Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, no­vem­bre 2011

26 novembre 2011: L'architetto – un fornitore di servizi?

Data di pubblicazione
10-01-2012
Revision
19-08-2015

«In Svizzera l’architetto è visto come un fornitore di servizi e dunque è la prestazione a essere apprezzata, non tanto l’idea. L’idea non viene percepita, né plasticamente né idealmente, né tantomeno ricompensata. L’onorario percepito dall’architetto corrisponde solo alla prestazione fornita. Soprattutto quando si tratta di concorsi, in cui in realtà è l’idea premiata a rivestire un’importanza di primo piano per l’ente banditore, si sottovaluta nettamente ciò che possa essere il processo creativo, o perlomeno questo è quello che vivo nel mio quotidiano».

Sono le parole di Valerio Olgiati nell’intervista «L’architetto non è un fornitore di servizi» pubblicata nel numero 5 di quest’anno su Archi. Come afferma Olgiati, un progetto di architettura scaturisce in primo luogo da un’idea, un’idea che riesce a risolvere con una precisa scelta, in una sola sintesi creativa tutte le diverse istanze che convergono nel progetto: urbanistica, forma, volume, funzione, struttura, costruzione, materiali, energia, sostenibilità, costi. Certo, non è solo quella lampadina che si accende d’improvviso a risolvere ogni cosa, ma è l’inizio di un processo magari anche lento e faticoso, ma il cui percorso e coerenza sono dati proprio da quell’idea iniziale. Dice ancora Olgiati: «L’idea dalla quale solo e soltanto il committente trae un profitto materiale. Oltre a questo plusvalore economico e tangibile, vi è naturalmente anche il plusvalore culturale e sociale che può essere generato da un’idea. Tale valore non è misurabile, dunque è ancora più difficilmente comunicabile, al punto che oggigiorno, nel quotidiano dell’architetto, tende a perdere d’importanza».

Il concorso, l’idea, il progetto
Questa intervista a Olgiati l’ho letta nei giorni in cui partecipavo alla giuria di un concorso qui in Ticino. Un lavoro di giuria in cui durante tre giorni ci si è confrontati con oltre trenta progettisti i cui incarti comprendevano i disegni della situazione, le piante di ogni livello, le sezioni, i prospetti, i dettagli di facciata con fronte e sezione e pianta, un modello, nonché un incarto con i calcoli delle superfici dei singoli livelli, i calcoli delle superfici dei tetti, i calcoli di metri cubi dei volumi, i calcoli dei costi. E poi il testo della relazione al progetto – talvolta di interminabile lunghezza – nel quale i concorrenti spiegano tutto. Ma proprio tutto: dalla lettura del luogo all’inserimento nel terreno alla forma architettonica alla costruzione all’ecologia ai pannelli fotovoltaici e così via.
E mi sono chiesto, davanti alla mole di lavoro prodotta dal singolo, moltiplicata per il numero dei concorrenti, se tutto questo ha ancora senso. Se il modo in cui oggi il concorso di architettura è organizzato sia corretto: per chi al concorso partecipa, per chi i progetti del concorso deve giudicare. Perchè in definitiva, in tutta coscienza, nel lavoro di giuria ciò che conta è individuare, in ognuno di quei progetti che ho davanti e che devo giudicare, quello che intende Olgiati nell’intervista: l’idea. L’idea – se c’è – e la sua traduzione nel progetto. Che poi nel progetto si debbano sintetizzare tutti quei temi di logiche e di funzioni e di tecniche e tecnologie che compongono un edificio, va da sé. Ma fondamentale è l’idea. Del resto, come chiunque abbia partecipato a una giuria ha potuto costatarlo, tutte le discussioni e valutazioni ruotano – giustamente – attorno proprio a questa questione, nel cercare di individuare in ogni progetto se esiste un’idea iniziale, e se la si trova cercare poi di capire se l’ha perseguita con coerenza o se l’ha persa per strada, e confrontare infine idea a idea per trovare quel progetto che si ritiene il migliore. In quel luogo, per quel tema progettuale. E l’esame dei disegni è sufficiente per comprendere, anche se non in modo dettagliato, se in quel progetto le varie richieste tecnico-tecnologiche sono soddisfatte.

