...ciò che è, sia niente di più e niente di meno, di cio che è...*
Intervista del 1982 a Roberto Bianconi
All’interno dell’agglomerato di Bellinzona spiccano tre edifici residenziali, non tanto per la stravaganza di materiali e forme, quanto, al contrario, per l’uso esclusivo di materiali il più possibile economici che riescono tuttavia a dare un’impressione di ricchezza: le loro forme suggeriscono un conflitto con la modernità senza per questo cadere nell’autocompiacimento che spesso l’accompagna. Heinrich Helfenstein ha avuto modo di conversare con l’architetto che ha progettato queste case d’abitazione, Roberto Bianconi.
Heinrich Helfenstein: I tuoi tre edifici di Bellinzona sono stati progettati e realizzati per conto dello stesso mandante. Quali condizioni e limitazioni aveva definito la committenza?
Roberto Bianconi: Le condizioni erano molto chiare: la committenza intendeva realizzare in tempi molto brevi un investimento proficuo e mi lasciò completamente libero di adottare gli strumenti costruttivi necessari. Dal lato degli investitori e delle autorità, non sono stato – come spesso succede – costretto a seguire i principi del «costruire bene» come sono concepiti qui da noi: netta scomposizione del corpo della costruzione attraverso una netta separazione degli elementi, grande alternanza dei materiali, armonia rispetto al paesaggio ecc.
La situazione corrente del mercato locale permetteva di considerare soltanto abitazioni economiche a prezzi che risultassero concorrenziali rispetto a quelli delle abitazioni sovvenzionate.
Queste condizioni definivano già in sé alcuni punti chiave per il progetto?
No. Ero agli inizi della mia attività professionale e dovevo per prima cosa prendere posizione nei confronti delle tendenze che al tempo andavano per la maggiore nell’architettura: vi erano fautori dei portici, altri propagandavano le maisonnette, sorgevano case a terrazzo e case in collina, le fioriere enormi apparivano come una rivelazione... si promuovevano gli «insediamenti abitativi con composizione mista» con ripartizione socio-funzionale: grattacieli per anziani e single, abitazioni di medie dimensioni per le giovani coppie e inoltre alcune case unifamiliari per le famiglie numerose... e tutto ciò «nel verde», nel totale disprezzo dello spazio urbano tramandato. Il verde ricopriva tutto: tetti, balconi, case. Luce, aria e verde costituivano gli aspetti fondanti del progetto e ciò ha dato il via al tipo di costruzione oggi tanto amata: il corpo della costruzione, fortemente scomposto, appare come se fosse stato immerso per settimane in una palude. Tutto ciò aveva l’intento - e lo ha tuttora - di «aiutare l’uomo» in modo social-tecnocratico.
Su cosa ti sei basato principalmente per il progetto?
Al tempo ero un sostenitore critico del «modernismo». Nell’assunzione e nell’utilizzo rigorosi del suo linguaggio formale purista intravedevo il modo di applicare la vera disciplina dell’architettura e di superare proprio la dottrina di salvezza social-tecnocratica. Più difficile fu superare la concezione dell’architetto quale mero soggetto produttivo e senza storia. L’insostenibilità di questo nuovo autocompiacimento tra gli architetti mi ha portato a rinunciare a inventare sempre e dappertutto qualcosa di nuovo. Nel rispetto delle forme delle modernità, nel progetto furono integrati motivi radicati in modo univoco in certe tradizioni: ad esempio la chiarezza della geometria del corpo della costruzione, la veranda, la realizzazione di un ingresso marcato e messo in evidenza.
E dire che oggi «tradizione» è la parola chiave sulla bocca di tutti...
