L’il­lu­mi­na­zio­ne not­tur­na

Strumento per ridisegnare l’architettura

«È la luce che mette in evidenza la sapiente distribuzione delle masse, che ci fa distinguere l’alto dal basso, il rotondo dal diritto, il curvo dal piatto, il liscio dal ruvido, il bianco dal nero. È la luce che giocando nelle modanature, ammorbidendosi nelle nicchie, riflettendosi sul marmo, diffondendosi sulle pietre e sui cementi, crea per l’occhio dell’osservatore il quadro meraviglioso dell’opera architettonica.» (Guido Jellinek, 1929)

Data di pubblicazione
11-06-2015
Revision
22-10-2015
Katrin Albrecht
Architetto, ricercatrice all’Istituto di Storia e Teoria dell’architettura gta, ETHZ

Luce elettrica e architettura nell’Italia degli anni Trenta

All’inizio degli anni Trenta, circa cinquant’anni dopo il brevetto delle prime lampadine, in Europa e in Nordamerica la luce elettrica si era ormai imposta con successo per l’illuminazione sia degli interni che degli esterni e tuttavia l’illuminotecnica in relazione all’architettura era considerata ancora poco sviluppata: «Per trovare una intima unione di luce e architettura bisogna rifarsi, in Europa, quasi ai nostri giorni o per lo meno a un molto prossimo passato»,1 sostenevano Giovanni Canesi e Antonio Cassi Ramelli, autori del ricco volume Architetture luminose illustrato con esempi internazionali. Il volume pubblicato nel 1934 fu in Italia una delle prime pubblicazioni che tentarono di avvicinarsi in modo esaustivo e sistematico a questa cosiddetta «arte nuova».

Anche Joachim Teichmüller, tecnico delle luci tedesco, che pochi anni prima aveva coniato il termine Lichtarchitektur – la capacità dei corpi luminosi e della luce che se ne dipana di configurare gli spazi – allora constatava ancora stupito che nella prassi si lavorava ancora secondo le vecchie abitudini e che solo pochi architetti avevano riconosciuto il potenziale artistico della luce elettrica come nuovo strumento di progettazione, sebbene i suoi molteplici usi venissero scandagliati e discussi già da prima, ad esempio alle grandi esposizioni nazionali e internazionali. Già da molto tempo, questa era la critica di Teichmüller, ci si era concentrati sugli aspetti tecnici della produzione della luce, senza adattare i corpi luminosi e il loro uso alle nuove condizioni, in particolare i vantaggi della lampadina, uno strumento per illuminare sicuro, pulito, duraturo e facile da utilizzare, che, contrariamente alla luce artificiale di un tempo, non comportava nessun pericolo d’incendio, non prevedeva l’uso di gas e sviluppava pochissimo calore; la luce poteva essere accesa e spenta a distanza e risultava facilmente regolabile e prevedibile.2

Come in molte altre parti d’Europa, anche in Italia intorno al 1930 si era convinti di trovarsi di fronte a una svolta. La sensibilizzazione crescente nel corso degli anni Venti va ricondotta a origini sia pratiche che ideologiche: l’energia elettrica che, cento anni dopo la locomotiva a vapore, rivoluzionava una volta di più i mezzi di comunicazione e la produzione industriale, era considerata l’emblema del progresso tecnico nella società moderna; così infatti Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto del futurismo del 1909 cantava «il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche» ed esaltava la lampadina che aveva «introdotto un tempo nuovo», come risultato e simbolo di quel grande cambiamento.3

Ma a prescindere da Marinetti, solo negli anni successivi alla prima guerra mondiale, grazie alla costruzione di numerose centrali elettriche, all’incremento delle reti e al miglioramento dell’elettrotecnica e della tecnica della luce, gli impianti di approvvigionamento furono sufficientemente progrediti da poter rendere l’elettricità disponibile su vasto raggio e alla portata di tutti. Un impulso importante era partito dal telegrafo, dal telefono e dalla ferrovia, la cui elettrificazione negli anni Venti, procedeva mano nella mano con la costruzione delle centrali elettriche. Quanto fosse nuovo tutto questo sviluppo lo dimostrano gli annali dell’amministrazione delle ferrovie italiane, in cui ogni volta vengono elencate in modo dettagliato tutte le stazioni specificando il tipo di illuminazione e il numero di lampade utilizzate.4 Tuttavia la produzione e la distribuzione di elettricità rimanevano alquanto arretrate rispetto alla crescente richiesta.

