Pro­get­ta­re spa­zi, pro­get­ta­re pro­ces­si

Dal progetto al piano. Certamente; non potrebbe essere altrimenti. Prima si sviluppa un’idea, dandole forma attraverso disegni, modellini, calcoli e testi: il progetto. Il piano viene dopo e codifica le scelte progettuali, fissa le regole attuative, stabilisce le tappe realizzative. Irrefutabile!

Data di pubblicazione
19-06-2017
Revision
19-06-2017
Andrea Felicioni
Architetto ETHZ. Specializzato in pianificazione del territorio. Dal 2003 presso il DdT. Dal 2012 Capo dell’Ufficio del piano direttore, Sezione dello sviluppo territoriale.

Ma è davvero così? I dizionari a dire il vero non aiutano a fare chiarezza. Vi si possono infatti trovare definizioni ed esempi contraddittori, almeno in apparenza. «Progettare secondo un piano» (Treccani), ma anche «l’urbanista progetta il piano regolatore della città» (De Agostini). Ma allora come stanno le cose? Viene prima il piano o il progetto?

Questo dilemma genera discussioni da oltre trent’anni: sulla preminenza dell’uno sull’altro; su ruoli, competenze e titolarità. Vede contrapposti architetti e pianificatori. O forse è più giusto dire che sono soprattutto i primi a rivendicare più spazio e voce, complice la perdita di «peso» della professione nei temi del territorio e della grande scala.

Di seguito proverò a mostrare che il problema, posto in questi termini, porta a un vicolo cieco; che per superarlo va riformulato. Proverò quindi a: spiegare da dove trae origine il conflitto piano-progetto; riformulare il problema; illustrare alcuni approcci per affrontarlo. 

L’origine del conflitto piano-progetto

Un fattore che ha contribuito all’insorgere della contrapposizione tra piano e progetto è la progressiva ramificazione delle discipline che si occupano di territorio. Dal rifugio primitivo ai complessi sistemi urbani contemporanei sono passati millenni, in cui la trasformazione dell’ambiente naturale per adattarlo ai nostri bisogni è stata accompagnata dallo sviluppo dei mestieri a essa correlati. Senza voler ripercorrere la storia di questa evoluzione, vale la pena ricordare per esempio la separazione tra ingegneria e architettura, favorita dalla creazione dell’École des ponts et chaussées nella Francia del XVIII secolo. O il profilarsi della disciplina urbanistica nella seconda metà dell’Ottocento, con i trattati e le opere di Haussmann a Parigi e Cerdà a Barcellona. O ancora la concezione della città funzionalista del XX secolo e il profilarsi della pianificazione territoriale quale disciplina, che in Svizzera è stata segnata dalla costituzione, nel 1961, dell’Institut für Orts- Regional- und Landesplanung (ORL). Tempi ancora più recenti hanno visto emergere profili professionali legati all’ecologia e alle scienze ambientali, ma anche alla mobilità e all’ingegneria del traffico. Tutto ciò ha permesso di affrontare lo sviluppo territoriale con sempre maggiori competenze, ma ha anche generato diatribe sui ruoli dei vari profili professionali. 

Da qui la contrapposizione piano-progetto, che è sostanzialmente un confronto fra (almeno) due interpretazioni dell’approccio allo sviluppo urbano e territoriale: quello che mette al centro il progetto e la figura dell’architetto e quello o quelli che mettono al centro il processo pianificatorio e la costellazione di discipline che se ne occupano. Il primo innegabilmente più legato al ruolo storico dell’architetto, ma anche dell’ingegnere e dell’urbanista, di figura forte, con ampie facoltà decisionali, spesso vicina al potere, capace di concepire un’idea e portarla, attraverso processi lineari oggi inimmaginabili, fino alla realizzazione di opere che oggi suscitano emozioni e, inutile negarlo, anche un po’ di invidia. Come non ricordare qui gli intrecci fra arte e potere che hanno contraddistinto i rapporti tra Alessandro Magno e Dinocrate, Giulio II e Bramante, Napoleone III e Haussmann, e ancora, nel XX secolo, tra il primo ministro indiano Nehru e Le Corbusier per la costruzione di Chandigarh. Il secondo approccio è invece figlio delle tendenze più recenti sul piano territoriale e ambientale, ma anche tecnologico, scientifico e giuridico. Affronta il divenire urbano come processo da governare e condurre attraverso procedure e processi complessi, che pongono al centro i diritti fondamentali del nostro sistema democratico. È innegabilmente più equo, ma per sua natura tendente a produrre soluzioni banali, frutto di faticosi compromessi. 

