Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, no­vem­bre 2012

26 novembre 2012: A Flora Ruchat

Data di pubblicazione
15-02-2013
Revision
19-08-2015

Il 24 ottobre 2012 è morta Flora Ruchat. Nel riflettere come dedicarle questo mio Diario, in dubbio tra lo scrivere dei suoi progetti e delle sue architetture, oppure del suo operare a Riva San Vitale, a Roma e a Zurigo – da sola o in collaborazione con Galfetti e Trümpy e Schnebli e Ammann – o ancora del suo insegnamento al Politecnico di Zurigo (dal 1985 al 2002) ho preferito rincorrere un’altra idea. Di raccontare di lei attraverso i miei ricordi personali. Un modo diciamo autobiografico che penso possa ben illustrare non solo la Flora che io ho conosciuto, ma anche la sua personalità, la sua cultura e, occorre ricordare, il suo essere architetto e spesso figura centrale nel dibattito architettonico di questi decenni. Gli incontri che avvenivano nella sua casa a Riva San Vitale ne sono una conferma.

Rivista Tecnica

Nel 1972, allora giovane architetto poco più che trentenne, mi toccò la direzione e la redazione del mensile di architettura Rivista Tecnica della Svizzera Italiana. Assieme a Peter Disch abbiamo voluto trasformarla da acritico periodico delle società professionali degli architetti (sia e otia) in una rivista impegnata a interpretare la nuova architettura allora emergente e a denunciare – anche – le storture e le contraddizioni che il boom immobiliare di quegli anni stava producendo a danno delle città e del paesaggio: Rivista Tecnica per me doveva registrare (gennaio 1972) «... la cronaca del costruire nel nostro Cantone, di come si progetta, si pensa e si pianifica, una cronaca, positiva o negativa che sia, degli interventi sul nostro territorio. E delle nostre assenze arbitrarie. Una cronaca anche di quello che si potrebbe fare». Già l’inciso all’interno della frase – «e delle nostre assenze arbitrarie» – fece storcere il naso a molti colleghi. Fu allora che nacque una certa complicità con molti colleghi, da quelli più anziani come Tami, Jäggli, Camenzind e Brocchi a Tita Carloni, Franco Ponti e Peppo Brivio, e poi quelli appena più giovani, come Luigi Snozzi, Lio Galfetti, Mario Campi e Pessina e Piazzoli, Durisch, Gianola. E Flora Ruchat. E fu proprio con lei che collaborai (assieme a Giancarlo Durisch e Ivano Gianola) al numero della Rivista del giugno 1973. Titolo: «Contraddizioni di un territorio in espansione». Dopo mille discussioni in quel di Riva San Vitale, i testi furono scritti un po’ da Flora e un po’ dal sottoscritto. Per capire cosa stavamo preparando, bastino questi estratti dall’editoriale: «Il villaggio, la strada, la città, l’autostrada, sono parti integranti, in quanto manufatti, della storia dell’uomo. Supporto a un modo di vita, rispecchiano da un lato la cultura dall’altro le contraddizioni sociali (...) La natura (...) non è elemento di contrasto né tantomeno di contemplazione. Strumento primario per la sopravvivenza (...) viene poi domata asservita e sfruttata al pari del tessuto urbano. Ai pochi casi dove l’intervento dell’uomo ha ricostruito una natura più natura in zone rovinate sia dai cataclismi che dall’uomo stesso, si contrappongono i molti casi dove zone intatte sono state distrutte. La natura quindi, violentata nella stessa misura dello spazio costruito ne diventa il suo negativo (...) Il confine economico-geografico del Ticino, leggibile sulla mappa è di fatto esploso. Il territorio, vittima di uno sviluppo incontrollato nonostante le apparenti coperture degli interventi pianificatori, mercificato e spremuto fino all’osso, ha manifestato già da tempo i primi sintomi di squilibrio. Gli stessi diretti interessati non lo ignorano più. L’esplosione del traffico, il collasso della circolazione a Lugano e la rapina delle risorse naturali in valle Maggia sono due casi limite atti a documentare il risultato della manipolazione dell’ambiente da parte della classe dominante». Parole dure che lasciarono non pochi strascichi polemici, accompagnate da un estratto dal libro di Plinio Martini «Il fondo del sacco», dall’articolo di Franco Beltrametti «Deserto, indiani e elettricità», e da tre approfondimenti. Il primo dal titolo «Deflussi minimi» è dedicato alla Valle Maggia: «... e la stessa sorte è toccata al Martin Pescatore, alle rane e ad altri animali ancora. Da quando le dighe sono state costruite e l’acqua scende con il contagocce, da quando il greto del fiume è asciutto. Sono scomparsi da quando la Valle Maggia è stata derubata del suo fiume e ai suoi abitanti hanno lasciato una lunga striscia di sabbia e ghiaia. L’acqua si ferma lassù, in Val Bavona, a Fusio, dietro le barriere di cemento costruite dall’ofima. Ai valmaggesi hanno lasciato un fiume di promesse – mai mantenute – e con queste, si sa, non ci si può né dissetare, né fare il bagno». Il secondo approfondimento è «Estrazione di inerti»: «Ai valmaggesi si vuole far ingoiare un altro rospo: quello dell’estrazione di inerti. Se per comodità, o meglio per strategia, si è voluto a più riprese separare il problema degli inerti da quello dei deflussi minimi, essi sono per contro strettamente legati tra loro: quale occasione migliore di questa, dove gli inerti sono più facili da estrarre perchè non ricoperti d’acqua ». E infine il terzo approfondimento, dedicato a Lugano e il suo traffico, dove a quello invasivo delle automobili occorre opporre «... il potenziamento dei mezzi pubblici concentrando le auto private alle porte della città» per realizzare «... la prospettiva di un uomo meno macchina e più sanamente pedone, è solo una parte contro l’organizzazione della città, del lavoro, della vita». E il contributo su Lugano si chiudeva con la denuncia del progetto di allargamento del lungolago, quattro corsie separate da un’aiola: dallo svincolo di Lugano sud in autostrada fino al Palace. Rivista Tecnica finì allora sui banchi del Consiglio comunale, e la questione fu chiusa da un referendum popolare che affossò l’allora progetto comunale.