Il concorso, al limite del sadismo
Ma se il concorso di architettura è finalizzato a trovare, tra i vari partecipanti, quello che ha la miglior idea progettuale per il luogo in cui l’edificio deve sorgere e per dare a questo edificio le proporzioni, la forma e le logiche più adeguate, allora le regole con cui i concorsi di architettura sono organizzati andrebbero rifatte. Perchè oggi non è così: gli imperativi tecnici e economici e energetici e ecologici e di sostenibilità non costituiscono, come a mio avviso dovrebbero, il «quadro» entro il quale progettare, con le relative condizioni e parametri, ma sono diventati di anno in anno, di concorso in concorso dei documenti a sé, quasi avulsi dal progetto che il concorrente deve presentare. Fino all’assurdo che addirittura ne costituiscono la parte preponderante, almeno quantitativamente e come dispendio di forze e di tempo. Ma allora c’è da chiedersi perchè sono «solo» questi i documenti tecnici richiesti, perchè ai concorrenti non si chiede anche di specificare tutte le altre condizioni cui il progetto deve soddisfare, che so i calcoli statici per essere sicuri che l’edificio non crolli o gli accorgimenti perchè non si afflosci in caso di terremoto. Insomma, quello che si vuol dire è che chiedere, come si usa oggi nei concorsi, una pletora di documenti e calcoli e schemi aggiuntivi non è solo puro sadismo nei confronti dei concorrenti, ma anche un procedere disonesto nei loro confronti. Per una semplice ragione: nel valutare e confrontare soluzione a soluzione ciò che importa è il progetto in quanto tale, espressione di un’idea architettonica capace di qualificare il luogo urbano, di proporsi come oggetto compiuto, di risolvere con intelligenza i quesiti riguardanti i materiali, alle strutture, alle funzioni e ai percorsi. Questo è un progetto di architettura, e questo è ciò che va valutato. Tutto il resto, tutti i documenti richiesti e consegnati dal concorrente sono ininfluenti su tale giudizio – o almeno così dovrebbe essere. E mi spiego meglio. Oggi, per chiunque sviluppa un progetto di architettura, alla prima presentazione al committente non si dilunga per niente sugli aspetti tecnico-tecnologici, ma illustra la sua idea progettuale, come intende intervenire in quel terreno, come articolare l’edificio, quale forma dargli e quali facciate e con quali materiali, come intende risolvere gli spazi interni e la loro successione. Un progetto elaborato nei suoi elementi fondamentali, come ovvio in questa fase iniziale, e implicitamente comprensivo, se è un buon progetto, di tutti gli altri vari fattori che lo determinano. Sarà solo in un secondo momento, in una fase successiva, che quel committente vorrà approfondire gli aspetti legati alla tecnica. Del resto nel visitare l’esposizione dei progetti di un concorso, ognuno di noi è in grado di valutare la bontà o meno delle singole soluzioni, e anche polemizzare – non sarebbe la prima volta – sulla scelta del primo premio. Senza per questo consultare il dossier tecnico poggiato sotto la scatola che sorregge il modello.

Il concorso, necessario un rinnovamento delle regole
Partecipare a un concorso di architettura è oggi non più «... un’attività secondaria e collaterale – scrive Alberto Caruso nell’editoriale «Per una morale del concorso» del 1998 su questa rivista – che pochi architetti appassionati di ricerca culturale, e per lo più dotati di altre fonti di reddito, svolgevano nei ritagli del tempo di lavoro (...) Oggi la partecipazione al concorso tende a divenire modalità ordinaria di ricerca di lavoro, il tempo ad essa dedicato tende a diventare importante, ed il rischio «imprenditoriale» tende, di conseguenza, a caratterizzare sempre più il mestiere». Ecco perchè, aggiungo io, le modalità di concorso devono essere riviste in modo radicale. Qualcosa non funziona più. Si continua con vecchie regole, di quando questa procedura era un’eccezione, dettata soprattutto da opere difficili da focalizzare e precisare, da temi urbanistici o culturali o di prestigio particolari. Oggi invece, da quando il concorso è un obbligo per l’attribuzione dei mandati pubblici e si è in un certo senso istituzionalizzato, nelle vecchie regole delle norme sia se ne sono inserite delle nuove, eseguiti dei cambiamenti, e aggiunte e postille, mentre di riflesso i bandi di concorso si sono infarciti di richieste sempre più capillari. Il tutto nella preoccupazione di ottenere un progetto completo in ogni sua parte, dettagliato il più possibile quasi fosse maturo per andare in esecuzione domani mattina. Nel Workshop «Wettbewerbsverfahren in Diskussion» organizzato dal la sia nel 2007, l’architetto Martin Spühler è intervenuto affermando che «... l’aumento dei documenti richiesti nei concorsi è un problema concreto. L’altra settimana ho avuto l’occasione di vedere i documenti di concorso degli architetti Schwarz Gutmann Gloor per il Stadttheater di Basilea, un concorso che si è tenuto quarant’anni fa. Anche allora si trattava di un compito complesso, con problemi di acustica, tecnica per il clima e palcoscenico, ma è stato vinto con una idea. Oggi sarebbero richiesti non so quali documenti. È un compito che spaventa, molti architetti si possono permettere ancora solo uno o due concorsi all’anno». È in questo senso che occorre reinventare il concorso di architettura. Spogliarlo di tutto il gravame che anno dopo anno si è accumulato, buttare nel cestino – o più correttamente: mettere in archivio – le norme attuali e le relative sedici «Wegleitungen», per riprendere il discorso dall’inizio. Nella coscienza oltretutto che il concorso oggi è anche un passo obbligato per l’attribuzione dei mandati da parte degli Enti pubblici, un fatto che si traduce da un lato, come detto, in un numero sempre maggiore di concorsi, dall’altro a una accresciuta responsabilità, sia da parte di chi il concorso lo promuove, sia da chi lo deve giudicare. Ma questa responsabilità non deve tradursi nell’ampliare la mole di documenti richiesti ai concorrenti, ma piuttosto in un modo nuovo di organizzarli. Più documenti sono richiesti ai concorrenti, più l’intero processo diventa farraginoso, più si rischia di perdere per strada la qualità. La sia Ticino organizzerà nella prossima primavera un seminario su questo tema. Spero sia l’occasione per dibattere i quesiti che oggi affliggono sia i concorsi di architettura e sia gli architetti che vi partecipano: come semplificare le procedure, quale metodo per individuare il miglior progetto architettonico, come alleggerire le questioni concernenti i costi e ai quesiti tecnologici. E come legare e vincolare l’esito del concorso con l’appalto e l’aggiudicazione del mandato, con i suoi propri vincoli giuridici. Alla consegna del progetto per il concorso del Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra nel 1927, Le Corbusier scrive: «Tout est accompli: vous avez abandonné les formes, les concepts, les habitudes, les moyens, les recettes de l’Académie. Vous avez fait de l’architecture moderne et vous êtes inattaquable». Poveretto, non sapeva quali polemiche l’attendevano, né che il progetto sarebbe poi stato affidato a un certo Henri Paul Ménot.

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