Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, lu­glio 2012

11 luglio 2012: Tutela del Moderno

Data di pubblicazione
12-02-2013
Revision
19-08-2015

Sono 64 gli edifici del Moderno, costruiti nei limiti temporali tra il 1920 e il 1980, che l’Ufficio beni culturali ha identificato come meritevoli di tutela e riconosciuti beni culturali di interesse cantonale. Proteggere 64 edifici della modernità – oltre a quei 3 o 4 già protetti alcuni anni fa – è un fatto straordinario, eccezionale: finalmente un riconoscimento a una architettura e alla sua storia che, piaccia o no, ha segnato il Novecento e ancora oggi costituisce il substrato culturale su cui si innesta il contemporaneo. Tutelare non più solo Rinascimento, Barocco o Neoclassico, ma anche il Moderno e la relativa carica sperimentale e innovativa che oltre un secolo fa investì tutto il mondo dell’arte. Un «finalmente» la cui importanza è festeggiata con il bell’opuscolo «La tutela del moderno nel Cantone Ticino» stampato per l’occasione, e che dovrebbe essere distribuito in tutti i fuochi del Cantone per far capire – anche a chi è sordo – che il Moderno è una realtà storica e un patrimonio inalienabile che appartiene alla collettività, di pari importanza dei monumenti dell’antichità. Riconoscere solo oggi «ufficialmente» il valore delle opere architettoniche realizzate da quel «mondo nuovo» nato quando il progresso tecnologico nella costruzione degli edifici si accomunò ai profondi mutamenti sociali, politici, culturali, scientifici e artistici può sembrare estremamente tardivo, e forse lo è anche, ma occorre anche riconoscere che solo da pochi anni nelle sale di musica si inizia ad ascoltare non solo Beethoven ma anche Hindemith o Luciano Berio, e nei musei si possono vedere grandi mostre non solo di Degas o Renoir, ma anche di Rothko o di Frank Stella.

La pubblicazione

«La tutela del Moderno nel Cantone Ticino» è curato da Giulio Foletti, Katja Bigger e Miriam Filippone, con testi di Adriano Censi (Presidente della Commissione dei beni culturali), Giuseppe Chiesi (Capo dell’Ufficio beni culturali), Riccardo Bergossi e dello stesso Foletti. La pubblicazione illustra ogni edificio con un’immagine, un breve commento e i dati concernenti il luogo, l’anno di costruzione e l’architetto. Appaiono così «ufficialmente consacrati» edifici oramai noti a molti – e non solo agli storici dell’architettura – come la casa d’appartamenti Albairone di Peppo Brivio e quella di Schnebli a Lugano, la casa Torre di Tami a Lugano o la casa unifamiliare Balmelli di Tita Carloni a Rovio o ancora la scuola Media di Camenzind e Brocchi a Bellinzona. Ma parecchi sono noti a pochi, e forse a qualcuno desterà meraviglia che siano riconosciuti di pregio la facciata in vetro dentro il centro storico di Bellinzona di Augusto Jäggli o l’enorme volume, che svetta nel paesaggio del Mendrisiotto, della Fercasa di Alberto Finzi e Paolo Zürcher a Novazzano. Ma è proprio per questo che la pubblicazione è opportuna.  Certo, qualche edificio è assente in questa «classifica», ma non è questo il momento – né ci sarebbe lo spazio – per recriminare o dilungarsi. Piuttosto, mi interessa chiarire un paio di concetti.

M maiuscola o minuscola?

La prima osservazione riguarda la datazione dei 64 edifici inseriti nell’elenco. Andate a scorrere le pagine dell’opuscolo: scoprirete che gli edifici costruiti dopo il 1945 sono 54, e solo 10 sono stati realizzati prima del 1945. Ciò significa che il Moderno in Ticino è arrivato tardi, molto tardi. Addirittura il Moderno si afferma in Ticino solo nel Dopoguerra, con oltre 30 anni di ritardo rispetto al resto dell’Europa. Quindi: prima del 1945, il Moderno non appartiene per niente alla cultura dell’architettura nel Ticino, e i pochi esempi esistenti costituiscono non la regola, ma le sporadiche eccezioni (di enorme valore quindi) dentro un paese in definitiva ancorato, diciamo, a una ritrosia culturale verso il nuovo, soprattutto da parte di quella classe borghese che possedeva i mezzi finanziari per realizzarla, l’architettura. Ma allora, se questo è vero, se è vero che le opere di Weidemeyer, Franconi, Amadò, Guidini, Witmer e Witmer-Ferri, Tentori-Klein, Bernasconi, Maillart, Fahrenkamp e Krüsi (e qui finisce l’elenco) sono le eccezioni, ha ancora senso – mi chiedo – da un punto di vista storico parlare di Moderno nel Ticino? Detto altrimenti: le opere successive al 1945 appartengono al Moderno o sono semplicemente moderne? Insomma, occorre intendersi su questo concetto. Moderno con la M maiuscola o con la m minuscola: con quest’ultima si intende generalmente qualcosa costruito di recente, ciò che è contemporaneo, con la M maiuscola si intende invece un periodo storico ben preciso, il Movimento Moderno, quello che si innesta sui movimenti artistici dell’avanguardia all’inizio del Novecento e si sviluppa tra le due guerre, lo Jugendstil, il Futurismo, il De Stijl, il Neues Bauen del Bauhaus, l’Espressionismo e il Razionalismo. Ciò che viene dopo il 1945, le opere, dei Tami dei Galfetti dei Botta, sono sì moderne, ma non appartengono affatto al Movimento Moderno nella sua corretta accezione storica. Attenzione, non è solo una questione anagrafica. Perchè se è vero che M maiuscola o minuscola non è un capriccio «grammaticale» ma un fatto di correttezza storica, allora forse l’elenco sarebbe diverso e altrimenti considerati quegli edifici che a mio parere, pur appartenendo al Moderno, non sono di matrice razionalista.