A questo riguardo vorrei sottolineare la situazione fondamentale: oggi si ricorre a motivi tradizionali, ma contemporaneamente e soprattutto a forme tradizionali, probabilmente nell’intento di nascondere il vuoto di significati dei moderni corpi delle costruzioni. Nel mio progetto, per il quale ho adottato dei motivi tradizionali, si sviluppa una discrepanza tra il purismo delle forme, estremo per la realtà locale, e la tradizione. L’origine dei temi non deve per forza essere locale: il motivo della veranda richiama i balconi in ghisa delle case di mattoni del XIX secolo, ma si può ritrovare anche negli edifici in legno delle aree alpine o negli edifici coloniali.
Tutto questo non ha avuto tuttavia soltanto lo scopo di nascondere una mancanza di forza inventiva: lavorare con motivi tradizionali rievoca immagini di concetti che possono essere afferrati proprio dalla dimensione spirituale dell’architettura da progettare. Quindi si è cercato con i mezzi limitati (finanziari e formali) a disposizione di conferire alle abitazioni la massima grandiosità (il vero lusso in senso architettonico) sfruttando le qualità della luce e dello spazio. Ad esempio, l’uscire dalla parte dell’abitazione in muratura nella zona della veranda pervasa dalla luce consente agli abitanti di fare esperienza di due dimensioni e qualità dello spazio differenti.
L’inclusione del motivo tradizionale e il suo raffronto evidente con il blocco in muratura sono stati un mezzo per superare l’ingenuità che si constatava ovunque nell’edilizia residenziale.
Parliamo dei materiali. Osservando i tre edifici risalta il fatto che un materiale molto convenzionale, scevro da qualsiasi significato particolare, possa a volte essere utilizzato in modo del tutto insolito. Sembra trasparire una certa preferenza per la lamiera ondulata...
La lamiera ondulata di alluminio è un materiale molto economico. Per me è adatta a molti scopi: la uso per portoni di garage, rivestimenti di zoccoli e pensiline. Nelle costruzioni industriali si possono osservare frequentemente le superfici lucenti color argento della lamiera ondulata, che spesso si contraddistinguono per un’eleganza unica. Io le attribuisco un valore estetico.
Un basamento dell’edificio in lamiera ondulata ha in sé qualcosa di incongruente.
Per quanto riguarda la piccola casa d’abitazione di via San Gottardo, l’ho collocata su quattro pilastri, in modo da ricavarne una facciata vetrata per i negozi, conformemente a certe soluzioni moderniste. Per il terzo blocco, quest’esigenza non c’era e mi è sembrata ovvia la soluzione con una parte del basamento.
L’eliminazione del basamento in favore della «visione libera» e della continuità del «paesaggio» – una soluzione così spesso insegnata e praticata nell’architettura moderna – ha implicato anche una radicale dissoluzione dello spazio cittadino. L’elemento «monumentale» è stato rimosso dall’urbanistica.
Il basamento invece, oltre ad adempiere a determinate funzioni di rappresentanza, sottolinea l’articolato spazio cittadino e il carattere monumentale del corpo della costruzione. Tuttavia, per me, non si è trattato soltanto della letterale ripresa di un motivo tradizionale, bensì, come nel caso della veranda, di una traduzione «a distanza» del motivo storico nel particolare linguaggio formale. Lo zoccolo in lamiera ondulata trasmette un senso di morbidezza.
Ironia nella costruzione?
Sì certo, anche. Pure nella veranda della piccola casa d’abitazione di via San Gottardo, che presenta un taglio obliquo e dove i «fortunati» abitanti soggiornano ostentatamente all’aria «fresca», si nota una certa ironia. Nell’interpretazione dei temi storici mediante forme libere, il momento dell’«invenzione formale» assume un significato nuovo che può essere definito dall’autore. Questo processo, tuttavia, fa nascere in me alcune perplessità: strapazzare spudoratamente questo momento – disconoscendo i temi storici – determina, come si può riscontrare dappertutto, la scomposizione del prezioso corpo costruttivo e urbanistico tramandato, soprattutto se ciò si combina con una sopravvalutazione personale o con una sopravvalutazione dell’elemento «personale».
