Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, feb­bra­io 2017

Io aggrego, tu aggreghi, noi aggreghiamo. E il progetto?

Il Cantone Ticino si è lanciato nell’aggregare città, borghi e villaggi. A oggi si è passati – tra il 1980 e il 2016 – da un Ticino composto di 247 comuni a un Ticino di 130 comuni. E nuove aggregazioni sono auspicate – se non imposte – per ridurre ulteriormente il numero dei comuni.

Data di pubblicazione
20-02-2017
Revision
22-02-2017

Aggregare un Cantone: il Ticino

Benissimo, si direbbe. Con queste fusioni si semplificano le strutture politiche e funzionali, dai Municipi ai Consigli comunali, dalla contabilità alle pratiche amministrative, e poi l’organizzazione dei servizi essenziali, la raccolta dei rifiuti, la manutenzione di strade e parchi, le scuole, l’assistenza agli anziani, e così via. Un’unica gestione centrale per provvedere a questi compiti, fondamentalmente di carattere politico–gestionale, amministrativo e finanziario.

È con questi concetti che in diverse fasi Lugano ha aggregato molti comuni che la circondano: dal 1972 al 2013 la città ha fagocitato 21 comuni, e si estende dall’alto della Valcolla fin su al monte San Salvatore, fino a Carona. Quella che è chiamata «nuova Lugano» conta ora circa 65’000 abitanti. Analogo il processo di aggregazione dell’Alto Mendrisiotto: tra il 2004 e il 2013 il comune di Mendrisio ha aggregato 9 comuni, e la «nuova Mendrisio» conta ora oltre 15’000 abitanti. E poi le aggregazioni di alcune valli del Sopraceneri, come la valle di Blenio rimasta con due soli comuni, Acquarossa e Blenio. E la formazione del comune di Serravalle, mentre un analogo processo avviene nelle Centovalli e in Vallemaggia. Da ultimo la «nuova città di Bellinzona», nata dall’aggregazione di Bellinzona, Camorino, Claro, Giubiasco, Gnosca, Gorduno, Gudo, Moleno, Monte Carasso, Pianezzo, Preonzo, Sant’Antonio, Sementina.

Io aggrego una valle: come?

Ovvio, se io aggrego tra loro i comuni di una valle, ognuno con pochi abitanti, per prima cosa semplifico la gestione politico-amministrativa, quella delle finanze e quella funzionale.  Affinché non sia ogni singolo comune ad avere le sue strutture – con le difficoltà nel trovare le persone disponibili per Municipio e Consiglio comunale – e a provvedere ai propri servizi essenziali, ma che ci sia un’unica coordinazione centrale per gestire queste incombenze, fondamentalmente di carattere amministrativo e di utilità pubblica. 

Benone. Ma. Ma con la fusione dei villaggi di una valle, creata con questi soli concetti, ho la pretesa di dire che ho formato un «nuovo comune»? Ma che cavolo di comune ne salta fuori? Forse un unico grande villaggio esteso dalla cima dei monti al fondo della valle, un insieme sfilacciato senza logica che mai troverà coerenza urbana? O forse questo «nuovo comune» è in realtà uno solo dei villaggi – quello più grande – con una serie di «villaggi satelliti», dispersi un po’ verso i monti, un po’ verso valle? E in questo caso, quale il ruolo del «villaggio più grande» e rispettivamente quali le relazioni e la considerazione che il «villaggio satellite» avrà nel «nuovo comune»?

Mah, vai a capirlo. 

I criteri che fanno da guida nella promozione dell’aggregazione sono perfetti dal punto di vista amministrativo, ma nulla dicono di altre questioni – altrettanto importanti, o meglio detto fondamentali – di carattere identitario, di carattere sociale, di carattere urbano e territoriale e paesaggistico. Si tratta insomma di criteri legati alla qualità, di un ordine superiore rispetto a quelli puramente tecnici, amministrativi. Fondamentali. Ma ignorati.

Tu aggreghi una città: come?

Se si unisce una città con le cittadine e i borghi e i villaggi che la attorniano, il tema è ben diverso da quello precedente. Non si tratta infatti di aggregare tra loro dei piccoli isolati comuni di una valle alpina, ma di unire un insieme di entità urbane già contigue, dove ognuna di queste è cresciuta e si è configurata per conto suo, indifferente a quella vicina, finché la sua sfilacciata periferia è andata a sbattere contro la periferia del comune contiguo.

La faccenda è quindi ben più complessa. In realtà sono stati fusi tra loro non dei comuni, ma degli agglomerati. vale a dire dei comuni già impastati tra loro, con l’obiettivo dichiarato di voler formare una «nuova città», con il comune più popoloso a costituirne il polo centrale, circondato dagli ex borghi e cittadine e villaggi divenuti dei «quartieri».

Un bel grattacapo. 

Certo, si è semplificata l’amministrazione, c’è un solo sindaco, un solo municipio, un solo consiglio comunale, un solo ufficio abitanti e un solo ufficio tecnico. Ma si è voluto innescare un processo limitato ai soli criteri di carattere amministrativo, ignorando invece – come nelle valli – gli altri criteri, quelli indispensabili per creare una «vera» città, inerenti la qualità, vale a dire relativi al modello di città che si vuole creare, alle sue caratteristiche e sue proprietà e specificità.