La luce: un nuovo materiale da costruzione

Da un punto di vista architettonico era importante che il nuovo modo di costruire con l’acciaio, il cemento, il vetro, rendesse possibili forme espressive innovative concedendo alla luce in quanto «materiale da costruzione»5 delle possibilità fino a quel momento sconosciute. Perché la luce artificiale non si diffondeva solo con le lampade all’interno degli edifici, ma anche di notte negli spazi esterni e diventava così un fattore urbano imprescindibile che poneva architetti, urbanisti e tecnici delle luci di fronte a un compito nuovo, ovvero la pianificazione dell’aspetto notturno di edifici, vie e piazze.

Due erano le modalità di intervento e gli effetti che si potevano individuare. Mentre l’aspetto notturno delle «architetture illuminate», ovvero quelle colpite da luce a largo fascio, non era troppo diverso dal loro aspetto diurno, l’immagine delle «architetture luminose», ovvero di quegli edifici in cui la luce artificiale traspariva dall’interno grazie alle parti trasparenti è assai diversa: l’oscurità assorbiva la sostanza dei corpi architettonici, compresa la loro materialità, la struttura, la gravità, il colore, per dissolverli, in un certo senso, nella totalità del grande spazio nero. I locali illuminati invece si stagliavano in modo tangibile nello spazio circostante illuminandolo così come facevano i corpi luminosi all’interno delle abitazioni. L’inversione dei rapporti chiaro-scuro produceva intanto configurazioni del tutto inconsuete. Gli architetti e gli ingegneri italiani approfittarono evidentemente del fatto che questa metamorfosi ottica conteneva nuove possibilità espressive e artistiche e della potenziale capacità evocativa della luce artificiale capace di delineare spazi che di giorno non erano riscontrabili.

Questo entusiasmo per la notte si poteva riscontrare nella scelta delle fotografie nelle riviste di architettura che, a partire dagli anni Trenta, pubblicarono sempre più immagini notturne. Queste per lo più venivano mese a confronto con altre fotografie scattate di giorno da (quasi) lo stesso punto di vista, così che le capacità metamorfiche di un’architettura risaltavano con grande evidenza. Particolarmente adatte alle impressioni notturne apparivano i mondi artificiali e temporanei delle esposizioni così come i grandi magazzini, le fabbriche, i teatri, i cinema con le loro insegne luminose, le vetrine illuminate e tutti gli ornamenti luminosi che attiravano l’attenzione: «L’uomo d’affari moderno ... ricerca, nel suo impianto di affari tutte le comodità offerte dalle nuove invenzioni tecniche, anche perché questa è la sua migliore pubblicità».6

Meno immediati, ma tanto più significativi dal punto di vista dell’architettura luminosa, erano invece gli edifici pubblici come stazioni, uffici postali o altre istituzioni i cui effetti di luce non avevano un riscontro pubblicitario immediato. La luce in quel caso serviva principalmente a produrre qualità tridimensionali ambivalenti che si rivelavano solo al buio, quando perdevano la solidità e l’inalterabilità dell’architettura grazie al carattere effimero della luce.

