Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, di­cem­bre 2014

Scovare i giovani bravi architetti?

Mi sembra interessante approfondire alcuni aspetti su quanto avevo scritto nell’ultimo «Diario» con il titolo «Chi ha nascosto i giovani architetti ». I motivi ci sono. A parte il fatto che alcuni colleghi che ho inserito tra i «giovani architetti» mi hanno ringraziato per l’inaspettato svecchiamento, tra mail e incontri e chiacchiere mi sono reso conto che il testo ha toccato un nervo scoperto.

Data di pubblicazione
20-01-2015
Revision
08-10-2015

Pur nella brevità di un paio di pagine nell’ultimo Diario con il titolo Chi ha nascosto i giovani architetti? avevo cercato di spiegare le responsabilità del committente nella gestione del mercato immobiliare in Ticino e del degrado della qualità architettonica di cui è responsabile. Dove per mercato immobiliare non s’intende solo quello abitativo o per uffici, ma anche industrie, shopping center, fabbriche, depositi, capannoni, distributori di benzina. Affermavo che da tale mercato i «giovani» architetti sono in pratica esclusi. I committenti preferiscono rivolgersi a chi gli disegna senza tante storie e a prezzi stracciati quello che lui vuole.

Mi chiedo però, volendo riprendere il discorso e dilatandolo a tutti gli architetti, anche quelli che giovani non lo sono più, se la questione non sia più complessa: non solo una questione di cattiva qualità dell’architettura che si costruisce, ma anche di cattiva gestione del territorio.

Pianificazione

Non solo i committenti: se la cattiva architettura di cui sono responsabili – ed è un fatto – invade senza criterio valli e colline le colpe vanno cercate anche altrove. Nella pianificazione. Quella pianificazione stretta dentro l’assurda camicia di forza di regole e metodi e procedure pianificatorie che risalgono a oltre cinquant’anni fa e che ancora oggi è condotta senza la progettualità che l’evoluzione demografica ed economica, le trasformazioni delle infrastrutture e la complessità degli attori in gioco rendono indispensabile, specie in un territorio complesso e dentro un paesaggio come quello del Ticino. Una pianificazione oltretutto attuata senza le necessarie competenze, priva di idee e concetti capaci di immaginare spazi adeguati alle nuove esigenze del vivere collettivo.

Occorre rileggere «Beton boom» in Ticino, l’articolo che scrisse Mario Botta sulla «Neue Zürcher Zeitung», ora ripreso nel suo bel libro Quasi un diario 2003-2013 (casa editrice Le Lettere, Firenze 2014): «All’inizio del nuovo secolo ci troviamo a raccogliere i cocci di un territorio urbanizzato senza alcun vero progetto, senza alcun disegno, senza obiettivi in grado di suggerire almeno la configurazione di un nuovo paesaggio: una realtà politico-urbanistica che di fatto ha operato finora unicamente per assecondare, attraverso i piani regolatori, le spinte edificatorie in corso. Il paesaggio costruito si presenta con una povertà disarmante, senza alcuna attenzione per promuovere una migliore qualità di vita o valorizzare le eccellenze paesaggistiche e architettoniche abbondantemente presenti fra monti e laghi. È un panorama degno delle peggiori periferie urbane, uno specchio impietoso di una società che ha smarrito i principi e i valori del vivere comune.»

Le latitanze, le assenze

Il cerchio allora si chiude: la committenza, interessata solo all’architettura in quanto merce da vendere, si salda con la pianificazione, passiva nell’assecondare (o subire) gli interessi del mercato. Raramente capace di «rovesciare il tavolo» per esprimere proprie idee progettuali, mai una collina che venga «dezonata» o un quartiere protetto, mai il disegno di spazi per la città o per la periferia, per nuovi quartieri o per i fondovalle, mai in grado di valorizzare le qualità presenti e tantomeno di crearne delle nuove.

Certo, una simile pianificazione non è per nulla sostenuta dai politici perchè tocca troppi interessi. Certo, responsabili sono gli Enti pubblici – il Cantone, i Comuni – la cui assenza nel promuovere e nell’essere attivi nella progettazione del territorio li caccia nella rassegnazione di chi è stretto nell’angolo e ridotto a gestire quello che c’è. Certo, responsabili sono anche gli architetti stessi, con la loro latitanza e i loro silenzi, con il loro sottrarsi a ogni tipo di impegno verso la collettività, e che facilmente si può intendere per complicità.Né si può pretendere, a questo punto, che l’opinione pubblica faccia distinzione tra cattiva e buona architettura, tra architetto e pianificatore (che generalmente architetto non lo è nemmeno). E di generalizzazione in generalizzazione tutti gli architetti vanno a finire dentro il calderone dei «cementificatori», tutti colpevoli della distruzione del paesaggio.

Sopra questa densa foschia di negatività galleggiano solo i difensori dello statu quo, i nostalgici dei bei tempi che furono, di un passato ritenuto migliore del presente, mentre in parallelo gli architetti passo dopo passo hanno gradatamente perso – verso l’opinione pubblica, verso i politici – il loro potere culturale, la possibilità di persuadere, di costituire un punto di riferimento. Mi domando: se per l’imprenditore, per il committente, affidare a uno scribacchino o a un architetto il progetto del proprio investimento non fa nessuna differenza, la causa non è anche nella perdita di prestigio della figura dell’architetto?

