La macchina esatta. Conversazione con Livio Vacchini
Serie: I 20 anni di Archi (1998-2018)
Per i 20 anni di Archi, l'intervista a Livio Vacchini dal no. 6/1999. «L’architettura è una questione mentale; è calcolo, pensiero, ragionamento».
Il computer viene associato alla possibilità della prefigurazione dell'architettura: la finzione della prospettiva permette di ambientare restituzioni iperrealistiche dell'oggetto architettonico. I materiali offrono allo sguardo effetti di luce, ombre, tessitura e grana superficiale: non sono ancora, ma già appaiono.
Lo schizzo dell’architetto viene presentato come possibilità di ricerca di una nuova naturalità: cogliere il momento creativo, il gesto.
Il dialogo con Livio Vacchini si muove tra questi due poli, e diventa subito occasione di spunti critici. Non potrebbe essere altrimenti. Le rappresentazioni che Vacchini presenta della propria architettura sono disegnate con l’ausilio della macchina, e della macchina hanno il carattere della precisione, dell’esattezza, della sintesi oggettiva del segno. Disegni che sembrano andare nella stessa direzione di ricerca dei progetti dell’architetto ticinese: la riduzione dei segni grafici sembra corrispondere a progetti che si affidano a pochi elementi semplici, siano essi tipologici (il recinto, la pianta centrale), morfologici (le geometrie semplici del quadrato e del rettangolo) o costruttivi (schemi strutturali semplici, cui è affidata le definizione dell’edificio).
Nessuna prospettiva, nessun simulacro virtuale dell’architettura che verrà: piante, prospetti e sezioni, le uniche rappresentazioni oggettive dell’architettura. Nessuno schizzo viene presentato; lo schizzo viene utilizzato soltanto come codice personale, che non viene commercializzato, quasi in aperta polemica con la commercializzazione che di questo mezzo viene fatta dall’editoria di settore, (L.T.) L’architettura è una questione mentale; è calcolo, pensiero, ragionamento. Il disegno è il momento in cui, dopo avere riflettuto abbastanza a lungo, posso finalmente interrogarmi sulle dimensioni, sulle proporzioni dell’architettura. Non voglio che il disegno sia condizionante per il pensiero; voglio che tutto rimanga, quanto più possibile, astratto, impersonale. Il disegno tende a far apparire subito tutto bello: in una riga trovo tutti gli elementi del progetto. Questo è pericoloso: ho la tentazione di fare un quadro, tendo a deviare.
Quando penso ad un oggetto desidero che il pensiero sia puro; all’origine del mio fare c’è la teoria, e il risultato concreto ha valore solo in funzione della teoria. Questo perché in architettura non esiste la verità in sé, m soltanto una verità oggettiva che io verifico attraverso l’edificio costruito, che rappresenta la dimostrazione degli assunti teorici da cui ero partito.
Un progetto dimostra la propria validità all’interno di un discorso teorico complessivo: anche la chiesa di Ronchamp non sarebbe che un episodio, se distaccata dall’intero contesto dell’opera di Le Corbusier. In questo l’architettura non si differenzia dalla scienza. La scienza si può definire come l’osservazione organizzata dei fatti concreti. Io desidero offrire alla natura, alla luce, un oggetto che dovrebbe reagire in un dato modo. In questo io esprimo un rifiuto alla prefigurazione della realtà: l’uso di sistemi di rappresentazione, come la prospettiva, ad esempio, forniscono un’immagine falsa, cui si tende a legarsi. Questo non avviene con i modelli plastici, che io utilizzo per verificare le proporzioni di quanto sto progettando, i rapporti che sussistono all’interno della costruzione.
Lo schizzo di architettura: forse neanche Le Corbusier ha fatto degli schizzi veramente convincenti, sul piano strettamente artistico; l’aspetto più deteriore è la commercializzazione degli schizzi degli architetti, come se si trattasse di qualche cosa che ha un valore in sé, isolato dal discorso del progetto. Io non è che non disegni, che non faccia degli schizzi, ma non li uso come comunicazione verso l’esterno: ho pudore del mio lavoro.
Ogni opera ne presuppone un’altra più antica; ogni nostro disegno o progetto si pone quindi in una relazione critica con quanto ci ha preceduto. Quando schizzo, lo faccio soltanto per visualizzare il mio pensiero, ma cerco di farlo nel modo piti «brutto» possibile, non voglio farmi tentare dalla piacevolezza grafica. Non mi interessa se il mio disegno sia bello o sia brutto: allo stesso modo, non mi preoccupo, quando progetto, se il mio edifico sia bello o brutto; non riuscirei a fare una bella casa a priori; l’architettura è il risultato di un processo.
Quando devo comunicare i miei progetti fuori dallo studio non posso certo pubblicare i piani di esecuzione, dove c’è un eccesso di informazione. Il mio schizzo è il disegno che io utilizzo per comunicare l’idea della mia architettura, eseguito sempre a posteriori, quando il progetto è finito. Sono disegni che possono apparire fortemente astratti. Ricordo quando furono pubblicati i disegni della «Casa Aurora» a Lugano: il disegno della facciata si è rivelato identico alle fotografie, non tanto nel senso di una identità dell’immagine, ma quanto nel senso che la rappresentazione presentava la verità costruttiva dell’edificio. L’utilizzo del computer per il disegno è assolutamente strumentale: la macchina è un mezzo, esattamente come la tecnica, che non è mai un fine. Il computer non è soltanto una questione di precisione: riesci a vedere l’uomo dietro la macchina, esattamente come se stesse usando la matita; allo stesso modo non mi interessa la tridimensionalità. In studio abbiamo preso l’abitudine di lavorare quasi direttamente su computer, modificando via via il progetto direttamente sullo schermo, con una velocità di esecuzione altrimenti impensabile. Cerco di esprimere, attraverso i miei disegni, la sostanza dell’edificio, i suoi elementi principali: il progetto viene messo a nudo. Nella mia architettura la ricerca progettuale è legata all’atto costruttivo.
Sono partito, all’inizio del mio percorso, sperimentando il sistema trilitico, specialmente in acciaio: un sistema semplice, che potevo controllare. Il cemento armato mi sembrava troppo difficile, in un momento in cui si pensava che con questo materiale si potesse realizzare tutto. Ora sono molto lontano dal trilite: la palestra di Losone, strutturalmente parlando, è un dolmen, un grande masso sostenuto dalle pareti perimetrali. Tutto questo, naturalmente, richiede tempi lunghi, pause, e anche insuccessi. (L.V)
I venti anni di Archi (1998-2018)
Per festeggiare il ventennale della rivista Archi, una selezione degli articoli più significativi è andata a costituire una timeline, tracciando una linea di continuità tra il 1998 e il 2018. Tutti gli articoli sono contenuti nel dossier «I venti anni di Archi (1998-2018)».