Il de­si­gn non è (so­lo) un gio­co da gran­di

Progetto e infanzia alla Triennale di Milano

Giro Giro Tondo è una mostra piacevole che gioca sul divertimento, sullo stupore e – in base all’età – su nostalgia e memoria, con un allestimento efficace e coerente.

Data di pubblicazione
07-06-2017
Revision
07-06-2017

La grande faccia che accoglie con la bocca spalancata il visitatore dell’edizione 2017 del Triennale Design Museum di Milano è quella di Quadratino, personaggio comparso più di cent’anni fa sulle pagine del «Corriere dei Piccoli». Era figlio di Mamma Geometria, nipote di Zia Algebra e Nonna Matematica, ma soprattutto era nato dalla matita di Antonio Rubino (1880-1964), poliedrico artista apprezzato – tra gli altri – da Italo Calvino e Federico Fellini. Protagonista di brevi strisce a fumetti dai contenuti educativi e divertenti, Quadratino è solo una delle innumerevoli piccole invenzioni che il progetto italiano ha dedicato ai bambini, oggi celebrate nella mostra Giro Giro Tondo. Design for Children (fino al 18 febbraio 2018), allestita da Stefano Giovannoni.

Da questa bocca, evocante la porta che dischiude ad Alice il suo meraviglioso Paese, si approda nella penombra di una stanza abitata da quindici icone dell’italico design, ingrandite a dismisura. C’è la poltrona Up7 di Gaetano Pesce (B&B, 1969); la Rabbit Chair (Qeeboo, 2016) e il portauovo Cico (Alessi, 2000) dello stesso Giovannoni; il divano Boccadoro di Studio 65 (Gufram, 2015) in versione extralarge; un enorme Pratone (Gufram, 1971); il nano (qui gigante) di Philippe Starck (Kartell, 1999) e ovviamente la mendiniana Poltrona di Proust (2002), già «scalata» molte volte nelle operazioni materiali e concettuali del suo autore. Il fuoriscala è l’espediente per collegarsi alla dimensione del bambino, che nel processo inafferrabile della sua crescita fa un’esperienza sempre mutevole dello spazio e degli oggetti attorno a sé. Ma questa selezione illustra anche il possibile cambiamento semantico e simbolico e funzionale dell’oggetto, che avviene soprattutto da piccoli: il coniglio diventa sedia, il portauovo è bambino, la bocca e l’erba si fanno divano (o viceversa). Attraversata questa Ouverture e superato un grande ritratto di Bruno Munari – santo patrono del progetto per l’infanzia – si giunge quindi nello spazio espositivo vero e proprio, costituito dalla galleria emiciclica del Palazzo dell’Arte, dove si svolge il clou della mostra. Qui l’allestimento in gomma morbida antitrauma richiama l’erba sintetica del playground, fornendo una superficie ininterrotta scandita in sezioni tematiche affidate a vari curatori.

Si comincia con l’arredo (a cura di Maria Paola Maino), con pezzi più e meno rari che dimostrano l’evoluzione della pedagogia prima che del design. Già nell’Ottocento troviamo infatti sedie e tavoli «rimpiccioliti» rispetto a quelli degli adulti – è il caso della ditta Thonet – ma bisognerà aspettare Maria Montessori per avere ambienti pensati per i bambini e non per adulti in miniatura (la differenza è sostanziale). In mostra ci sono seggioloni, banchi di scuola, tavoli (bello lo «scrittoietto» in vetro temprato di Gio Ponti del 1939), «cigni a dondolo», culle in vimini e tante sedie, che vanno dalla «poltrona-personaggio» di Antonio Rubino (con piedi braccia e testa) a quelle di Terragni in tubolare metallico per l’Asilo Sant’Elia di Como, fino alla forse insuperata sedia modello K1340 disegnata da Marco Zanuso e Richard Sapper per la Kartell, che trasforma l’arredo in gioco rispettando – anzi, perfezionando – le richieste ergonomiche dei più piccoli.