Felix Wettstein

E allora? Allora riporto il mail che mi ha inviato Felix Wettstein a commento del mio Chi ha nascosto i giovani architetti? Mi scrive: «Penso che la generazione sotto i 40 anni sia inesistente, e quella fra 40 e 60 fa tantissima fatica. Il mercato immobiliare ticinese non esclude solamente i giovani, ma gli architetti, anzi l’architettura come disciplina in generale ... Nella Svizzera tedesca è successa una cosa interessante. Alcuni investitori hanno capito che la qualità architettonica ha un valore economico, è un ‹Mehrwert› come si dice in tedesco. Non mi faccio tante illusioni, ma questa dovrebbe essere la ragione principale per investire nell’architettura. Lo conferma – ed è importante non dimenticarlo – la presenza delle ‹Genossenschaften› e il loro merito nel costruire interi quartieri, con il risultato che è proprio l’architettura residenziale lo strumento principale per costruire la città. Evidentemente c’è una politica che sa negoziare e vendere meglio gli interessi della collettività, del territorio e del paesaggio.»

Questo breve scritto di Wettstein è importante. Perché spazza via d’un sol colpo le lamentele, i pianti, gli appelli, i «Locarno brutta» e altre simili fuorvianti iniziative, per capovolgere invece il discorso, per essere non contro ma a favore, non passivo ma attivo, per proporre e prospettare qualcosa di positivo.

Il tema ovviamente non riguarda più solo i «giovani architetti», ma coinvolge l’intera professione. E le sue responsabilità. Se altrove «... c’è una politica che sa negoziare e vendere meglio gli interessi della collettività, del territorio e del paesaggio» mentre al contrario qui la politica non lo sa fare, allora tocca agli architetti stessi, con le loro competenze e la loro professionalità, farsi avanti. Significa impegnarsi e andare dai politici, dai committenti, verso l’opinione pubblica con argomenti e esempi e proposte, idee e modelli cui gli altri possano riferirsi. Per non lasciarli soli, per aiutare il politico, il committente, il cittadino. Basta denunce, occorrono proposte.

Occorre che l’architetto si metta a disposizione della collettività: per aiutare chi non ha le sue competenze e per recuperare quel riconoscimento che ha perso. Tocca insomma all’OTIA e alla SIA e alla FAS – e ai singoli – organizzare degli incontri, promuovere delle conferenze, allestire delle esposizioni, coordinare dei dibattiti, tutte iniziative rivolte ai politici, agli investitori, agli economisti, alla popolazione. Eventi organizzati non solo come finora all’Accademia di Mendrisio o alla SUPSI di Trevano, ma soprattutto nelle città e nei villaggi, nei quartieri, nei partiti, alla Catef, così come a chi organizza corsi come l’Atte, la Migros, la Coop, o ancora il Lyons o il Rotary. Come del resto aveva ben capito Tita Carloni, certo aiutato dalla sua intelligenza e competenza, che proprio in quei luoghi si recava verso sera a spiegare e raccontare cose di storia, di paesaggio, di architettura, un lavoro incredibile cui la collettività gli è debitrice.

Due esempi: Swatch e Pian Povrò

Certo, dopo anni di assenze, ci vuole tempo per guadagnare in credibilità e poter convincere. Ma bisogna incominciare. Le occasioni purtroppo non mancano: due esempi concreti.

Swatch
Primo, anziché protestare, andare presso il Cantone per spiegare a consiglieri e funzionari quale ruolo avrebbe potuto svolgere l’Ente pubblico nel caso dell’edificio che la Swatch vuole costruire a Genestrerio, 11.000 mq per 13 metri di altezza e 250 posteggi (se sono ben informato). Wettstein lo spiega bene: «Invece di assistere passivamente al progetto per poi cercare con fatica di correggerlo e gestire i vari ricorsi di privati e associazioni, il Cantone avrebbe potuto e dovuto essere un attore a fianco della Swatch, aiutando nel cercare il terreno più adeguato, la scelta più corretta per traffico e paesaggio, offrendo anche vantaggi – che so, fiscali o sullo sfruttamento – con l’obbligo però della qualità paesaggistica e architettonica del progetto tramite la procedura di un concorso. Condizione quest’ultima ormai usuale in altre città svizzere.»

Pian Povrò
Il secondo esempio riguarda la città di Lugano. Il Pian Povrò è uno dei luoghi più incredibili di Lugano, una vasta area verde dentro la città ai margini di Massagno, con al centro una fattoria e tutt’attorno le mucche al pascolo. Incredibile. Ebbene, quest’area che o dovrebbe rimanere verde e diventare un parco urbano, oppure essere costruita ma per una destinazione straordinaria e di valore per l’intera collettività, sta per essere distrutta. Andate a vedere le modine: fetta dopo fetta sarà costruita – senza alcun progetto complessivo – da singoli promotori, il primo dei quali è la Croce Verde.

Pian Povrò è un esempio vergognoso di «mala pianificazione». E allora vadano la SIA, l’OTIA e la FAS – vadano gli architetti insomma – in quel di Lugano non a denunciare e protestare, ma a spiegare cosa e come occorrerebbe fare, quali sono le differenze tra il lasciare in mano ai privati quest’area privilegiata e l’organizzare invece un concorso per disegnare un progetto spaziale nell’interesse della collettività, e anche dei privati. Per spiegare quali sono le differenze tra una pianificazione retta dall’assurdo delle norme e dello Zonenplan e una progettazione del paesaggio, del territorio, dell’architettura.

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