Si tratta di questioni essenziali, è la qualità che avrebbe dovuto essere di guida, primaria, rispetto alle questioni politico-amministrative. Si è proceduto invece solo con quest’ultime.

La scorciatoia più semplice, insomma.

Noi abbiamo aggregato: ma il progetto della città non c’è

Altro che unica città, altro che «grande Lugano» o «grande Mendrisio» o «grande Bellinzona».

Non lo si è fatto prima come si doveva, occorre farlo adesso, cosa ben più difficile: fare un progetto, il progetto della «nuova città». Basato su criteri che siano chiari, fondati su quelle scelte che sono fondamentali per sapere quale città si vuole creare. Occorre definire tutto ciò che è pertinente all’abitante, dei suoi spazi di vita, delle sue abitudini, dei suoi luoghi d’incontro e di socializzazione. Definire tutto ciò che è pertinente alle relazioni già esistenti tra di ex comuni oggi quartieri, e rispettivamente quali relazioni si vogliono modificare o creare verso il centro – o meglio: i centri – della «nuova città». E poi specificare il valore dell’identità di ogni quartiere dentro la «nuova città», e come s’intende procedere per non distruggerla, l’identità. E definire, anzi determinare, quali garanzie avrà il nuovo quartiere, come potrà farsi valere, difendere i suoi interessi e specificità, quale sarà – indipendentemente dalla sua grandezza e popolazione – il suo ruolo e la sua influenza decisionale dentro la «nuova città».

E poi: il progetto della «nuova città» dovrà analizzare e determinare la geografia e il paesaggio della «nuova città», tenere conto delle forti disparità delle diverse entità urbane, degli elementi naturali e antropici preminenti e quelli di valore storico o di memoria, nonché prevedere il possibile sviluppo edificatorio. E ancora: il progetto dovrà essere attento a tutte le strutture inerenti il lavoro e le attività economiche. Senza dimenticare ciò che finora è stato ignorato: gli spazi negletti che esistono tra gli odierni quartieri, quegli spazi residui che con urgenza devono essere a loro volta progettati. Perché? Perché con la creazione della «nuova città» sono proprio queste aree residue ad essere importanti, perché tolti i limiti politici dei singoli comuni, è proprio il verde in senso lato, i prati, i boschi, i pendii, le aree residue, a costituire in primo luogo il «legante» tra quartiere e quartiere, nonché lo strumento per creare identità e qualità.

Non solo l’architetto, non solo l’urbanista

È indispensabile fare il progetto della «nuova città». Ma non può essere una sola persona a decidere tutto, a tenere in mano la matita – architetto o urbanista che sia, luminare tuttofare. Ma occorre creare un gruppo di lavoro composto da persone con competenze specifiche e differenti, certamente guidato da un architetto – per il suo ruolo generalista e le sue pertinenze specifiche – affiancato da un politico a rappresentare gli interessi e le attese dei comuni e della popolazione, e poi da un architetto del paesaggio, da un pianificatore, da un ingegnere, un economista, uno storico. Solo così si potrà affrontare e saldare tra loro le competenze di ognuno per raggiungere un risultato ottimale. Con un ulteriore tassello, indispensabile, anche se difficile da affrontare: coinvolgere la popolazione.

Ma prima di toccare la matita occorre – come detto – essere in chiaro su una cosa: che città si vuol creare. Si vuole creare una città omogenea in ogni sua parte urbana, con una coerenza estesa su tutta la sua superficie, oppure creare una città composta di quartieri, ognuno con una propria identità? E come conciliare, nel primo caso, le individualità esistenti, sociali o urbane che siano? E come dare senso e logica alla «nuova città», se è fatta di tanti quartieri, ognuno con una propria individualità?

La guida a un architetto esterno al Ticino

E infine, per affrontare questo compito complesso, mi chiedo se chi guida il gruppo di lavoro non debba essere un architetto esterno al Cantone, non un ticinese. Qualcuno libero da ogni vincolo, né con le amministrazioni né con gli abitanti, in grado di valutare il tutto senza condizionamenti emotivi di chi ci abita dentro, senza timori reverenziali e condizionamenti di sorta, qualcuno esterno insomma agli interessi di parte, politici, economici, urbanistici.

Importante: qualcuno che venga da Göschenen in su – dalla Svizzera francese o tedesca – che guardi l’eterogeneo impasto urbano e ne valuti il paesaggio con occhi nuovi: i nuclei abitati, il territorio, la geografia, i valori storici e architettonici e paesaggistici. E ciò che è irrisolto, indecoroso, le brutture. E che con tali occhi sappia guidare il politico, l’amministratore, l’architetto del paesaggio, il pianificatore, l’ingegnere, l’economista, lo storico che compongono il gruppo di lavoro.

Anche se, se sono ben informato, le cose stanno andando in tutt’altra direzione. 

Ahimè.

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