Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, lu­glio 2013

12 luglio 2013: È Peppo Brivio, assieme a Rino Tami, la figura centrale e di maggior influenza di quel decennio che tempo fa, in un testo del 1992, ebbi a definire gli «anni di fondazione». Gli anni Cinquanta.

Data di pubblicazione
06-08-2013
Revision
12-10-2015

Peppo Brivio e gli anni di fondazione

Di quanto siano «di fondazione» basta scorrere l’elenco, anno dopo anno, di ciò che fu allora costruito, dopo il prologo della biblioteca Cantonale di Lugano di Rino e Carlo Tami (1940).

Mi limito a pochi esempi. 1950: Franco Ponti e Peppo Brivio realizzano il quartiere a Ravecchia e Rino e Carlo Tami il deposito Usego a Bironico; 1952: Peppo Brivio la stazione della funivia Cardada a Orselina e Carlo e Rino Tami la casa d’appartamenti Solatia a Lugano; 1953: Rino e Carlo Tami il deposito Ofima a Avegno; 1955: Palazzo del Governo a Bellinzona di Bernasconi e Guidini; 1956: Peppo Brivio la casa Albairone a Massagno e Tita Carloni la casa di vacanza a Rovio e Giampiero Mina il cinema teatro di Acquarossa e la casa d’appartamenti a Massagno, mentre i fratelli Tami realizzano il Palazzo Corso a Lugano con la relativa sala del cinema; 1957: Mario Chiattone il Colombario al cimitero di Giubiasco e Alberto Camenzind e Bruno Brocchi la casa d’appartamenti La Panoramica a Massagno (sfigurata) e Tita Carloni l’albergo Arizona a Lugano (sfigurato) e Peppo Brivio la casa d’appartamenti Cate a Massagno; 1958: Camenzind e Brocchi il Ginnasio (oggi Scuola Media) di Bellinzona e Franco Ponti la casa unifamiliare a Vezia) e i fratelli Tami la casa Torre a Lugano; 1959: Alex Huber la casa unifamiliare a Viganello; 1960: Peppo Brivio la casa d’appartamenti Rosolaccio a Chiasso e Carloni e Camenisch il Palazzo Bianchi a Lugano e Augusto Jäggli la Società Bancaria Ticinese a Bellinzona e Dolf Schnebli la casa d’appartamenti in via Torricelli a Lugano. Straordinario, sono i capolavori del decennio di fondazione dell’architettura nel Ticino.

Peppo Brivio vi figura con tre opere. Se a queste si aggiungono le successive, in particolare nel 1963 Casa Corinna a Morbio Superiore, Casa Martinelli a Vacallo e la casa d’appartamenti Giuliana a Lugano, si hanno proprio quelle cinque architetture di Brivio che hanno segnato in modo formidabile quanto fu poi progettato nei decenni successivi.

Le tracce (profonde) dell’architettura di Brivio - la concisione espressiva dei progetti, la loro essenzialità (oggi si direbbe minimalismo), il rigore compositivo, l’articolazione dei volumi architettonici, l’importanza della struttura statica, il valore della parete, il pregio del cemento armato - si ritrovano negli edifici realizzati negli anni successivi da Angelo Andina, da Mario Campi e Franco Pessina, nell’architettura di Giancarlo Durisch, in quella di Luigi Snozzi, e molti altri.

Architetture declinate ovviamente in modi differenti, ma comunque caratterizzate da analoghe tensioni e obiettivi progettuali. E lo spazio di questa mia rubrica è troppo limitato per motivare in dettaglio queste comunanze e per approfondire ulteriormente questa lunga scia: anche se mi piacerebbe indagare quali tracce di Brivio - come i temi relativi all’importanza della struttura quale matrice del progetto - si ritrovano in opere anche più recenti, non da ultimo in quelle di Livio Vacchini.

Da queste mie brevi annotazioni risulta difficile comprendere perchè Peppo Brivio sia stato poi in parte emarginato, prima dai suoi colleghi, dopo da chi ha scritto e storicizzato l’architettura di allora. Occorre però anche aggiungere, per meglio inquadrare la sua persona, che Brivio ha un carattere che si può definire difficile, schivo da un lato, sarcastico dall’altro, introverso anche.

Un solitario se si vuole, ma con il quale, una volta superate certe barriere, non solo è affascinante parlare e discutere, ma si rimane colpiti della sua intelligenza, l’acume di analisi e di sintesi, la conoscenza dei fatti storici e evolutivi dell’architettura. E colpiti anche dalla sua conoscenza diretta delle opere che il Moderno ha realizzato, nelle Americhe fino in terra d’Africa, visitate in numerosi viaggi e documentate in migliaia di diapositive.

Ed è proprio affiancando questa profonda cultura ai suoi progetti che egli non solo ha segnato i due decenni degli anni Cinquanta e Sessanta in Ticino, ma si comprende perchè abbia così profondamente influenzato quanto accadde dopo.