Precursori e sperimentatori nell’uso del nuovo materiale – la «luce artificiale» – in Italia, furono in particolare gli architetti della generazione più giovane, ad esempio Giuseppe Pagano, Giuseppe Vaccaro, Mario De Renzi, Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Giuseppe Terragni, Luigi Moretti e Angiolo Mazzoni.7

Progettare l’illuminazione notturna

La consapevolezza accresciuta per la luce come mezzo di raffigurazione architettonico e urbanistico emerge con particolare evidenza nel lavoro degli architetti: negli schizzi, nelle proiezioni geometriche e nei plastici grazie ai quali essi comunicavano le loro idee. Negli anni Trenta in Italia si manifestarono – in forma di prospettive notturne e modelli illuminati dall’interno – delle modalità di rappresentazione grazie alle quali era possibile anticipare l’aspetto che avrebbe avuto la costruzione al buio già durante la fase del progetto. Poiché queste modalità venivano adottate solo raramente, soprattutto nel caso di concorsi, qualche volta anche per incarichi pubblici straordinari, esse mettono in luce in modo particolarmente chiaro quale doveva essere il significato degli effetti notturni e della loro accurata pianificazione.

Il progetto del ponte di Agnoldomenico Pica che fu recensito nel 1933 dalla rivista «Architettura» dimostra in modo esemplare che le vedute notturne venivano inserite come strumento di lavoro costitutivo. In occasione del concorso per il rinnovo del ponte di legno provvisorio dell’Accademia sul Canal Grande, a Venezia, Pica presentò, oltre ai progetti, uno schizzo diurno e uno notturno per mettere in evidenza il diverso aspetto dell’intervento nel contesto della città.8 La proposta del ponte prevede una trave in acciaio che poggia su due pilastri di cemento rivestiti di un mosaico in ceramica rossa; alle estremità due larghe scale a spirale portano a terra sulle opposte rive. Le parti in metallo e i gradini delle scale dovevano essere rivestiti in vetro e cristallo – dunque con materiali del posto – illuminati da dietro, «con bellissimo effetto fantasmagorico», come si diceva nell’articolo. Solo la prospettiva notturna ci mostra i rossi piloni che spariscono inghiottiti dall’oscurità, perdendo la loro funzione statica, mentre l’asse illuminato sembra sospeso sull’acqua, tenuto su soltanto dalle due scale a molla. Come i piloni anche il profilo della città, disegnato con una sottile linea bianca, scompare completamente sullo sfondo. L’illuminazione notturna del ponte non solo nasconde il sistema statico della costruzione ma addirittura evoca l’impressione della smaterializzazione. Nella notte il ponte sembra tutto fatto di luce; la luce assume così quella funzione costitutiva alla quale probabilmente Pica voleva riferirsi con il motto «H Tektonikh» .

Il concetto di «tettonica» in architettura viene utilizzato per indicare le forze portanti e gravanti di un fabbricato che non coincidono in modo cogente con le forze realmente attive. Un altro disegno prospettico che rappresenta la visione notturna di un’architettura in ambito urbano già durante la progettazione, è quella che troviamo nel progetto della stazione di Roma Termini di Angiolo Mazzoni. Si tratta della visione notturna dell’atrio, pubblicata nel 1939 in «Architettura» sotto una foto del modello scattata dallo stesso angolo visuale.9 L’alto atrio aperto della stazione viene rappresentato come uno spazio pieno di luce su sfondo nero. Attraverso le doppie colonne che gettano la loro ombra verso l’esterno, si può vedere il cielo notturno sopra la distesa dei binari, nell’atrio i minuscoli omini segnalano che c’è ancora molto movimento. Nel caso del monumentale progetto della stazione la visione notturna risultava evidentemente la più adatta per comunicare l’intento di ottenere la grande trasparenza e apertura della stazione di testa; trasparenza che si avverte anche nella foto del modello: la costruzione tuttavia con la luce del giorno, a causa dell’atrio in ombra e dell’architrave, risulta tuttavia molto più pesante, massiccia e imponente che non nella visione notturna.