Il Moderno e la storia

Il secondo commento che mi sembra importante è il riconoscere l’eccezionalità di questa tutela: significa riconoscere all’architettura moderna un valore di continuità con il passato e quindi di costituire un ulteriore momento – riconosciuto – dell’evoluzione dell’architettura, della città, del territorio, del paesaggio. Certo, è vero che il Moderno è un movimento di rottura, spesso anzi in profonda polemica con il passato. Ma certi appelli a buttare alle ortiche colonne e regole classiche come nei manifesti di Marinetti («... perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile ») vanno inseriti nel loro contesto storico e nella anche violenta polemica tra conservatori e innovatori. Già Sant’Elia nel suo manifesto usava altre parole e concetti: se da un lato scrive che «... l’architettura come arte delle forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita» d’altro lato riconosce che «... gli antichi trassero ispirazione dell’arte dagli elementi della natura...». Ma di là dagli estremi del Futurismo è indubbio che il Moderno, se nasce e trae linfa dalle avanguardie artistiche, affonda comunque le radici nella storia.  Sono gli stessi Maestri del Moderno a riferirsi all’architettura classica, alle regole compositive o alla storia dell’arte. Da Wright e la sua passione per l’arte giapponese e Maya, a Le Corbusier e le sue riflessioni sull’arte antica. Basta leggere le lettere da lui scritte (nel libro «C’était Le Corbusier» di Nicholas Fox Weber, Fayard editore) per comprendere l’impatto che ebbe nel 1910 a cospetto dell’Acropoli di Atene: ci salì tutti i giorni finché, esausto, scrisse a L’Eplattenier che «... j’ai vu Eleusis et Delphes. C’était bien, mais j’ai vu l’Acropole pendant 3 semaines. Tonnerre de Dieu, j’en était dégoûté à la fin, tant ça vous pile et vous met en poudre».

Una nuova mentalità

Infine, un’ultima osservazione, detta senza alcuna intenzione polemica, ci mancherebbe. Questo elenco di edifici testimonia un cambiamento di mentalità, se mi è permesso il termine. Nel senso che considerare «monumento» – perchè questo significa tutelare un’architettura – una chiesa gotica o un palazzo rinascimentale o una rovina medievale è una cosa ovvia, si fa sin dall’Ottocento. Ma definire con lo stesso termine «monumento» un semplice e spoglio edificio d’appartamenti o una casa di vacanza o un magazzino adibito a deposito o un bagno pubblico è ben altra faccenda. Finora, chi visita un «monumento» ha il sentimento di trovarsi dentro un luogo speciale, sotto volte e stucchi, si parla sottovoce e si ha quasi paura del click provocato dalla macchina fotografica. Un luogo quasi astratto insomma, avulso dalla vita reale, dove in definitiva non si vive, ma solo si visita. Ma se io entro dentro una casa abitata, con il proprietario che beve il caffè e il figlio in brache corte spaparanzato a guardare la televisione, oppure visito una scuola materna nel chiasso di piccoli capricciosi con il moccio sotto il naso o percorro il bordo di una piscina tra odori di cloro e creme solari e viste di bikini e tanga? Ecco perchè riconoscere essere dei «monumenti» tutte queste architetture e ritenerle di pari di dignità con chiese e castelli significa un cambiamento di mentalità. E motiva – anche – i tempi lunghi che sono stati necessari per riconoscerne il valore. Eppure, eppure ancora rimangono alcune riserve, alcune precisazioni, alcuni «ma» e «se». Per svicolare il problema, ad esempio, il termine «monumento» è stato addirittura cancellato, oggi si usa dire «bene culturale». E il problema pare risolto. Oppure, altro esempio, a rileggere il testo «La tutela: criteri di una scelta» scritto da Giulio Foletti nel citato opuscolo «Tutela del Moderno nel Cantone Ticino» – un testo del resto interessante e molto chiaro – appaiono qua e là alcune frasi o termini dove l’architettura moderna è vista come un fatto singolare, quasi anomalo: «... la protezione del Moderno obbedisce a logiche particolari. Questi manufatti, a differenza dei tradizionali e più riconoscibili ‹monumenti d’arte e di storia›, spesso sono elementi costitutivi di un tessuto urbano uniforme e diffuso, non necessariamente o essenzialmente simbolico o rappresentativo (...) ben mimetizzato nell’edilizia insignificante che costituisce il quotidiano orizzonte contemporaneo...» (pagina 13). Oppure: «Il Moderno, per essere capito, apprezzato e quindi protetto, richiede uno sforzo di comprensione che deve andare al di là delle mere impressioni soggettive» o ancora: «Per valutare e per proteggere questo singolare patrimonio, è pertanto necessario elaborare gerarchie di valori evidenti...» (pagina 14). Frasi certo qui isolate da un contesto più articolato, ma che comunque a mio parere sono discutibili: è proprio perchè espressione della cultura contemporanea che sono immerse nel «tessuto urbano uniforme e diffuso», né credo debbano esigere «uno sforzo di comprensione» particolare. Anzi, mi chiedo se ai giovani rockettari di oggi non sia più facile capire (anche in modo soggettivo) un edificio contemporaneo piuttosto che delle rovine archeologiche o un palazzo rinascimentale o barocco, sia dal punto di vista formale sia (e forse soprattutto) da quello storico o costruttivo o funzionale.

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