Vi­co Ma­gi­stret­ti e Clau­dio Cam­peg­gi

In ricordo di Claudio Campeggi, imprenditore scomparso quest'anno, dedichiamo le righe che seguono alla sua collaborazione con Vico Magistretti – collaborazione emblematica di un certo modo di fare design, basato innanzitutto sullo stimolo reciproco tra progettista e produttore.

Data di pubblicazione
17-09-2020

Claudio Campeggi, imprenditore al timone dell’omonima azienda brianzola, non vedeva l’ora di festeggiare – almeno simbolicamente – il centenario della nascita dell’amico Vico Magistretti (1920-2006), con cui dagli anni Novanta aveva realizzato una quindicina di progetti di grande ingegno e originalità. Ma quest’anno sciagurato non si è limitato a bloccare le mostre, gli eventi e tutte le celebrazioni dedicate all’architetto e designer milanese; cosa ben più grave, si è portato via Claudio senza preavviso, all’inizio dell’estate, lasciando incompiuti molti discorsi, ricordi e collaborazioni.

Per questo motivo dedichiamo le righe che seguono alla collaborazione tra Magistretti e Campeggi, emblematica di un certo modo di fare design, basato innanzitutto sullo stimolo reciproco tra attori diversi e complementari, quali sono appunto il progettista e il produttore. Non che questo modello sia esaurito, per fortuna; né che sia l’unico auspicabile. Tuttavia, buona parte del migliore design italiano si è materializzato proprio grazie a dialoghi ristretti, tête-à-tête tra progettisti e produttori, che ci ricordano come ogni pezzo sia necessariamente figlio di due genitori. (Lo stesso è per l’architettura, come già diceva Leon Battista Alberti rimarcando il ruolo del committente).

Fu Italo Lupi, la cui grafica arricchisce i racconti della Campeggi, a presentare Claudio a Vico nel 1990. Il primo all’epoca aveva quarant’anni e alle spalle studi incompiuti da architetto che gli avevano lasciato una curiosità umana e professionale verso il disegno e il progetto. Dagli anni Settanta guidava l’azienda fondata dal padre, inseguendo ostinatamente l’idea del mobile trasformabile, flessibile, versatile, multiuso, polivalente, leggero. Tutti concetti che il secondo – uno dei più grandi architetti e designer milanesi del dopoguerra, con trent’anni in più sulle spalle – aveva fatto suoi fin dagli esordi ai tempi della ricostruzione postbellica (quando la flessibilità era esigenza cogente in attesa di tempi migliori) per poi aggiornarli seguendo l’evoluzione della società, con precisione e humour.

Un aneddoto: sembra che all’inizio della loro collaborazione ci fosse stato un misunderstanding: Magistretti credeva che Claudio si occupasse di «arredi da campeggio» (non faceva una piega, dato il nome e il concetto di trasformabilità). Le cose si chiarirono e nel 1994, dopo qualche anno di rodaggio, uscì il primo frutto: Ostenda, una poltrona che diventa dormeuse in un attimo e si trasporta su ruote. Per chi conosce l’opera di Magistretti, è facile ritrovarvi in accoppiata due costanti del suo approccio al design: il gusto perenne per le linee curve e scandinave, che qui si intersecano nel chiasmo della struttura portante, insieme all’efficacia di un meccanismo – ispirato a un brevetto americano di fine Ottocento trovato da Campeggi – che, semplicemente, fa il proprio mestiere.

Oltre a inventare pezzi nuovi, Campeggi riconosceva nel passato di Magistretti una proverbiale attualità, e pensò dunque di rieditarne alcuni pezzi. Nel 1996 uscì infatti un attaccapanni tratto dalla celebre serie «Broomstick» che Vico aveva realizzato vent’anni prima con la ditta Alias, una collezione di arredi formati assemblando pezzi di legno a sezione costante e arrotondata: dei manici di scopa, per l’appunto. Se li era inventati per arredare il suo piccolo appartamento londinese quando insegnava al Royal College of Art.

Una simile ricerca, non priva di ironia e sfida verso gli eccessi formali e materici del design coevo, si riallacciava alle sperimentazioni giovanili. Nel 1946 ad esempio, in un’Italia da ricostruire (e da arredare) con soluzioni pratiche, senza fronzoli, consapevoli della lezione del Moderno ma anche radicate in una tradizione popolare garante del buon senso, Magistretti inventava la Piccy, una sediolina in legno di faggio e tela tesa a strisce per seduta e schienale. Campeggi la riproporrà nel 2011 (già dopo la morte di Vico), l’anno prima di far uscire Moma, la libreria che l’architetto aveva disegnato nel 1948 per un concorso per arredi a basso costo indetto dal celebre museo newyorkese.

Il carattere vernacolare della Piccy torna pure nella sedia pieghevole Kenia, che reinterpreta la classica Tripolina usando però l’alluminio per avere una struttura leggerissima (2 kg appena) che si piega e trasporta grazie a un’impugnatura simile a quella dell’ombrello, l’oggetto che più di ogni altro – per la sua naturale genialità – Magistretti avrebbe voluto inventare. La Kenia nacque, come molte altre cose, da un regalo ricevuto da Claudio: un banale sgabello da passeggio, che Vico volle rivestire col tessuto. Da una simile riappropriazione del reale – una valorizzazione dell’archetipo e dell’objet-trouvé, molto diffusa anche nei suoi colleghi: vedi l’opera dei fratelli Castiglioni – nacque anche il divano-letto Ospite (1996), che si piega in due fino quasi a scomparire nello spessore di soli 13 cm. Campeggi sosteneva che Magistretti avesse tratto ispirazione da una branda sgangherata, trovata nel magazzino di un rigattiere, in cui egli seppe vedere qualità invisibili.

Bisogna sottolineare che Campeggi fu molto attento a come raccontarli, questi arredi trasformers, anche grazie (ancora) al supporto di Italo Lupi che, oltre a Magistretti, gli presentò il grande illustratore Steven Guarnaccia (sue alcune belle copertine dei cataloghi dell’azienda) e vari fotografi. Furono loro a congelare in pose impossibili le creazioni di Vico, rendendole vive per un attimo infinito mentre cambiano forma e dimensione: il letto che diventa un arco prima di stendersi del tutto, la sedia che sembra darsela a gambe, la poltrona che si converte da crisalide in farfalla.

Campeggi è stato insomma un bravo produttore, ma per Magistretti qualcosa di più: gli fu amico fino all’ultimo e anche in seguito. Oltre a portare in palmo di mano i pezzi di Vico ancora in catalogo, egli ha costantemente fornito un appoggio informale ma indispensabile all’attività della Fondazione Vico Magistretti a Milano, che dal 2010 svolge un encomiabile lavoro di tutela, ricerca e valorizzazione. Il suo era un punto di vista attento e competente, da cui traspariva a ogni frase una sincera felicità per quegli anni passati a inseguire oggetti dinamici e autoironici insieme a un grande amico.

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