«Per le prossime sette generazioni»
Chris Luebkeman ha lavorato vent’anni in giro per il mondo per lo studio d’ingegneria Arup. Oggi collabora con l’Ufficio di Presidenza del Politecnico federale di Zurigo ed è membro del Comitato SIA. Quali obiettivi si pone e quali sfide si attende in futuro per i progettisti del nostro ambiente costruito? Lo scopriamo nell’intervista che segue.
TEC21 – Signor Luebkeman, negli ultimi vent’anni ha lavorato per lo studio d’ingegneria Arup, attivo a livello internazionale. Qui ha creato i gruppi di lavoro «Global Foresight, Research + Innovation» e ha lanciato il programma «Drivers of Change». Si è confrontato con i temi cruciali del nostro tempo, prestando i suoi servizi in tutto il mondo. Che cosa l’ha spinta a lasciare questa attività e a decidere di entrare a far parte dell’Ufficio di Presidenza del Politecnico federale di Zurigo?
Sono legato ormai da anni al Politecnico federale di Zurigo e alla Svizzera. Dopo la formazione in ingegneria, conclusa negli Stati Uniti, ho studiato architettura all'ETH. A Zurigo ho capito che cosa significa osservare prestando grande attenzione ai dettagli e ho imparato a capire la dimensione urbanistica. Due aspetti, questi, completamente assenti durante i miei studi in America. È alla cattedra del professor Christian Menn che ho capito la differenza che intercorre tra il creare e il calcolare. È stata una sorta di rivelazione. In seguito, ho collaborato per lo studio di Santiago Calatrava e, tra i tanti progetti, ho lavorato a quello della stazione ferroviaria di Stadelhofen, a Zurigo. Questa esperienza mi ha aperto gli occhi su come le decisioni tecniche possano avere implicazioni sullo spazio, sugli effetti della luce e sulla progettazione stessa. Questo periodo zurighese ha dato una nuova svolta alla mia vita. È in questo lasso di tempo, infatti, che ho realizzato come ogni progetto vada sempre considerato nella sua globalità. Per questo devo dire grazie alla Città di Zurigo: le sono riconoscente e ora voglio ripagarla, darle qualcosa in cambio. Collaborando con l'ETH, spero di poter portare il mio contributo nel promuovere due discipline cruciali come l’architettura e l’ingegneria. In seno all’Ufficio di Presidenza mi sono posto un obiettivo, ovvero fare in modo che il Politecnico riesca a dare il meglio di sé. Soprattutto nel mondo accademico di oggi, in profonda e rapida trasformazione. L'ETH deve restare un’istituzione all’avanguardia, un’istituzione che rende possibile il cambiamento.
Signor Luebkeman, in seno all’Ufficio di Presidenza del Politecnico, lei dirige lo «Strategic Foresight Hub», un vero e proprio punto d’incontro per tutti coloro che vogliono riflettere sulle tendenze di lungo periodo e sugli scenari del futuro, pensato per aiutare a comprendere in che direzione potrebbero evolvere università, società e mondo intero negli anni a venire. Quali sono, in questo contesto, le questioni cruciali che la preoccupano maggiormente?
L’hub è un progetto nuovo. Stiamo ancora definendo le nostre priorità. Certo, alcune sfide da affrontare risultano evidenti, come il futuro dell’insegnamento e dell’apprendimento: ci vorranno nuovi approcci e quanto meglio saremo preparati, tanto meglio andranno le cose. E poi c’è il tema dell’intelligenza artificiale: è indubbio che avrà una profonda influenza sulle nostre vite e ciò scatena diverse paure, ma fa nascere anche grandi speranze. Non da ultimo, dobbiamo naturalmente fare i conti anche con il futuro stesso del nostro pianeta, e la questione dei cambiamenti climatici. Su questo piano la Svizzera è ben equipaggiata e penso che l'ETH sia il miglior dipartimento di scienze ambientali del mondo. Basta solo mettere in atto i suoi insegnamenti.
Come procederà, concretamente?
Lo «Strategic Foresight Hub» offre uno spazio, consigli utili, strumenti e metodi per tutti coloro che si interessano a possibili scenari avveniristici. La comunità multidisciplinare battezzata «Friends of Foresight» partecipa a discussioni, eventi e attività. Riflettere in termini di evoluzioni future è decisamente diverso da ciò che la maggior parte di noi fa di regola, vale a dire reagire a una situazione reale, concreta e presente. È un altro modo di pensare, che va appreso ed esercitato. Il cervello però deve prima essere allenato a pensare al futuro, bisogna rafforzare quello che potremmo chiamare il «foresight muscle», il muscolo della lungimiranza. Noi progettisti siamo abituati, per antonomasia, a pensare all’avvenire: sappiamo bene che tutto quello che ideiamo e realizziamo, lo costruiamo per le generazioni che verranno; insomma, vogliamo mettere a disposizione opere e infrastrutture che abbiano una ragione d’essere anche un domani. Eppure, questa predisposizione verso l’avvenire e la capacità di anticipare il futuro non è una caratteristica di tutti, a volte neanche dei ricercatori.
