La Bien­na­le di Ara­ve­na

La responsabilità sociale dell'architetto, tema della XV edizione

Alejandro Aravena prosegue e sviluppa il percorso virtuoso aperto da Rem Koolhaas con i Fundamentals della XIV Biennale. Nel 2014, Koolhaas ha interrotto la sequenza di esposizioni incentrate sui lavori degli architetti più noti, raccolti intorno a un tema concepito come occasione per esporre gesti progettuali finalizzati a stupire il grande pubblico. I difensori di questo concetto espositivo portavano come argomento la capacità che solo i grandi nomi hanno di attirare, appunto, il pubblico, per avvicinarlo alla comprensione del fenomeno architettonico.

Data di pubblicazione
27-07-2016
Revision
27-07-2016

Koolhaas e Aravena hanno ribaltato il concetto puntando, invece, sul contenuto e sulle finalità dei progetti di trasformazione delle città e del paesaggio. Un percorso certamente più difficile, che si deve alimentare di elaborazione concettuale e di ricerca, e che mira direttamente alla dimensione etica e civile del mestiere. L’esito della Biennale è molto «politico»: l’esposizione salta il livello estetico e sensoriale delle immagini, la loro capacità di dare spettacolo, per coinvolgere direttamente il visitatore nelle scelte e negli obiettivi delle opere. Non ci sono architetti non schierati, ogni progetto è uno strumento di cambiamento della realtà sociale e indica una direzione del cambiamento, della quale l’architetto si assume la responsabilità.

Il manifesto della XV Biennale è, in questo senso, molto eloquente: la donna in cima alla scala è l’archeologa tedesca Maria Reiche, che scruta il deserto dall’alto per cogliere il criterio ordinatore dei sassi, che altrimenti a livello del terreno sembra del tutto casuale. «Quella semplice scala – dice Aravena – è la prova che non dovremmo chiamare in causa limiti, seppure duri, per giustificare l’incapacità di fare il nostro lavoro. Contro la scarsità di mezzi: l’inventiva». Maria Reiche non poteva permettersi un’aereo o un drone, ma avrebbe potuto utilizzare il tetto dell’automobile per l’osservazione dall’alto, ma le ruote dell’auto avrebbero compromesso il campo della ricerca. «In questo caso – aggiunge Aravena – si è arrivati a una valutazione intelligente della realtà grazie all’intuizione dei mezzi con cui prendersene cura. Contro l’abbondanza: la pertinenza». 

L’obiettivo di questa Biennale è di offrire le conoscenze necessarie per accedere a punti di vista nuovi e alternativi. Reporting from the front – è il battagliero motto scelto da Aravena – «si propone di ascoltare coloro che sono stati capaci di una prospettiva più ampia, e di conseguenza sono in grado di condividere conoscenza ed esperienze, inventiva e pertinenza con chi tra noi rimane con i piedi appoggiati al suolo».

La manica delle Corderie e il padiglione centrale dei Giardini ospitano i progetti degli 88 partecipanti invitati, 33 dei quali under 40. L’uso parsimonioso delle risorse e del territorio è forse il tema più frequentato, insieme a quello della finalità sociale dell’attività costruttiva, e dell’intervento per combattere i drammatici squilibri della distribuzione del reddito e delle risorse nel mondo, valorizzando le risorse culturali locali. Lo spazio di ingresso delle Corderie è delimitato da pareti costruite assemblando a strati sovrapposti le lastre di cartongesso recuperate dai pannelli espositivi della Biennale d’Arte 2015, mentre dal soffitto penzolano luccicanti aste formate dai telai di lamiera zincata dei medesimi pannelli. 

Architetti di tutto il mondo, molti dei quali del tutto sconosciuti, soprattutto operanti nei paesi più poveri, espongono ricerche e progetti originali per gli approcci, i materiali e i linguaggi. Per gli architetti della vecchia Europa, che alimentano la loro cultura con i soliti media autoreferenziali, queste esperienze rappresentano ventate di atmosfere culturali stimolanti, che mettono in crisi convinzioni consolidate. 

Tra gli invitati europei, non poteva mancare Luigi Snozzi con il progetto di Montecarasso, che rappresenta per gli architetti dell’America Latina, e non solo, un esempio ancora ineguagliabile di rigore teorico nell’uso del territorio. Tra gli architetti svizzeri, i progetti brasiliani di Christian Kerez, che propone il risanamento di alcune favelas attraverso una ricostruzione che ne riproduce le regole insediative – indagandone la razionalità, nascosta dall’apparente spontaneità – e ne moltiplica la densità con l’estrusione in altezza. E poi i lavori di Christ & Gantenbein, il cui concetto di sostenibilità non è rivolto alla riciclabilità, che comporta comunque un consumo di energia, ma alla durabilità dell’architettura. Pochi sono i progetti degli architetti noti a livello globale, e comunque sono progetti strettamente attinenti al tema, come l’edificio sociale in terra cruda di David Chipperfield in Sudan o le residenze universitarie di Grafton Architects a Lima.

I padiglioni nazionali interpretano con diffusa espressività il Reporting from the front, cominciando dalla Germania, che ha ottenuto, dopo complessa trattativa con la locale Soprintendenza ai Beni Culturali, l’autorizzazione a provocare dei varchi nelle spesse murature perimetrali del monumentale padiglione costruito negli anni ’40, varchi che saranno ripristinati alla fine dell’esposizione. La politica dell’accoglienza di Angela Merkel trova qui una rappresentazione figurata particolarmente efficace.

