Au­to­fo­cus – Pi­no Mu­si

Fotografia d'architettura nella Svizzera italiana

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Data di pubblicazione
15-04-2020

Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d'architettura? 
Fin da ragazzo le mie due grandi passioni sono state il teatro e la fotografia. Poi casualmente, agli inizi degli anni Ottanta, incontrai l’architetto ticinese Mario Botta durante un convegno al quale era stato invitato e da quel momento, grazie alla fiducia e disponibilità che Mario mise nelle mie possibilità espressive, cominciò a formarsi in me un interesse per l’architettura e per le questioni collegate all’interpretazione dello spazio, che poi si è sviluppato ed evoluto nel tempo.

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
La mia formazione ed attività di fotografo è legata allo studio e alla ricerca, è sempre in divenire. Questa mobilità intellettuale costante è la chiave del mio percorso espressivo. Voglio dire che non mi sono mai sentito un fotografo “di genere” (l’architettura in questo caso), il cantore dell’opera dell’architetto, ma qualcuno a cui interessa l’attraversamento delle discipline, dei temi, il confronto fra i linguaggi, l’apertura alla sperimentazione e non la chiusura su un modello funzionante, su una ripetitività di stile e di approccio. Le possibilità interpretative delle opere d’architettura attraverso la fotografia devono intersecarsi con meccanismi di scambio fra i vari linguaggi della comunicazione e dell’arte, devono essere filtrate dai flussi di idee che si vengono a creare fra le figure che operano nell’ambito delle diverse discipline, non sulla base di un mero asservimento dell’immagine fotografica a funzione “illustrativa”, accondiscendente, ripetitiva. Questo modo di porsi può essere reputato poco furbo in termini professionali, ma è fortemente accrescente sul piano della qualità generale di quello che si produce. Citando Sir Norman Foster: «Quality is an attitude of mind».

Con quali architetti ha collaborato più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Certamente con Mario Botta. Io del Sud Italia, lui ticinese, io, al momento del nostro incontro, neofita dell’architettura, lui architetto già molto affermato. Sembrava un rapporto impossibile e pure è durato più di vent’anni. Da lui ho appreso il rispetto per quello che si fa, la caparbietà, il metodo, l’onestà. Sul piano umano Mario era ed è una persona eccezionale, come poche che ho incontrato. Poi la mia strada ha preso altre direzioni, differenti traiettorie. Io ora vivo a Parigi ed i miei interessi vanno anche al di là della sola fotografia, mi interessa molto la “macchina” libro, come pensare la fotografia dentro di essa, come costruirla.
Aneddoti in particolare non ne ho, le sfumature umane le tengo per me, ma di Botta ricordo una certa fissa per la simmetria e per l’utilizzo nelle fotografie d’architettura della luce vibrante, quella del sole. La prima era di difficile compatibilità con la mia indole mediterranea, la seconda più assimilabile.

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
L’edificio è un “corpo”. Un corpo vive e palpita in funzione di altri corpi e nelle sue dinamiche di relazione. Per me l’architettura non è (tanto) scienza del costruire e neppure ipotesi sull’abitare, ma scrittura dello spazio in cui la forma progettata è condizione di ogni legittima invenzione di vita. In molte occasioni mi sono confrontato con il tessuto urbano e la scelta è sempre stata quella di costruire un discorso che, evitando ogni tentazione narrativa, restituisse, per analogia e per contrasto, innanzitutto il ritmo della città, la sua polifonia, che è fatta di singole e inconfondibili voci e ancor più di ricorsive consonanze, di “sintonie”.

Ciò che per me è importante è la tensione che la fotografia deve rendere evidente, l’inquietudine di una prospettiva inattesa. La fotografia, in rapporto all’architettura, si evolve in un itinerario mai concluso di forme, dove ogni singolo progetto è tappa e ripartenza.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni? 
La parete dell’interno della cella di Totò Riina nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara, fotografia realizzata nel 2019 per il mio ultimo libro dal titolo Sottotraccia, edito da Punctum Press. È forse l’immagine dal potere iconico più forte che abbia mai prodotto. Questa foto mi fa riflettere su quanto può cambiare l'umore di un luogo in rapporto alla condizione di chi lo fruisce.

Quello che mi ha colpito è stata l'organizzazione di quella parete. Non avrei mai fotografato quel luogo, in quanto cella di Riina, senza quell'apparizione. Non mi interessava una possibile valenza documentaria, ma la forte valenza evocativa. Quella parete è stata sì progettata per condannare alla miseria della reclusione, con l'impossibilità di qualsivoglia apertura all'esterno, uno dei criminali più sanguinari della storia, ma, paradossalmente, nella disposizione dei suoi elementi e con il suo radicale minimalismo potrebbe trapiantarsi tranquillamente in un museo di arte contemporanea e, come installazione, essere acclamata dalla critica. Si è dichiarata nella mia mente e davanti ai miei occhi un'opera di Donald Judd con l'innesto di una finestra della Chapelle Notre-Dame du Haut di Le Corbusier. 

Il lavoro fotografico di Pino Musi ha intersecato molteplici aree d'interesse come l'antropologia, l'architettura, l'archeologia o, ancora, la produzione industriale. La sua ricerca sulla forma trova il miglior mezzo espressivo nella cura di libri. Sono circa venticinque i volumi pubblicati, e varie le esposizioni, tra cui si ricordano Rivelazioni della Forma. Le origini dell'Italia nelle fotografie di Pino Musi al Museo dell'Ara Pacis di Roma nel 2012 e, sempre in quell’anno, Facecity scroll alla Biennale Architettura di Venezia. Le opere di Pino Musi sono presenti in collezioni private e pubbliche, tra cui la Fondazione Rolla, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la Fondazione Fotografia di Modena, il FRAC (Fonds régional d'art contemporain) Bretagne.

 

www.pinomusi.com | www.musi-um.info 

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