In veste di membro del Comitato SIA, ora è confrontato anche, e in particolare, con il futuro delle professioni legate al settore della progettazione. In questo contesto, dove sono insite le principali sfide?
Un obiettivo comune a tutti i progettisti deve essere quello di garantire alla collettività un ambiente di vita sano e costruito con lungimiranza. In quest’ottica si tratta ora di trovare soluzioni sostenibili in risposta agli sviluppi e alle trasformazioni globali, come i cambiamenti climatici, la crescita demografica o l’invecchiamento della popolazione. Tali evoluzioni sono imprescindibili, ecco perché dobbiamo prepararci ed equipaggiarci al meglio per affrontarle, il prima possibile. Quando lavoravo per lo studio Arup mi sono sempre adoperato nel promuovere la trasformazione. Sono anche stato uno dei primi a impegnarsi affinché gli obiettivi di sostenibilità diventassero parte integrante di tutti i progetti, anche quando il committente, di per sé, non formulava alcuna pretesa in tal senso. Conosco, per esperienza diretta, diverse delle sfide che ci attendono quali esperti nel settore della costruzione. Sono impaziente di occuparmi di tali questioni. Il nostro mondo professionale cambia, e continuerà a cambiare, spetta a noi modellare la trasformazione in modo che la prossima generazione di architetti e ingegneri, spinta dalla creatività e dall’entusiasmo, possa prendere il testimone e andare avanti. È con chiaro in mente questo obiettivo che svolgo il mio lavoro, all'ETH e in seno al Comitato SIA.
In quanto associazione attiva nell’ambito della normalizzazione, la SIA è spesso rimproverata di frenare il progresso; le norme rispecchiano infatti sempre lo stato dell’arte nel momento stesso in cui si acquisiscono nuove conoscenze. Allora, non vi è forse il rischio che le norme risultino superate ancor prima di entrare in vigore? Che cosa ne pensa?
Lo «state of the art» continua a evolvere, è palese. Proprio per questo è importante guardare avanti, anticipare e capire in che direzione porta il cambiamento, o dovrebbe portare. In questo contesto, bisogna distinguere tra vero progresso e mode del momento. In Svizzera si adotta al riguardo un approccio piuttosto conservativo, e lo apprezzo molto. Qui la durabilità e la qualità fanno parte integrante della tradizione. Nel raffronto internazionale, la Svizzera ha un livello architettonico e ingegneristico molto elevato. Tuttavia, c’è ancora molto da fare. Dobbiamo coltivare bene il nostro «giardino costruito» e trasformarlo in modo che resti vivibile, malgrado i cambiamenti climatici. Visto l’aumentare delle canicole estive è evidente che il raffrescamento degli edifici sarà un tema sempre più importante in futuro, e non soltanto sotto il profilo tecnico, ma anche per quanto concerne la progettazione architettonica. Inoltre, bisogna ridurre in modo radicale l’emissione di CO2. Vogliamo raggiungere le emissioni zero, senza però compromettere la nostra qualità di vita, che è tra le più elevate al mondo. Possiamo riuscirci, e ci riusciremo.
La Svizzera ha il potenziale per diventare un modello per altri Stati meno privilegiati. Non dobbiamo dimenticare che ci attendono delle crisi globali, con conseguenze esistenziali, alle quali anche la Svizzera non potrà sottrarsi. Nei prossimi cinquant’anni ci troveremo confrontati con problemi enormi legati all’energia e all’acqua, e ciò nel mondo intero.
Che cosa significa tutto questo per i progettisti di oggi?
Significa che non possiamo continuare a esercitare le nostre professioni così come abbiamo sempre fatto: è indispensabile contare su una formazione continua, vita natural durante. Come detto, qui alle nostre latitudini la situazione di partenza si prospetta favorevole. Ma perché resti così bisogna garantire una buona collaborazione tra scuole universitarie, economia e politica. Le sfide non sono da poco, impressionano e lasciano senza parole, ma va detto che la Svizzera dispone di istituzioni altrettanto impressionanti, in grado di affiancare i progettisti in questa impresa. Mi riferisco qui alle scuole universitarie, alle associazioni professionali e anche all’Empa, ma non solo. Le istituzioni elvetiche riuniscono un incredibile sapere. Ora si tratta di intensificare la collaborazione. E questa è una delle ragioni per cui ho deciso di impegnarmi in seno alla SIA.
