Pia­ni­fi­ca­re i vuo­ti

Data di pubblicazione
07-12-2018
Revision
07-12-2018

Se si considera la storia del territorio europeo, si potrebbe evidenziare l’esistenza di un paradosso. In Europa, sia le città che i territori rurali o di montagna sono stati, fino all’inizio del XX secolo, i luoghi di uno sviluppo sino ad oggi considerato armonioso. Questa qualità è stata oggetto di un largo consenso da parte dei teorici – da Leonardo Benevolo a Vittorio Magnago Lampugnani – e dei profani e ha generato, per la maggior parte di questi territori, misure di salvaguardia patrimoniale a cui ha fatto seguito la trasformazione in destinazioni ambite per il turismo di massa. Questa capacità di attrarre e di ottenere il consenso si indebolisce nettamente nella seconda metà del XX secolo, nel momento in cui cominciano a svilupparsi gli strumenti di pianificazione che caratterizzano la disciplina urbanistica. Con alcune notevoli eccezioni, quante nuove città, zone industriali, progetti di quartiere costituiscono oggi dei modelli attrattivi, tanto per i professionisti del settore che per i comuni cittadini?

Sarebbe errato dedurre frettolosamente che questo paradosso dimostri l’inefficienza degli strumenti di pianificazione o che sarebbe stato preferibile adottare una politica del «laissez faire». Dalla fine dell’Ancien Régime ai giorni nostri, numerosi fenomeni che si potrebbero identificare come rivoluzionari si sono verificati in un tempo estremamente breve sulla scala della storia, esercitando sui territori un’influenza congiunta in continua accelerazione: rivoluzioni politiche, industriali, culturali o sociali, esplosioni demografiche, moltiplicazione dei mezzi di trasporto, boom delle telecomunicazioni, consumo di massa, globalizzazione, cambiamenti climatici, dematerializzazione… Si è cercato di superare problemi enormi, spesso molto tempo dopo aver preso coscienza dei loro effetti nefasti, piuttosto che proiettarsi visionariamente in un futuro che da uno o due secoli non ha mai smesso di trascinare l’umanità a tutta velocità. Non è dunque un caso se, contrariamente che nell’architettura, nell’urbanistica le grandi figure – come Ildefonso Cerdà, Raymond Unwin, Maurice Braillard, Patrick Geddes, Steen Eiler Rasmussen, Joan Busquets o Bernardo Secchi – restano relativamente poco numerose.

Tuttavia, la rapida transizione, nel giro di pochi decenni, da una situazione in cui la grande maggioranza degli individui che componevano la società apparteneva principalmente al settore primario, a una dominata dal settore secondario e oggi dal terziario, ha trasformato radicalmente la nostra società. Uno o due secoli fa, la relativa stabilità delle dinamiche sociali consentiva di osservarle, descriverle e quindi prevedere con relativa facilità la loro evoluzione a breve e medio termine, mentre oggi si sono trasformate in fenomeni liquidi, come li definisce il sociologo polacco Zygmunt Bauman,1 il cui mutamento è diventato quasi impossibile da prevedere. Velocità e accelerazione, teorizzate da Paul Virilio2 come le caratteristiche dominanti del nostro spazio contemporaneo, hanno portato alla contrazione sociale del tempo, che si limita all’immediatezza del presente. Le nostre società stanno perdendo la memoria.

 

Il territorio ha una memoria

Anche se il territorio ha subito un’evoluzione accelerata dopo la fine della seconda guerra mondiale, la sua forte inerzia gli permette di conservare una parte della memoria. Questo è abbastanza evidente per la sua parte non edificata – topografia, corsi d’acqua –, un po’ meno per quella non costruita produttiva – foreste, terreni agricoli, vigneti. Ciò che caratterizza principalmente l’evoluzione della parte costruita del territorio – le reti viarie, le infrastrutture, gli edifici – è l’accumulo. Mutazione, obsolescenza e rovina rimangono fenomeni marginali. È dunque lecito parlare di un’evoluzione di carattere lineare, anche se può conoscere in alcuni punti delle inflessioni.

Tra la trasformazione delle nostre società in fenomeni liquidi e l’evoluzione lineare dei territori si è formata una crescente dicotomia: di conseguenza ogni intervento di pianificazione può essere concepito solo con sempre maggiori margini di incertezza e, di conseguenza, con un crescente rischio di generare tensioni e contraddizioni. Inoltre gli strumenti che sono stati progressivamente messi in atto per la pianificazione del territorio presentano un punto debole: sono generalmente dedicati all’organizzazione degli edifici, in particolare alla loro disposizione, ai dimensionamenti, alla distribuzione delle funzioni. Con la logica eccezione delle reti viarie, la continuità degli spazi non costruiti è stata alquanto trascurata, portando alla loro graduale frammentazione.

Prima che gli strumenti di pianificazione territoriale fossero disponibili, questa continuità era in un certo senso garantita «strutturalmente»: infatti le necessità primarie, come la produzione di beni di sussistenza derivati dall’agricoltura e dall’allevamento, la protezione dagli eventi naturali, le difese contro il brigantaggio o la guerra hanno fatto sì che si evitasse lo spreco di spazio.

Se si osservano le carte prodotte prima della metà del XIX secolo, questo imperativo è particolarmente evidente. Se si prendono ad esempio il Plan Sickinger della città di Friburgo oppure la carta di Marsiglia del 1700, si può notare che, sia all’interno che all’esterno dei bastioni, il territorio è interamente suddiviso tra aree agricole e superfici produttive, alloggi e habitat.