Nella sezione Giochi (curata da Luca Fois e Renato Ocone) ci sono cose vecchie e nuove, dalle automobili ai giochi in scatola, dall’analogico al digitale, dai futuristi ai videogiochi, dal legno alla plastica, dai teneri coniglietti ai mostri con i superpoteri, dalle sorprese degli «ovetti» Kinder (nate nel 1974 all’interno dell’azienda Ferrero) alle Winx, cartone animato ideato nel 2004 da Iginio Straffi e diventato un successo commerciale. Dentro a una casetta stilizzata si racconta invece l’architettura per bambini (a cura di Fulvio Irace), in particolare quella degli asili, seguendo l’evoluzione che dalle pulsioni riformiste del primo Novecento arriva fino ai giorni nostri. Tra le varie stagioni spicca il modello educativo di Loris Malaguzzi, in cui uno spazio architettonico – l’atelier – diventa punto focale per la partecipazione e la condivisione di bambini, educatori e genitori. Poco più avanti, un’installazione composta da tanti Pinocchi – la versione oversize dell’imbuto Pino disegnato da Giovannoni per Alessi è sospesa sopra una collezione di burattini e libri di Collodi – fronteggia una balena fucsia dentro cui sedersi per godere delle proiezioni ospitate al suo interno. È la sezione dedicata all’animazione (a cura di Maurizio Nichetti), con disegni animati di Bruno Bozzetto, Emanuele Luzzati, Guido Manuli e tanti altri, grazie ai quali la pubblicità si è elevata al di sopra del suo scopo più immediato. Difficile fare la lista di tutto il resto. Mancherebbero all’appello gli oggetti e i personaggi di Riccardo Dalisi, teorico dell’arte povera; la sezione dedicata agli strumenti usati dai bambini nelle ore di scuola; quella dedicata a Bruno Munari; i libri per bambini; gli animali di Enzo Mari per Danese e molto altro che vale la pena di scoprire personalmente.

Giro Giro Tondo è una mostra piacevole che gioca sul divertimento, sullo stupore e – in base all’età – su nostalgia e memoria, con un allestimento efficace e coerente. Qualche difetto, tuttavia, va registrato. Il primo è più che altro un paradosso: la prima cosa che si sente dire appena varcata la soglia è «Non toccare!», dal momento che la necessità di preservare l’integrità dei pezzi esposti ne proibisce, giustamente, il contatto. Ciò però si tramuta in divieto frustrante per le pulsioni ludiche dei visitatori piccoli e grandi: i primi – non soddisfatti dai pochi tablet a loro dedicati – vorrebbero trastullarsi con ogni singolo giocattolo, i secondi farsi un selfie sopra la sedia di Mendini o abbracciati all’enorme Merdolino – lo scopino da bagno disegnato da Giovannoni per Alessi. Il secondo difetto riguarda il sistema delle didascalie. Di fianco a ogni oggetto c’è un numero che rimanda al foglio di carta consegnato al visitatore insieme al biglietto: fare avanti-e-indietro con lo sguardo, in questa caccia alla didascalia, non è proprio il miglior modo di comunicare con il pubblico. Terzo: il grado di approfondimento concesso. Molti dei contenuti che supportano la mostra sono infatti esclusi ai visitatori un po’ più curiosi – o più ignoranti – per la stringatezza dei testi esposti. Se ad esempio uno non ricordasse bene i principi di Maria Montessori, dovrebbe farsi aiutare da Wikipedia sul proprio smartphone piuttosto che dall’apparato testuale esposto. Se non fosse che in mano il visitatore ha già il foglio delle didascalie, e allora il gioco si fa più complicato. Tale scelta sembra andare incontro alla volontà di semplificare il «tono medio» della mostra, forse – ci chiediamo – per non appesantirne il format nella speranza di avere un pubblico più allargato, da conquistare soprattutto facendo affidamento sul potere nostalgico o iconico degli oggetti? Meno male che c’è il catalogo a saziarci, ben illustrato e con saggi interessanti.

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