Questo atteggiamento così «creativo» si ripercuote poi sull’architettura e sulla città in modo tanto distruttivo quanto la dottrina di salvezza architettonica di cui parlavo all’inizio. L’ironia si è trasformata in tragedia. In pratica, l’architettura è scomparsa dall’attuale panorama della costruzione.
Per l’espressione formale di motivi in parte tradizionali, mi sono rifatto consapevolmente al linguaggio formale del modernismo, poiché in quelle forme riconosco la grande potenza di questo movimento. Il suo essere intenzionalmente scarno, la sua espressione lapidaria e il suo limitarsi a un numero ristretto di elementi consente di andare oltre la comodità, l’ingenuità e la stupidità delle costruzioni attuali.
In questo linguaggio architettonico io riconosco la solennità che emana da un semplice tavolo coperto di bianco. Cercavo un’espressione equivalente a un atteggiamento spirituale, che rendesse possibile una sublimazione.
I progetti delle case d’abitazione di Bellinzona risalgono ormai a quasi dieci anni fa; nel frattempo i paradigmi sono molto cambiati, almeno a livello delle riviste. Come valuti oggi, osservandola da questa mutata situazione, la tua esperienza di progetto di allora?
Oggi mi trovo a prendere atto di una marcata generalizzazione di aspetti parziali, non integrati in un tutto: questo rende qualcuno un po’ naif e tutto il mondo gli appare soltanto come se lo guardasse con gli occhi di un bambino di tre anni. Qualcun altro conosce soltanto la tecnologia dei trasporti e la mobilità, la tavola rotonda democratica svilisce qualsiasi qualità. La psicologia corrode qualsiasi disciplina: la psicologia opera con un’umanità ridotta, pur sembrando ancora soltanto in una fase acerba... Ho l’impressione che queste volgarizzazioni delle conoscenze scientifiche prendano sempre più il sopravvento e pervadano la coscienza di sé. Caratteristico di questa situazione è l’attacco a tutte le istituzioni in nome della «nuova» umanità, che prontamente si trasforma nel suo esatto contrario. Con queste riflessioni permanenti e pertanto con la costrizione al cambiamento, la trasmissione di valori diventa impossibile. Con tutta questa «democrazia» i valori esistenti vengono «smascherati». Di fronte a ciò io non vedo nessuna forza concreta che possa riuscire a dar nuovamente vita all’architettura come a una vera disciplina. Tuttavia, è soltanto un’architettura valida a realizzare valori vincolanti e comprensibili per tutti.
A questo riguardo, per me è importante un aspetto della mia passata esperienza: grazie al confronto con il «modernismo», con l’applicazione di forme pure, ho potuto trovare un atteggiamento definito in modo univoco. Mi importa che ciò che è sia niente di più e niente di meno di ciò che è. Non ho voluto salvare persone, né educare bambini.
Senza perdere in univocità e chiarezza, oggi tenterei inoltre di reintrodurre con mezzi formali e motivi l’elemento rappresentativo come espressione di un atteggiamento: momenti rappresentativi all’interno di un edificio, per gli abitanti, e momenti rappresentativi all’esterno, per la popolazione.
Rappresentazione nel senso della tovaglia bianca?
Si può cercare di spiegarlo con questa immagine, anche se a queste latitudini forse non può capirla nessuno: l’immagine di uno spazio chiaro e disadorno con semplici sedie e un tavolo ricoperto di bianco trasmette solennità anche nella vita quotidiana. Questa rappresentazione caratterizza un atteggiamento spirituale e si tratta sì di un atteggiamento di sublimazione ma il banchetto può essere ricco, abbondante, opulento. Solo qui prende il via una certa umanità.
Note
* « … dass das, was ist, nicht mehr und nicht weniger ist, als was es ist», Gespräch über drei Wohnhäuser von Roberto Bianconi in Bellinzona, 1965-72, in «Archithese», 6, 1982, pp. 1-8