Parametro

Con Flora Ruchat ho curato due numeri della rivista Parametro dedicati all’architettura svizzera: il numero 140 ottobre 1985 «Architettura svizzera: 1° Storia e dibattito» e il numero 141 novembre 1985 «Architettura svizzera: opere e progetti contemporanei». Nel testo introduttivo dal titolo «L’unità e la diversità», firmato anche questo da entrambi (ma se ben ricordo fu lei a scrivere il testo dopo averne discusso assieme) nel presentare la Svizzera e la sua architettura si poteva leggere: «Il panorama politico, sociale e culturale della Svizzera è un mosaico complesso formato da tre culture differenti, che storicamente rimangono autonome e separate tra loro. Non solo, ma esse tendono per affinità, per simbiosi, per simpatia ad aprirsi verso l’esterno, verso i paesi confinanti, nel tentativo sia di uscire dalle proprie ridotte dimensioni geografiche e quantitative e di superare il provincialismo in cui rischiano di giacere, sia soprattutto di ritrovare, ognuna, le proprie più autentiche radici nella cultura del paese vicino. Ma a questa concreta diversità culturale si oppone l’unione politica del paese, basata non tanto su un impossibile potere centrale molto forte, ma sul federalismo, che pur accettando le singole autonomie riesce a essere elemento sufficientemente coesivo. È quindi di un’unità ipotetica che si tratta, di una «unità nella diversità», di un assemblaggio che positivamente permette alle tre culture – quella tedesca del centro, del nord e dell’est del paese, quella francese dell’ovest, quella italiana del sud – di convivere tra loro in una dinamica dialettica e di mantenere nello stesso tempo, ognuna per sé, le proprie qualificanti caratteristiche culturali. In conclusione: mentre all’apertura di ogni regione verso l’esterno corrisponde il carattere internazionale dell’architettura svizzera, alla coesistenza federalistica di singole autonome radici storiche e culturali corrisponde l’unicità, la diversità, la complessità, la qualità anche del dibattito nazionale. La storia dell’architettura svizzera è sempre stata condizionata dal riflesso di questa «unità nella diversità», e per due motivi in particolare. Primo, dal prevalere, di volta in volta, delle tendenze centrifughe verso l’esterno, e quindi della vocazione all’internazionalità, o viceversa di quelle unificanti verso l’interno, e quindi di tipo nazionalistico, che ovviamente emergono specialmente nei momenti di crisi internazionale. Secondo, dall’emergere di una cultura rispetto alle altre due: non tanto per meriti e caratteristiche proprie, ma soprattutto per i riflessi dovuti, una volta ancora, alle vicende internazionali. La storia dell’architettura svizzera tra le due guerre è esemplare da questo punto di vista, perchè il quadro estremamente unitario che essa presenta è dovuto al fatto che in quel periodo la cultura egemone è quella svizzero-tedesca, e condiziona positivamente l’intero paese: è partecipe al dibattito internazionale, è aperta verso il nord, è il riflesso attivo delle idee e della cultura mitteleuropea. È una superiorità culturale che trova il proprio simbolo istituzionale nel Politecnico di Zurigo, la scuola in cui dovevano studiare tutti gli svizzeri che volevano diventare architetti o ingegneri, fossero essi di lingua tedesca, francese o italiana. Oggi la situazione è completamente diversa. Non tanto perchè l’area di lingua tedesca non sia quella egemone: in realtà essa lo è dal punto di vista numerico e soprattutto economico. Ma essa è (...) culturalmente chiusa su se stessa, anacronisticamente provinciale, sia perchè il modello di riferimento costituito dalla cultura germanica e mitteleuropea fu abbandonato con le vicende della guerra e il suo esito, sia perchè questo stesso modello ha perso quella centralità che lo caratterizzava in Europa. Oggi quindi quella internazionalità che storicamente ha caratterizzato la cultura svizzera è meglio reperibile nelle aree culturali francese e italiana, dove – soprattutto in quest’ultima – la vivacità del dibattito architettonico si è dilatato ben oltre i ristretti limiti geografici».