Il padiglione francese, intitolato Nouvelles richesses ci offre un altro punto di vista sulla bellezza. Ricordandoci che il progetto courbusiano delle Maison Domino era una risposta alle devastazioni dei primi mesi della Grande Guerra vicino alla frontiera belga, il curatore Frédéric Bonnet prende atto dell’indebolimento delle politiche pubbliche e dell’imporsi dei prodotti standardizzati delle società immobiliari. Ma, rispetto alla diffusa convinzione che nel resto del territorio, abbandonato a uno sviluppo automatico, l’architettura sarebbe rara e senza riflessione collettiva, ribalta il punto di osservazione e scopre straordinarie qualità latenti. A forza di celebrare progetti dispendiosi, dimentichiamo di vedere che l’architettura può apportare delle risposte semplici, adatte al contesto, condivise, ordinarie e modeste. Nuove ricchezze, che vengono illustrate con immagini fotografiche di grande formato.

A un tema analogo è dedicato il padiglione spagnolo, al quale è stato attribuito il premio per il migliore padiglione nazionale, dedicato a numerosi piccoli progetti di trasformazione dell’esistente, illustrati in modo eloquente.

Il padiglione americano, allestito in modo più tradizionale, espone i progetti di trasformazione delle enormi aree industriali di Detroit, dismesse dall’industria automobilistica, e finalizzati a insediamenti ecosostenibili.

Il padiglione italiano, curato da TAM Associati, studio veneziano la cui attività è dedicata a progetti sociali nei paesi più poveri, invita alla riflessione sui modi di costruire più parsimoniosi, per un’architettura al servizio del bene comune, contro le frontiere create da marginalità ed esclusione. Il padiglione illustra anche l’attività di diverse organizzazioni non governative, forse indulgendo sul confine tra l’impegno sociale e l’atteggiamento caritatevole.

Molto interessante, dal punto di vista della conoscenza dei dati oggettivi della situazione mondiale degli squilibri tra città ricche e povere è la mostra del progetto speciale Report from Cities: Conflicts of an urban Age curata da Ricky Burdett per la London School of Economics and Political Science, che compara i dati demografici e di densità tra le città mondiali e documenta sulle modalità di formazione delle densità e sui conflitti generati nelle diverse situazioni urbane.

Il padiglione svizzero, infine, intitolato Incidental Space, espone nella sala grande una ricerca di Christian Kerez realizzata al Politecnico di Zurigo. Una nuvola di materiale cementizio sale dal pavimento fino ai lucernari della copertura, mostrando espressivi effetti chiaroscurali, che mutano a seconda della luce del giorno. Lo spazio compresso interno della nuvola, che è possibile visitare, amplifica i ricercati effetti luminosi. Lo spazio «incidentale» della nuvola deriva da una ricerca universitaria, diretta da Kerez, effettuata sulle forme dei vuoti formati da oggetti intrappolati nel getto di cemento e sulla casualità delle morfologie spaziali così originate. Preso atto che la cura del padiglione è stata decisa prima del mandato conferito ad Aravena, e quindi della scelta del tema generale della Biennale, tuttavia la sensazione risultante per il grande pubblico è che la Svizzera, a differenza di altri paesi «architettonicamente importanti», abbia deciso di «chiamarsi fuori» dall’impegnativo tema della responsabilità sociale dell’architetto. Se è vero, infatti, che l’»accidente» è certamente uno degli elementi che fanno parte del processo progettuale, è anche vero che, all’inverso, il tema della responsabilità sociale si forma e si esprime nella parte più razionale del medesimo processo e ne costituisce l’elemento più consapevole e controllato. L’isolata condizione di «diversità» della cultura elvetica, dichiarata con questa scelta espositiva, è rilevante e appare addirittura autolesionista dell’immagine nazionale, quasi un invito rivolto a Maria Reiche perché non salga sulla scala per capire la razionalità delle cose. Eppure in Svizzera – per esempio – ci sono esperienze straordinarie ed esemplari di social housing. Gli esperimenti, ormai diffusi e consolidati, di cohousing promossi dalle cooperative di Zurigo e le nuove forme di edilizia sociale di Ginevra, con le importanti sperimentazioni architettoniche conseguenti, rappresentano esperienze molto avanzate e competitive a livello continentale. Il tema del padiglione svizzero è anche un po’ ermetico. Ma la comunicazione dell’architettura è una questione critica in generale, e riguarda quasi tutti gli espositori. La ricerca e l’affinamento dei modi di comunicare, di trasmettere alla moltitudine di visitatori di tutte le culture le ragioni del mondo della progettazione, è una questione che diventa ancora più urgente, quando l’orientamento degli espositori punta di più ai contenuti e ai messaggi che non alle immagini spettacolari.

Da questo punto di vista, è al contrario esemplare il padiglione del Portogallo, allestito fuori dal perimetro dell’Arsenale e dei Giardini, alla Giudecca, all’interno del cantiere abbandonato dell’ampliamento dell’edificio costruito nel 1983 da Alvaro Siza. L’allestimento elementare, delimitato da tavole di armatura e dalle strutture in cemento armato del cantiere, ospita i modelli di quattro insediamenti sociali costruiti dal grande architetto portoghese – Bairro de Bouca a Porto, Schlesisches Tor a Berlino Kreuzberg, Schilderswijk all’Aja e Campo di Marte alla Giudecca – e una serie di video che testimoniano, oltre alle fasi della progettazione, soprattutto diversi momenti di incontro tra Siza e gli abitanti di questi quartieri, che l’anziano maestro ha visitato nelle loro case, discorrendo con loro delle piccole e delle grandi questioni di questo difficile mestiere. Con il linguaggio semplice e chiaro dei grandi uomini.

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