Grazie alla contrapposizione di visione notturna e diurna, si riuscivano così a rappresentare i diversi stati dell’edificio e la versatilità della sua espressione architettonica. Indicativamente Mazzoni fece costruire anche un gigantesco modello del suo progetto dotato, all’interno, di piccole lampade così che anche nella scala ridotta del plastico si potesse avere un’impressione chiara di quella che sarebbe stata la visione notturna. Il modello fu presentato al grande pubblico nel 1939 in occasione dell’Esposizione universale di New York.10 Nel viavai notturno dell’atrio rappresentato nel disegno emerge in primo luogo l’aspetto funzionale dell’illuminazione artificiale destinata poi all’intera stazione ferroviaria per sostenere il traffico 24 ore su 24. Ma sebbene l’illuminazione avesse in primo luogo uno scopo funzionale, con la rappresentazione notturna della stazione, veniva consapevolmente messo in scena anche il progresso tecnico-industriale che la costruzione simboleggiava. Al contrario l’illuminazione di uffici pubblici e grandi magazzini in cui di notte non c’era mai nessuno, aveva uno scopo quasi esclusivamente pubblicitario, decorativo o propagandistico. Ad esempio la posta di Napoli, dove Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi svilupparono sia all’interno che all’esterno una sottile armonia di luci che si può constatare sia nei disegni preparatori che nelle fotografie del modello che in quelle dell’edificio finito.

Paradigmatico è anche l’edificio temporaneo che Roberto Narducci dovette erigere in fretta e furia nel maggio del 1938, in occasione della visita di Adolf Hitler a Roma e appena prima della realizzazione della stazione Ostiense: Narducci attrezzò l’edificio sostitutivo simile a una quinta teatrale con un sistema di tubi al neon per segnare in modo sorprendente e coreografico il percorso dell’ospite che doveva arrivare a Roma in treno dopo il sopraggiungere del buio.11

Architetture come corpi luminosi: due stazioni ferroviarie

Il nuovo modo di mettere in scena gli edifici pubblici nello spazio urbano non affiora soltanto nei disegni e nei modelli di Mazzoni, ma anche nelle sue opere costruite. Esemplare da questo punto di vista è la stazione di Siena, dove l’architetto colloca nell’angolo dell’edificio a più piani, che contiene uffici e abitazioni, una torre cilindrica. Essa contrassegnava uno dei terminali dell’impianto a U rivolto verso la piazza della stazione ed era costituita da lesene in vetro giustapposte. Di notte la «torre luminosa», come viene anche chiamata, si stagliava emblematica nel buio perché essendo illuminata all’interno, rischiarava lo spazio circostante come fosse una gigantesca lanterna. Non aveva né una scala all’interno né sorreggeva un orologio: il suo unico scopo era quello di far spazio alla luce. Il gigantesco corpo luminoso «normalmente poco illuminato e molto luminoso invece nelle solennità»,12 non era soltanto fonte di luminosità e visibilità nella notte, la sua forma era bensì quella di un fascio littorio, dunque si presentava come un incontrovertibile simbolo del fascismo a scopo propagandistico. L’illuminazione notturna aumentava l’effetto in lontananza e l’emblematicità della torre e – in un’epoca in cui le lampadine nelle stazioni si contavano ancora, per così dire, sulle dita di una mano – probabilmente sulle persone deve aver fatto l’effetto di un fanale della modernità.

Nella stazione di Reggio Emilia, Mazzoni mise una torre luminosa molto simile – una costruzione libera, alta, a tre lati con i vertici arrotondati sul lato più corto e con sottili lesene in pietra o vetro. La struttura però questa volta non si trova all’aperto bensì al centro dell’atrio della stazione che è alto e quasi completamente rivestito in marmo bianco. Serviva da deposito bagagli e separava simmetricamente l’edificio principale rettangolare in un lato partenze e un lato arrivi in ognuna delle quali si poteva entrare o uscire tramite tre porte vetrate. Di giorno l’atrio era illuminato dalla luce naturale che entrava dalle finestre alte e dalle porte, di notte invece la luce artificiale, proveniente da lampade sferiche che pendevano dal soffitto all’interno del corpo trasparente, si comportava come il filo di una gigantesca lampadina. Illuminava tutto lo spazio circostante poiché veniva diffusa dal vetro spesso della struttura e riflessa dalle pareti in marmo bianco. Solo nella prosecuzione del deposito bagagli sporgente, Mazzoni fece inserire una larga fascia in marmo grigio di Bardiglio che sembra contrapporsi come se accogliesse un’ombra, tra le porte d’ingresso e di uscita, al chiarore della gigantesca lampada, oscurando il collegamento aperto tra i due lati dell’atrio. A differenza della torre della stazione di Siena, nel dar forma a quella di Reggio Emilia, Mazzoni non sembra tanto attento alla necessità di comunicare un messaggio politico, quanto alla configurazione dello spazio e alla qualità tecnica della luce.13

