Ar­chi­tet­tu­re del­la mor­te e vi­ta del­l'ar­chi­tet­tu­ra

Architettura funebre tra trasformazione e rinascita.

Data di pubblicazione
14-10-2013
Revision
12-10-2015
Marco Biraghi
Docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano e presso la Facoltà di Arti, Design e Spettacolo dello IULM di Milano

Nel corso del secolo conclusosi da poco più di un decennio nel mondo si è costruito come mai probabilmente era stato fatto in tutte le epoche precedenti. E il secolo in cui ora ci troviamo promette di superare sotto questo profilo il suo predecessore. In questo arco di tempo la produzione dell’architettura ha subìto una profonda ed essenziale trasformazione (benché naturalmente i prodromi di tale trasformazione abbiano origini assai più lontane): in modo evidentemente non disgiunto dal raggiungimento di un livello di sovrapproduzione, l’architettura – al pari di moltissime altre «cose» – è divenuta un prodotto

A differenza delle non molte «cose» ancora residue nelle moderne società industrializzate, i prodotti non esistono di per sé: esistono esclusivamente in vista del loro essere utili. Una condizione servile non soltanto se valutata nella prospettiva dell’uso ma anche – e soprattutto – in quella del consumo. I prodotti infatti sono prodotti per essere consumati. E ciò tanto più dopo «la fine della produzione» e l’instaurarsi di un’«economia politica del segno», come sostiene Jean Baudrillard,1 in cui la «consumazione» avviene prevalentemente sul piano dell’immagine. 

Solo a una superficiale apparenza l’architettura è sempre stata un prodotto. A dispetto della sua palese utilità, da un punto di vista concettuale come da un punto di vista procedurale, l’architettura ha conservato a lungo il proprio carattere di (almeno parziale) indipendenza dai meccanismi della semplice «produzione». Soltanto a partire da un tempo relativamente recente ma comunque precedente il periodo sopra indicato, il modo di pensare e di realizzare l’architettura è stato progressivamente assimilato ai modi di produzione di qualsiasi altro oggetto: dove la questione funzionale risulta centrale, e dove la componente estetica affianca quella pratica non più per ragioni interne (ma anche sociali) di «ordine»,2 bensì al fine esclusivo di aumentarne l’appeal, e dunque la «vendibilità», anche e soprattutto virtuale.

Si tratta ovviamente di processi complessi, che hanno avuto una lunga incubazione e un lento sviluppo, salvo conoscere in alcuni momenti accelerazioni improvvise. Ma il loro esito fondamentale è consistito nel condurre l’architettura alla condizione attuale: condizione di proliferazione addirittura ipertrofica, da un lato, ma anche di estrema svalutazione, dall’altro. Una complessiva condizione di reificazione di cui – al di là delle pur imprevedibili evoluzioni che potrà subire – è difficilmente pensabile che essa riesca a liberarsi in futuro.

I riflessi di tale reificazione sono consistenti e in larga misura sotto gli occhi di tutti. Sempre più raramente l’architettura riesce a farsi portatrice di valori in grado di trascendere gli scopi immediati per la quale è realizzata; e sempre minore è la possibilità per essa di una identificazione collettiva. Ciò ha come conseguenza il crescente isterilirsi di qualunque «discorso» relativo all’architettura – ne sia essa la protagonista o piuttosto l’oggetto. Le idee che mette in circolazione e le considerazioni che suscita l’architettura in quanto oggetto reificato – in quanto prodotto –, non vanno spesso oltre la mera ostensione, banalmente tautologica, di ciò da cui è costituita in termini di materiali, di componenti, di rivestimenti, al più di spazi. Qualunque contatto con significati ulteriori sembrano esserle ormai preclusi.

Legame tra sacro e architettura

A guardar bene, la reificazione cui va soggetta l’architettura da ormai oltre un secolo (ma in realtà – come già detto – anche da prima) potrebbe essere intesa altrimenti come una secolarizzazione, se non addirittura come una desacralizzazione. Nella sempre più debole autogiustificazione concettuale che l’architettura odierna fornisce di sé è completamente scomparsa ogni traccia delle radici storiche che – alle origini – la legavano al sacro e conseguentemente alla morte. Come qualcosa di cui vergognarsi, il «discorso» della e sull’architettura ha semplicemente rimosso tale essenziale legame.

Tale implicazione con il sacro e con la morte – allorché è riconosciuta – lo è esclusivamente in un senso tematico e tipologico: 3 nell’architettura religiosa e in quella funebre, concepite anch’esse come «funzioni» specifiche all’interno della più generale tendenza alla funzionalizzazione dell’architettura. Ma né l’una né l’altra possono essere correttamente intese entro la limitazione che è loro imposta dal modo di pensare l’architettura (così come tutto il resto) da parte della mentalità contemporanea. Ben lungi dal poter essere confinate in un ambito settoriale, il sacro e la morte rappresentano il fulcro intorno a cui ruota non soltanto il senso originario dell’architettura, ma addirittura il senso stesso del processo di civilizzazione umana.

