dei lapis dei Maestri. Noi però siamo dell’idea che la legge che disciplina i beni culturali, laddove proibisce di manomettere i beni protetti e degni di protezione, sia giusta e vada applicata. Di casi come la distruzione delle scuderie di Villa Ciani e dell’antico convento detto Venezia ne abbiamo avuti abbastanza, il patrimonio edilizio negli ultimi decenni è stato abbandonato alla speculazione e la STAN crede di dover fare quanto in suo potere per conservare il poco rimasto.