Vent'anni di Laboratorio Ticino
Il commiato del direttore
Il n. 1/1998 di Archi, il primo dalla sua fondazione, era dedicato al mestiere e il mio editoriale iniziava con la citazione che oggi vi ripropongo, per chiudere il cerchio del dialogo che ho intrattenuto con voi per venti anni.
In quel testo del 1998 affermavo che «il mestiere è la dimensione dell’architettura sulla quale vogliamo riflettere: tra i tanti modi possibili di illustrare il progetto di architettura, ci proponiamo di affrontare quello proprio della sua costruzione, della relazione tra la realtà ed il pensiero che la intende modificare». E più avanti aggiungevo che «la consapevolezza che l’architettura è sempre pubblica e che il suo esercizio è quindi sempre esercizio di responsabilità civile, vorremmo prevalesse sulla pratica professionale ignorante e inconsapevole che caratterizza gran parte delle trasformazioni ambientali, la grande quantità dei manufatti che ci circondano». Ho lavorato per mantenere fede a questo programma, tessendo il filo rosso che collega gli editoriali di Archi, un filo rosso teso e insistente sulla necessità della relazione tra la realtà e il pensiero che la vuole modificare.
Sono convinto, come allora, che sia culturalmente legittimo parlare di «architettura ticinese». Già allora la critica più attenta aveva abbandonato il concetto di «scuola ticinese», prendendo atto delle grandi differenze di poetiche e di linguaggi degli architetti di Tendenzen. Sono altrettanto convinto che parlare soltanto di «architettura in Ticino» non sia sufficiente per esprimere il denominatore comune, relativo soprattutto ai concetti insediativi, che unisce tante opere. Ho scritto un testo, che potete leggere più avanti, per motivare questa convinzione, che continua ad essere alimentata dalla produzione attuale degli architetti migliori. Sostengo, infatti, che ancora oggi l’architettura ticinese sia riconoscibile da altre architetture regionali e che copra una posizione di eccellenza nello scenario elvetico.
La realtà territoriale nella quale operano gli architetti ticinesi è difficile. Ho continuato a insistere sulla necessità dell’impegno civile collettivo degli architetti sul tema dell’uso parsimonioso del territorio, sulla necessità di una visione «politica», con appelli all’etica che spero non siano risultati moralistici. Da questo punto di vista, ho lavorato perché Archi fosse letta come una rivista di tendenza, non certo con il significato che si attribuiva a questa parola negli anni Sessanta e Settanta, ma nel senso della carica critica nei confronti della realtà, dell’affermazione esplicita di un orientamento del pensiero finalizzato alla cura del territorio. E nel senso della orgogliosa differenza di Archi rispetto alle riviste che pubblicano di tutto purché sia di qualità, conferendo a questo ambiguo termine soprattutto un’interpretazione di natura fotogenica.
L’Agenzia Nazionale Italiana Anvur ha attribuito ad Archi la «Classe A» come rivista scientifica rilevante ai fini dell’Abilitazione Scientifica Nazionale. La principale ragione di questa posizione prestigiosa deriva anche e soprattutto dalla sua «ticinesità», dal fatto di pubblicare opere e testi che illustrano la produzione e le problematiche di una piccola regione, una nicchia della cultura architettonica che continua a destare grande interesse, e che siamo fieri di avere contribuito a far conoscere. In venti anni Archi è cambiata, abbiamo completamente rotto la separazione tra la cultura degli architetti e quella degli ingegneri, ereditata dalla gloriosa Rivista Tecnica. Abbiamo dedicato molto spazio al Laboratorio Ticino, cioè alla ricerca che si è sviluppata tra i colleghi architetti e ingegneri dagli anni Novanta in poi, aperta a suggestioni e riferimenti diversi. Abbiamo ospitato le tendenze più differenti, con il criterio di selezionare chi offriva un contributo colto – cioè fondato su un pensiero – al rinnovamento. Per questo, mi assumo la responsabilità della scelta dei progetti pubblicati, consapevole di avere escluso le opere di alcuni colleghi. Chiedo scusa, invece, ai colleghi le cui valide opere non sono state pubblicate per nostri limiti nella ricerca sul territorio.
Penso che ancora la cultura architettonica e quella ingegneristica non abbiano sviluppato appieno il pensiero della modernità, che l’insegnamento dei maestri del moderno non abbia esaurito la sua carica innovatrice. È una convinzione problematica e dubbiosa, perché il pensiero moderno è ricerca costante e aggiornamento continuo delle ragioni del fare architettura.
Senza Stefano Milan, anima organizzativa della rivista, senza la redazione di architetti e ingegneri che hanno vissuto la condizione del mestiere nel “collettivo” di Archi, la rivista non avrebbe potuto perseguire i disegni che ho descritto. Oltre a loro, ringrazio la Sezione Ticino della SIA, con la quale abbiamo condiviso idee e aspirazioni cercando di rappresentarle. E ringrazio Stefan Cadosch, presidente della SIA centrale, affezionato lettore, e Katharina Schober, direttrice di Espazium, per la stima e l’autonomia culturale che ci ha concesso. Auguri, Mercedes.