Un altro fattore che ha contribuito all’insorgere della contrapposizione tra piano e progetto è di natura giuridica. In Svizzera, da questo punto di vista, l’evento più significativo è l’entrata in vigore, nel 1980, della Legge federale sulla pianificazione del territorio (LPT). Con essa viene sancito l’obbligo per gli enti pubblici di pianificare il territorio: a livello strategico con i piani direttori cantonali; alla scala dei singoli fondi con i piani regolatori (di norma elaborati dai Comuni). Ma ciò che qui conta è che con la LPT si codifica e istituzionalizza una separazione storica: quella tra fase edilizia e fase appunto pianificatoria. Separazione che vede la sottomissione – in realtà solo apparente, come vedremo in seguito – del progetto al piano: un progetto è approvato dall’autorità, che rilascia la licenza edilizia solo se vi è conformità con il piano regolatore. La diatriba piano-progetto nasce da qui. Ma perché è un falso problema?

Il vero problema

Se l’obiettivo ultimo è produrre ambienti di vita di qualità, funzionali e sostenibili in un contesto che cambia a ritmi mai visti prima, gli approcci volti a rivendicare la supremazia del piano o del progetto sono destinati a fallire. Oggi più che mai, piano e progetto non sono uno la premessa dell’altro. Sono le due facce di un «prodotto-processo» in continuo divenire. Lo sviluppo territoriale e urbano è la sommatoria di un’infinità di prodotti-processi che, a tutte le scale e in ogni momento, si sommano, interagiscono, si stimolano vicendevolmente, oppure si ostacolano, si intaccano, si contaminano. Più la scala è grande, più il prodotto (o «visione» o «progetto») è per sua natura impreciso e più il processo per attuarlo è lungo e complesso. Più la scala è ristretta, fino a quella del singolo edificio, più il prodotto finale è preciso e breve il processo per arrivarci. Ma ciò che più conta è che fra ognuno di questi prodotti-processi, a ogni scala, non vi sono né compartimenti stagni né relazioni univoche. L’immagine di un sistema gerarchico con in alto (e prima) un piano generale, il piano direttore, seguito dal piano regolatore e dal singolo progetto edilizio, il tutto in una sequenza lineare e coerente, è banalizzante. È una visione che non corrisponde alla realtà. 

È quindi senz’altro necessario riconoscere che ogni piano (direttore, regolatore o altro) è anche un progetto, nel senso che è destinato a produrre un certo tipo di insediamento, e pertanto va concepito in modo da garantire un risultato di qualità dal profilo spaziale oltre che funzionale. È questa in fondo la vera rivendicazione, condivisibile, di molti architetti. Ma non basta. 

È necessario che tra progetto e piano – o meglio, tra tutti i prodotti-processi ai vari livelli – vi sia maggiore permeabilità e flessibilità, al fine di poter continuamente correggere e ricalibrare lo sviluppo territoriale in funzione delle esigenze in costante mutamento, garantendo nel contempo la stabilità di una visione a lungo termine verso cui tendere. Ciò è sempre stato così, ma lo è ancora di più oggi che i ritmi delle trasformazioni territoriali sono frenetici. Paradossalmente però, quella permeabilità e quella flessibilità sempre più necessarie sono anche sempre più difficili da ottenere; questo è il principale problema. Ma perché è più difficile?

Diritto di essere sentiti, ponderazione degli interessi, legalità, proporzionalità, stabilità del diritto: concetti ai quali molti architetti non sono avvezzi. Fondamenti del nostro ordinamento giuridico con cui oggi si finisce sempre per fare i conti, fin davanti ai tribunali. Ogni procedura pianificatoria o edilizia, in nome di questi diritti democratici fondamentali, diventa facilmente un calvario. La democrazia, con tutti i suoi pregi, ha portato anche a un irrigidimento del sistema, in cui fare un passo costa grande fatica, richiede impegno e perseveranza da parte di tutti: tecnici, politici, promotori, singoli cittadini. 

Un buon progetto quindi non basta. È necessario. Se ben presentato e spiegato può facilitare il processo realizzativo. Ma da solo non è sufficiente. Ciò di cui c’è più bisogno è di strumenti e meccanismi capaci di facilitare i processi, di ammorbidire e plasmare un sistema di per sé portato all’irrigidimento. Le basi legali – legge edilizia, legge sulla pianificazione del territorio, legislazione ambientale ecc. – possono essere semplificate, alleggerite, migliorate, ma non andranno certamente a scardinare i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, faticosamente costruiti nel tempo. 

Ma come fare per evitare l’irrigidimento e i vicoli ciechi? i ricorsi e i tribunali? i ritorni alla casella di partenza e i dossier messi nel cassetto? Come permettere a un prodotto-processo di arrivare fino in fondo? Quelli che seguono sono, senza la pretesa di essere esaustivi, alcuni esempi.