Juliette Gréco

Una precisazione: definire Brivio un uomo solitario non significa che fosse un eremita. Perchè se si vuol conoscere e raccontare di lui e dei suoi giovani colleghi e della cerchia di intellettuali che allora si incrociavano, occorre ricordare che a quei tempi la giornata non si concludeva sbattendosi in poltrona a guardare la televisione (che ancora non esisteva), ma una volta deposta la matita la sera si prolungava negli interminabili aperitivi, e il dopocena scivolava nei bar e in buie cantine, generalmente con l’immancabile whisky in mano, ascoltando i primi dischi jazz e le canzoni di Juliette Gréco.

Con le parole e le discussioni che volavano in mille rivoli, frantumate in pettegolezzi e teoriche evoluzioni sui grandi sistemi, sull’esistenzialismo e Sartre e quant’altro. Tutti accaldati dentro rigorosi maglioni neri girocollo.

Il foglio quadrettato

Racconta chi ha lavorato nello studio di Brivio, che quando Peppo doveva iniziare un progetto si chiudeva per ore nel suo ufficio - se non per giorni - e da lì usciva con in mano un foglio quadrettato su cui aveva disegnato il progetto. L’intero progetto su quell’unico foglio, l’essenziale: le piante e le sezioni, le forme e le dimensioni degli spazi interni, la cadenza dei pilastri, la successione di travi e solette, la disposizione delle pareti, le aperture interne e quelle verso l’esterno.

Tutte quelle linee e quei punti tracciati sul foglio seguivano, quasi fossero attratti da una calamita, il singolo quadrato - il modulo primario - della quadrettatura del foglio, e le strutture statiche e le forme e le dimensioni e gli spazi architettonici che ne scaturivano erano la conseguenza tridimensionale di un’invenzione progettuale dettata da una regola che governava il tutto. Il quadrato appunto. La cadenza dei pilastri era nei punti neri a matita calcati all’incrocio dei moduli, le pareti erano una riga più grossa lunga quanto un numero preciso di quadrati, e così via.

Ogni segno di matita sul quel foglio, insomma, soggiaceva a una regola implacabile e il progetto era tutto lì, dentro un ostinato rigore razionale. Ma attenzione: questa razionalità era gestita da una tale complessità intellettuale che ciò che ne risultava - il progetto architettonico con i suoi spazi, forme, facciate, prese di luce e continuità spaziali - erano tutt’altro che elementari. Lo sforzo prodotto nelle ore solitarie dentro il suo ufficio permetteva a Brivio di condensare su quel foglio l’intera complessità dell’architettura e i suoi valori.

Occorre anche aggiungere che quel quadrato ripetuto centinaia di volte su un foglio quadrettato è sì una regola, ma è anche geometria. E il quadrato in questo senso è la figura più paradigmatica, è identico in tutti i lati, ha base e altezza uguali, è l’elemento fondante della geometria, perfetto: come il quadrato nero che Malevic dipinse nel 1915.

Un’architettura comprensibile

Mi preme un’ultima osservazione. Per Brivio, l’architettura ha anche un compito che potremmo definire sociale, nel senso che deve essere anche capita - e quindi se del caso apprezzata - da chi la abita, da chi la guarda, da tutti. Nell’antichità questa comprensione per l’architettura risiedeva nell’impiego di forme e strutture riconoscibili, cui l’uomo era abituato da secoli: come l’arco, la cupola, il muro intonacato o in mattoni a vista o in pietra, la finestra a riquadri, o come il caminetto nel soggiorno.

Espressione di una sola cultura insomma. Ma nell’architettura moderna? Come è possibile che tutti possano capirla (e apprezzarla) quando sono compresenti inediti materiali costruttivi e forme diversissime tra loro, e assente è una cultura univoca?

Per Brivio la risposta sta in due concetti. Il primo è che l’architettura deve essere leggibile. Costituita da forme comprensibili a tutti, semplici e elementari, fatta di poche cose, dove chiunque possa capire che un pilastro è un pilastro, un muro è un muro, e limpido sia il processo di montaggio dei diversi elementi.

L’edificio Albairone è in questo senso esemplare, basta guardare le facciate. Anche un bambino, aiutato dal cemento armato, individua pilastri e solette, l’alternanza dei pieni dei muri e dei buchi dei balconi, mentre le tre varianti di colore delle facciate gli fanno comprendere in quale parte dell’edificio si trova l’appartamento in cui abita.

Certo, questo obiettivo teso alla leggibilità dell’architettura rimanda al processo di scomposizione dovuto alle ricerche di van Doesburg e di Mondrian del periodo neoplastico, del De Stijl olandese - e i libri e diari scritti da entrambi sono espliciti - e rimanda pure a quel secondo concetto che Brivio adotta per far comprendere a tutti l’architettura: la geometria.

Perché proprio la geometria, con la sua logica e le sue forme pure, appartiene al linguaggio universale, è comprensibile da tutti. Un concetto che risale del resto a Mondrian stesso: da Pechino a New York al Ticino un quadrato rosso è da tutti percepito come un quadrato di colore rosso.

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