Re­cen­sio­ne a «L’ar­chi­tet­to co­me in­tel­let­tua­le» di Mar­co Bi­ra­ghi

Il libro di Marco Biraghi analizza la figura dell'architetto intellettuale, attualmente in crisi come quella dell'intellettuale tout court, confrontata com'è con gli smottamenti di valori del mondo globalizzato.

Data di pubblicazione
06-02-2020

L’interessante libro di Marco Biraghi – professore ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano – ana­lizza la crisi dell’intellettuale nell’epoca contemporanea e lo fa accostando la ­«categoria sociale cristallizzata» dell’intellettuale (nelle parole di Gramsci) alla figura dell’architetto, da sempre oscillante tra sfera della politica (intesa in senso aristotelico) e mondo della tecnica. Che i progettisti siano degli intellettuali non v’è dubbio, ma che siano (oggi come in passato) universalmente riconosciuti (e considerati da tutti) come tali è un’affermazione solo in apparenza scontata.

Gli architetti si sono autoreferenzialmente ritenuti (e alcuni si ritengono ancora oggi) intellettuali, ma la società non sempre li ha visti (e li vede) in questo modo, così come il mondo della cultura raramente li reputa (e li ha reputati) in grado di interagire alla pari con gli altri intellettuali. Eppure la figura dell’architetto-intellettuale, da Leon Battista Alberti in poi, è stata centrale nella storia dell’architettura e del pensiero costruttivo. Peraltro, Biraghi ricorda che l’attitudine degli architetti ad agire come «intellettuali» in Italia si è affermata soprattutto a partire dalla metà degli ­anni Cinquanta, influenzando «nel bene e nel male, il quadro complessivo dell’epoca»; nel bene perché è fiorita una produzione di edifici di alta qualità e di ­contributi teorici fondamentali, nel male perché l’estrema astrazione ha lasciato spazio al fenomeno della speculazione edilizia e all’assalto dei territori italiani.

Ma è così ancora oggi? Al di là delle considerazioni sociologiche, in effetti da qualche decennio l’architetto intellettuale, come l’intellettuale tout court, è in crisi, perché è in crisi, scrive Biraghi, «il sistema di valori a cui tradizionalmente il mondo degli intellettuali si rifaceva. E ciò su scala planetaria, non certo solo locale».

Nel libro – articolato in cinque capitoli dai titoli icastici (I. L’architettura come merce e l’architetto come «rifornitore», II. Il ruolo dell’architetto intellettuale, III. Le strategie del distacco, IV. Architettura dentro e contro Appendice. Libertà e architettura, V. L’architetto come «produttore» e l’architettura come progetto) – si analizza la situazione dell’architet­tura attuale, alla quale si chiede di manifestare esclusivamente, in modo tangibile, i negotia, ossia lo «spirito commerciale» delle società occidentali. Nel primo capitolo l’autore ricorda, tra gli altri, il caso emblematico dell’abitazione, inserita in un processo – dall’industrializzazione dei metodi costruttivi ed esecutivi alla standardizzazione e prefabbricazione di ogni singolo elemento – analogo a quello di qualsiasi altro prodotto di consumo.

Biraghi rimarca come l’architetto da sempre si sia messo a disposizione della società in cui ha vissuto, ma mette in evidenza che sono mutati i modi in cui l’ha fatto. Oggi «l’architetto appare ­preda di intricate dinamiche». A lui si chiedono, da un lato, competenze altre, ­come quella di essere «suggeritore» di possibili funzioni, dall’altro si riduce il suo operato a un ruolo ancillare. In tal senso, Biraghi afferma come l’architetto si ritrovi «a fare i conti con una condizione nella quale davvero la possibilità dell’utopia sembra essere tramontata, e in cui non rimane null’altro che la dimensione della realtà (sublimemente inutile, o piuttosto pragmaticamente utilissima) quale suo campo di azione».

Da Mies a Cacciari, da Huizinga a ­Hejduk, da De Carlo ai situazionisti, da Aureli (a cui è dedicato l’intero terzo capitolo) fino ad Aravena, Calatrava e Ishigami, i protagonisti del libro diventano così interlocutori virtuali in un racconto, ricco e articolato, delle condizioni odierne del lavoro progettuale, che affianca al riconoscimento dei suoi limiti la comprensione dei modi di un loro possibile superamento, anche se – e l’autore ne è consapevole – una radicale inversione di rotta appare irrealistica e improponibile. Complessivamente, il grande merito di questo saggio consiste nell’avere – mediante il topos retorico della «crisi» ampiamente analizzata da Manfredo Tafuri (citato spesso nel libro) – riportato alla ribalta lo stato di malessere e disagio dell’architetto (quello della sua «crisi» per l’appunto) e nell’aver proposto una utile riflessione sul significato oggi della professione dell’architetto e del suo ruolo nella società contemporanea.

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