Questi esempi ci mostrano come in Italia la luce elettrica in architettura e negli spazi esterni diventò via via un fattore determinante. Dava agli edifici e allo spazio urbano anche al buio una fisionomia ben visibile e portò a un cambiamento radicale nella percezione dello spazio cittadino e quindi anche del modo in cui venivano vissute le strade, le piazze, i giardini e i parchi. I disegni, i modelli e le fotografie pubblicate mostrano inoltre che gli architetti trovarono nella fisionomia notturna delle loro costruzioni un mezzo espressivo esplicito per accrescere l’incisività artistica delle loro opere.

Note

  1. Cfr. G. Canesi, A. Cassi Ramelli, Architetture luminose e apparecchi per illuminazione, U. Hoepli, Milano 1934, pp. 5-6.

  2. Cfr. J. Teichmüller, Lichtarchitektur, «Licht und Lampe», n. 13-14, ed. speciale, 1927.

  3. Cfr. I manifesti del futurismo lanciati da Marinetti- Boccioni - Carrà - Russolo - Balla - Severini - Pratella - M.me De Saint-Point - Apollinaire - Palazzeschi, Edizioni di Lacerba, Firenze 1914, p. 6; J. Teichmüller, Lichtarchitektur cit., p. 5.

  4. Nel 1924, delle 2536 stazioni che si contavano in Italia, 1288 erano provviste di luce elettrica (130’000 lampadine), 4 di lampioni a gas, 28 ad acetilene e 1216 a petrolio; nel 1937 le stazioni erano 2838 di cui 2282 con la luce elettrica (256’516 lampadine), 3 con lampioni ad acetilene e 533 a petrolio.

  5. G. Jellinek, Luce e architettura, «Architettura e Arti Decorative», IX, n. 2-3, 1929, p. 65.

  6. L. Schreiber, Pubblicità luminosa, «Casabella», VII, n. 74, 1934, p. 12.

  7. Cfr. Il padiglione d’ingresso della VI Triennale di Giuseppe Pagano, i contributi per la Mostra della Rivoluzione Fascista di Adalberto Libera e Mario De Renzi, il progetto della posta di Napoli di Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi, la fontana in piazza Tacito a Terni di Mario Ridolfi e Mario Fagiolo, il negozio Vitrum a Como di Giuseppe Terragni, la Casa delle Armi nel Foro Mussolini a Roma di Luigi Moretti o l’ufficio postale di Ostia Lido di Angiolo Mazzoni.

  8. Cfr. N.d.R., Il Concorso per il nuovo ponte dell’Accademia a Venezia, «Architettura», XII, n. 5, 1933, pp. 307-310.

  9. Cfr. M. Piacentini, La nuova stazione di Roma imperiale, «Architettura», XVIII, n. speciale, 1939, p. 82.

  10. Cfr. maz s/21, Fondo Angiolo Mazzoni, Archivio del ’900, mart.

  11. Cfr. G. Vaccaro, Edificio per le poste e telegrafi di Napoli. Architetti Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi, «Architettura», XV, n. 8, 1936, pp. 353-394; P. Carb, Padiglione provvisorio della stazione di Roma Ostiense, «Architettura», XVII, n. 7, 1938, pp. 489-494.

  12. Cit. da M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi (a cura di), Angiolo Mazzoni in Toscana, Edifir, Firenze 2013, p. 193. Oggi tra le lesene sono stati messi dei fari, che illuminano la torre dal basso, così che la «torre luminosa» di un tempo, così suggestiva, è diventata una semplice «torre illuminata».

  13. La struttura originaria della stazione di Reggio Emilia fu quasi completamente distrutta nel corso della seconda guerra mondiale.

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