Un megatrend che sta cambiando la quotidianità dei progettisti è la digitalizzazione. Quando collaborava presso lo studio Arup, lei si è impegnato nel promuovere e portare avanti questa tendenza.
Proprio così, e allora molti colleghi non ne vedevano ancora realmente il bisogno. Ma ecco che ora, qualche anno più tardi, è ormai chiaro per tutti che la digitalizzazione è un processo inevitabile. Ciò, tuttavia, non significa che il lavoro umano sia destinato a scomparire: saranno sempre necessarie idee innovative, il pensiero concettuale e creativo continuerà a essere indispensabile, sia nella progettazione che nella realizzazione. D’ora in poi avremo semplicemente a disposizione nuovi strumenti, dobbiamo solo riflettere bene su come utilizzarli. Con ogni nuovo tool di cui disponiamo possiamo dire di guadagnare qualcosa, ma al contempo anche di perdere qualcosa. La domanda da porsi è: che cosa vogliamo assolutamente guadagnare? Che cosa non vogliamo assolutamente perdere? Ecco un esempio: quando gli ingegneri lavoravano ancora con il regolo calcolatore avevano sempre una rappresentazione chiara dell’ordine di grandezza al quale si applicavano le loro operazioni. Con l’arrivo della calcolatrice le cose sono cambiate. La calcolatrice esegue qualsiasi operazione, ma se si inserisce un valore sbagliato ecco che anche il risultato sarà sbagliato, benché di per sé il calcolo sia corretto. Insomma, malgrado la calcolatrice, bisogna saper valutare se un risultato sia plausibile oppure no. E qui non vi è nessuno strumento al mondo capace di sostituire il buon senso e il sapere. Vale la stessa cosa per il computer. Anche in questo caso dobbiamo chiederci in che cosa il computer potrà tranquillamente sostituirci e in che cosa invece non vogliamo, in nessun caso, che ci soppianti. Ad esempio, non vorrei mai dover rinunciare al piacere di scambiare opinioni e di dare vita a nuove idee, e neanche al gusto di poterle abbozzare, disegnare, magari mentre si è riuniti insieme, seduti a tavola, assaporando una buona cena. Quando lavoravo per lo studio Arup c’è voluto molto tempo per capire quante conoscenze, implicite ed esplicite, racchiudesse e custodisse ciascun collaboratore. Si tratta di un sapere che nessun computer è in grado di sostituire, un sapere che deve essere tramandato alle giovani leve e portato avanti dalle prossime generazioni. Ed è qui che il cerchio si chiude, e torniamo all’importanza della formazione.
Nel settore ingegneristico, la Svizzera accusa una penuria di giovani professionisti. Che cosa fare per migliorare la situazione?
Vorrei poter spiegare a tutti i quindicenni, ragazzi e ragazze, che non esiste professione più bella di quella dell’ingegnere. La maggior parte dei giovani purtroppo però è scettica, pensa che avviare una start up sia più entusiasmante oppure ambisce a settori più lucrativi. Eppure, l’ingegnere riveste un ventaglio di mansioni davvero ampio e appassionante: deve ripensare, ricostruire e riorganizzare da cima a fondo il nostro ambiente di vita. Vogliamo raggiungere le emissioni zero, produrre molta più energia pulita, preservare le risorse, padroneggiare il design rigenerativo e, non da ultimo, fare in modo che la Svizzera diventi un modello di economia circolare. Quello che intendiamo oggi quando parliamo di costruire sostenibile ormai però non basta più.
Lo dico sempre: stiamo lavorando per le prossime sette generazioni. Di fatto, se guardiamo indietro, e pensiamo alle nostre ultime sette generazioni, ci rendiamo conto di quanto estremamente dura sia stata la vita di chi ci ha preceduti. Nel frattempo, abbiamo fatto incredibili passi avanti, possiamo contare su buone infrastrutture di trasporto, abbiamo acqua potabile, un’ampia rete di approvvigionamento energetico e tanto altro ancora. Tutto questo non è per niente ovvio, e non è neanche garantito, insomma abbiamo anche tanto da perdere. Dobbiamo tenerlo ben presente, sempre! Proprio per questo bisogna fare il possibile affinché il nostro spazio di vita diventi sostenibile, sia tutelato e preservato. Per le prossime sette generazioni.
Chris Luebkeman interverrà in veste di relatore al Congresso sulla tecnica impiantistica che si terrà il 28 ottobre 2021 e parlerà di come sia possibile colmare il vuoto tra sapere e fare («Schliessen des knowingdoing gap»). Per saperne di più e iscriversi: gebaeudetechnik-kongress.ch