Dalla seconda metà dell’Ottocento, una tale ripartizione del territorio diventa rara. Uno degli interventi più celebri di questo periodo, il Plan Cerdá per l’ampliamento di Barcellona, è stato oggetto di critiche che in un secolo e mezzo sono mutate anche radicalmente. In un saggio illuminante,3 Manuel de Solá-Morales ripercorre la storia di queste interpretazioni contraddittorie e giunge a una conclusione chiarificatrice in forma di domanda: «E se la matrice del Plan Cerdá non fosse la “manzana” (l’isolato), ma il vuoto quadrangolare che si forma alle sue intersezioni?» («¡La unidad no es ésta… sino ésta!»). Ipotesi che in effetti risulta pertinente, se si considera lo studio delle intersezioni realizzato da Cerdá. In seguito aggiunge: «Forse oggi un nuovo piano Cerdá non sarebbe più concepito per manzanas, ma dovrebbe essere fatto solo di angoli di strada, di intersezioni, di incroci ...». 

Un’altra eccezione notevole è quella rilevata da Bernardo Secchi:4 il Piano Braillard (1935) per Ginevra. Secchi nota che «il piano appare come un’applicazione estrema, per non dire estremista, dei principi e dei materiali […] delle avanguardie del Movimento Moderno», ma che questa si modifica «incontrandosi con la pendenza del terreno, con la sua ondulazione ed esposizione, con i punti cruciali dell’inevitabile deformazione geometrica della maglia». Il risultato è una grande attenzione alla struttura del paesaggio e la creazione di una rete di spazi aperti, non costruiti, che costituiranno altrettante permanenze forti nello sviluppo di tutti i piani regolatori successivi, fino a oggi.

Nel XX secolo la maggior parte dei processi di pianificazione è caratterizzata dalla zonizzazione delle attività. Se questo ha permesso di contenere, almeno in parte, gli effetti caotici di uno sviluppo che altrimenti sarebbe stato dettato solo da opportunità fondiarie e speculative, ha però comportato una crescente frammentazione del territorio, man mano che i piani venivano approvati. Nella maggior parte dei casi, inoltre, questi piani sono progressivamente diventati delle astrazioni bidimensionali.

L’obiettivo di oggi non è tornare indietro, verso una concezione nostalgica della coesione territoriale, ma piuttosto cercare di prendere in considerazione la dicotomia esistente tra la liquidità dei cambiamenti sociali e la relativa linearità della formazione del territorio. Bisogna inoltre lavorare al recupero di situazioni territoriali degradate che derivano dalla zonizzazione, inadeguata ad accogliere le mutazioni sociali della postmodernità.

 

Pianificare i vuoti

Piuttosto che considerare come prioritaria la distribuzione funzionale degli edifici, oggi bisogna promuovere una pianificazione dei vuoti, sia alla scala territoriale che a quella architettonica. Non bisogna più considerare le strade e i corsi d’acqua come sistemi lineari, ma come reti di spazi interconnessi che si espandono e si contraggono. Pensare in un modo meno compartimentato all’inserimento dei terreni agricoli e delle aree produttive in una rete – territoriale, stradale e paesaggistica – che dovrebbe ritrovare un ruolo principale. Mettere in discussione i regolamenti edilizi, in particolar modo quelli che stabiliscono le distanze dai margini delle proprietà e che così facendo hanno generato superfici indefinite, zone residuali senza qualità e abbandonate.

Per consentirci di acquisire maggiore flessibilità di fronte all’evoluzione liquida delle nostre società, è essenziale ricorrere a strumenti di informazione e di azione fondiaria, come la cessione parziale al pubblico dominio, la compensazione ecologica e la de-zonizzazione. Per quanto riguarda gli aspetti fondiari e relativi alla proprietà privata, questi mezzi d’azione spesso si trovano ad affrontare resistenze molto forti, con le quali bisogna negoziare con tatto, facendo intervenire controparti, compensazioni e obblighi attraverso la concertazione e la partecipazione.

In molti casi, una pianificazione che si basa sulla crea­zione di una struttura paesaggistica e sulle reti di spazi pubblici si scontra con un ostacolo ingombrante: la natura intercomunale di questi progetti ne rende quasi impossibile la realizzazione a causa dei confini politici, che comportano questioni di sovranità. Nel campo delle politiche di agglomerazione, in Ticino si è già concretizzato quello che nel resto della Svizzera appare ancora un miraggio: la fusione di più comuni in un’unica entità. La parte più difficile, in un certo senso, è già stata fatta. Resta da tradurre questa nuova realtà politica in un progetto territoriale, un processo che Mendrisio ha già iniziato completando una serie di studi paralleli per il suo masterplan. Un cammino virtuoso che anche Bellinzona si appresta a seguire.

 

Traduzione di Silvia Berselli

 

 

Note

1.    Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. orig. Liquid Life, 2005).

2.    P. Virilio, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1993 (ed. orig. L’espace critique, Christian Bourgois Editeur, Paris 1984); Id., La velocità di liberazione, Mimesis, Milano 2000 (ed. orig. La vitesse de libération, Galilée, Paris 1995).

3.    M. de Solá-Morales, Cerdá/Ensanche, ETSAB, Barcelona 2010.

4.    B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Roma-Bari 2000.

Articoli correlati