Configurato come progetto di paesaggio

Questi due esempi di mie collaborazioni con Flora Ruchat mettono in evidenza quanto attuali con le emergenze di oggi siano gli scritti di allora. Leggere nel numero di Rivista Tecnica del 1972 – e si parla di quarant’anni fa! – che «... il confine economico-geografico del Ticino, leggibile sulla mappa, è di fatto esploso» oppure che il territorio è «... vittima di uno sviluppo incontrollato nonostante le apparenti coperture degli interventi pianificatori, mercificato e spremuto fino all’osso, ha manifestato già da tempo i primi sintomi di squilibrio» oppure ancora occuparsi e preoccuparsi della scomparsa del Martin Pescatore con la scomparsa del fiume, è sorprendente. Oppure leggere nel testo di Parametro – scritto quasi trent’anni fa! – della necessità di aprirsi verso l’esterno «... nel tentativo di uscire dalle proprie ridotte dimensioni geografiche e quantitative e di superare il provincialismo in cui si rischia di giacere» o ancora che la storia svizzera è dettata «... dal prevalere, di volta in volta, delle tendenze centrifughe verso l’esterno, e quindi della vocazione all’internazionalità, o viceversa di quelle unificanti verso l’interno, e quindi di tipo nazionalistico, che ovviamente emergono specialmente nei momenti di crisi internazionale» è di un’attualità sorprendente. E tutto il merito è di Flora Ruchat. È stata lei la dinamo che ha mosso questi temi: fino all’ultimo si è sempre impegnata nell’aprirsi verso gli altri e verso l’esterno – ponte tra la cultura italiana e la cultura svizzero-tedesca – e a occuparsi e preoccuparsi di paesaggio, del territorio, della natura e dell’ecologia. Il paesaggio e il territorio sono del resto stati i temi fondamentali del suo percorso creativo: con Galfetti e Trümpy il Bagno pubblico di Bellinzona (1970), dove la passerella segna l’estrema periferia e travalica il tema ludico del bagno per assumere quello di matrice urbanistica; nell’autostrada Tranjurane A16 (1987-2002) Flora Ruchat (in collaborazione con Renato Salvi) disegna i muri di sostegno, i pozzi tecnici e le centrali di ventilazione, le protezioni foniche, i ponti, i viadotti e i portali di gallerie, un controllo formale e di materiali (il cemento armato) nella volontà di inserire nel paesaggio del Giura un nastro stradale coerente in tutto il suo percorso; e le stesse finalità si ritrovano nel suo lavoro di consulenza architettonica e progettuale – purtroppo interrotto con la sua morte – per le opere della linea ad alta velocità AlpTransit Gottardo, dove è fondamentale «... il manifestarsi dell’infrastruttura, non come addizione episodica di interventi, ma come sistema autonomo interscalare di opere, unitario e configurato come progetto di paesaggio, dalla città al territorio».

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