Alcuni esempi 

Con l’entrata in vigore, nel 2012, della nuova legge cantonale di applicazione della legge federale sulla pianificazione del territorio, ribattezzata per l’occasione Legge sullo sviluppo territoriale (LST), è stato introdotto uno strumento che consente di unire la procedura pianificatoria e quella edilizia (art. 53 LST, Piano particolareggiato quale autorizzazione a costruire). Si tratta di un’importante novità che permette di ottenere contemporaneamente, a determinate condizioni, l’approvazione della modifica del piano regolatore e la licenza edilizia. Non tutte le situazioni urbane e territoriali si prestano all’applicazione di questo strumento, che ad oggi non è stato utilizzato granché, ma il fatto di poter unire proceduralmente piano e progetto rientra perfettamente in quella logica di permeabilità e interazione tra prodotto e processo descritta sopra.

La LST ha pure introdotto il concetto di «studio di base» (art. 18 cpv. 2), da intendere soprattutto quale visione territoriale del territorio di un Comune o di una sua parte. I cosiddetti «masterplan» rientrano in questa casistica e, se gestiti correttamente, possono essere un facilitatore di processi decisionali, a livello tecnico ma ancor più politico. Questo tema è di grande attualità. Diversi Comuni, soprattutto i più grandi, stanno pensando alla possibilità di dotarsi di un «piano strategico» o «piano direttore comunale», che ai sensi della LST potrebbe essere considerato uno studio di base. Un simile piano avrebbe il pregio di non sottostare alle procedure di approvazione del piano regolatore. Non avrebbe evidentemente nemmeno la forza giuridica di quest’ultimo e non lo sostituirebbe, ma potrebbe costituire quella «bussola» in grado di garantire stabilità e coerenza, ma anche ragionevole flessibilità, all’azione politica e alla progettualità di un Comune in ambito territoriale e urbanistico. A questo proposito merita di essere citato il caso del Comune di Rheinfelden che, grazie all’introduzione di uno strumento simile, è riuscito a realizzare operazioni urbanistiche di grande interesse, tanto da meritare il premio Wakker 2016.

Un’altra ambizione espressa a più riprese da alcuni comuni ticinesi è la visualizzazione tridimensionale degli effetti delle scelte pianificatore sul territorio e sullo sviluppo insediativo. Si tratta di un obiettivo che la Sezione dello sviluppo territoriale condivide pienamente e che ci riporta all’affermazione fatta sopra secondo cui anche un piano regolatore è un progetto. Un progetto di cui però spesso non vi è la necessaria consapevolezza. Visualizzazioni di questo tipo rivelerebbero la dimensione progettuale del piano e permetterebbero di effettuare scelte più efficaci e coerenti.

Un altro passo in questa direzione è costituito dai plastici di interi insediamenti, quartieri o borghi. Molto usati nelle grandi città, in Ticino sono praticamente sconosciuti. Non ci si riferisce qui a quei modellini prodotti nell’ambito di concorsi di architettura, che finiscono irrimediabilmente in una cantina o in una soffitta, ma a quei grandi plastici sempre vivi, attorno ai quali si dibatte, si condivide, si convince e si decide. Le grandi città dispongono di spazi appositi in cui questi veri e propri strumenti di lavoro e comunicazione sono esposti e messi di volta in volta in relazione ai progetti grandi e piccoli portati avanti dall’amministrazione.

Meritano infine di essere menzionati anche i mandati di studio in parallelo, che coniugano i pregi dei concorsi di architettura e di urbanistica, di poter mettere a confronto le idee di più progettisti, con l’opportunità di riunire e far interagire i principali attori coinvolti, in primis progettisti e autorità incaricate di attuare il progetto. Come per i Piani particolareggiati quale autorizzazione a costruire (v. sopra), anche i mandati di studio in parallelo non si prestano a tutte le situazioni e problemi da affrontare. La scelta dello strumento più adatto alle singole situazioni è quindi un passo estremamente importante. 

Conclusioni

Le modalità di lavoro e gli strumenti appena mostrati, molto diversi fra loro, hanno qualcosa in comune: manifestano la necessità che alla base delle scelte di sviluppo territoriale, indipendentemente dalla scala, vi sia una visione. Che questa visione sia comunicata e condivisa. Che sia stabile ma non rigida. 

Mostrano anche che ricette valide per ogni situazione non ve ne sono. Che oggi la progettazione di processi virtuosi, capaci di superare tutti gli ostacoli e portare un’operazione edilizia o urbanistica a buon fine, è altrettanto o più importante della progettazione architettonica di edifici e spazi.

Articoli correlati