Come ha persuasivamente dimostrato René Girard nei suoi studi sull’antropologia sacrificale, è a partire dalla tomba che si è venuta formando la civiltà in tutte le sue articolazioni e istituzioni: «È sempre come tomba che si elabora la cultura. La tomba non è altro che il primo monumento umano eretto intorno alla vittima espiatoria, la culla primigenia delle significazioni, quella più elementare e fondamentale. Non c’è cultura senza tomba, non c’è tomba senza cultura: la tomba è al limite il primo e l’unico simbolo culturale.»4 

Prima e più di qualsiasi altro tipo di costruzione artificiale, la tomba (in qualunque forma si presenti) segna la fondamentale differenza tra il genere umano e tutte le altre specie animali: se l’istinto a crearsi un riparo può infatti – almeno in parte – accomunarli, è la capacità di «oggettivare» l’evento della morte ciò che li distingue nel modo più netto e radicale. Per gli uomini la morte non è mai «naturale»: rappresenta sempre qualcosa di inspiegabile e misterioso, capace di compattare la comunità umana attraverso il culto dei morti e la loro trasformazione in divinità.5

Per questa ragione, nelle testimonianze archeologiche pervenuteci da ogni angolo del mondo, alle origini stesse dell’atto costruttivo, tutto parla della morte, e non le tombe soltanto: i templi, che secondo Clemente Alessandrino «sono chiamati templi in maniera eufemistica, ma in realtà erano sepolcri»;6 gli altari, «epicentro» sacrificale del tempio, che in quasi tutte le culture erano pietre sepolcrali o sarcofagi; le stesse abitazioni, che insieme alle attività degli uomini ospitavano spesso anche le salme dei defunti ed erano il luogo dei culti domestici. E lo stesso si potrebbe dire anche di edifici più evoluti e a destinazioni d’uso differenti, quali il teatro greco o la basilica romana: luoghi in cui – rispettivamente – la rappresentazione scenica e l’amministrazione della giustizia erano concepite nella loro profonda immersione nella dimensione sacrale, ovvero in strettissima connessione con il sacrificio e con la morte.7 Nella prospettiva originaria alla quale appartengono, insomma, tutte le architetture sono sacre.

Le tombe

Agli altri edifici connaturatamente sacri si affianca la tomba, in tutte le sue configurazioni possibili, come un imprescindibile complemento. Con variazioni anche molto rilevanti in relazione alle credenze religiose a cui si riferiscono, le tombe – almeno fino all’epoca pre-cristiana – hanno avuto non soltanto il ruolo di custodire le spoglie del defunto, rendendone possibile il culto, ma anche quello di ospitarne la «vita» dopo il decesso. In questo senso, dalle piramidi egizie agli tholoi etruschi, la tomba è un indispensabile mezzo per «eternare» la vita dei morti. È negli spazi di questa «casa» che il defunto dovrà trascorrere la sua nuova esistenza, in una condizione che lo mantenga il più possibile incorrotto ma anche che lo aiuti a superare gli ostacoli che è destinato a incontrare nel suo difficile viaggio,8 o ancora che ne allieti il soggiorno (a ciò erano finalizzati i cibi predisposti al consumo e gli affreschi dipinti sulle pareti). 

Se tuttavia, anche nelle sue sembianze più fastose e monumentali, la tomba è concepita innanzitutto a beneficio del morto, i medesimi caratteri rivestono altrettanta importanza nella prospettiva dei vivi.9 La tomba, in questo senso, perde – o riduce – le proprie «funzioni» più strettamente utilitarie (accoglienza, comodità, protezione) per assumerne altre più simboliche e mediate.

La stessa concezione cristiana della morte come attesa della risurrezione, del resto, priva il luogo di sepoltura di qualsiasi importanza dal punto di vista della sua fungibilità, facendone piuttosto una sede provvisoria, il cui aspetto fisico (spesso anche estremamente lussuoso) ha una rilevanza solo a fini devozionali, ovvero di ricordo e di preghiera. Quel che conta davvero per il cristianesimo, infatti, è la Gerusalemme celeste, non la Gerusalemme terrena. Alla luce di ciò, le immagini funebri cessano di avere valore in sé, connotandosi invece come memento mori, come segno tangibile della peribilità del corpo, della natura transeunte della vita terrena, della ineludibile vanitas cui soggiace il mondano.

Le tombe e i cimiteri nei quali sono inserite, d’altronde, si fanno portatori pure di un messaggio di pace e di speranza, i cui destinatari sono evidentemente i viventi. L’architettura della morte, esaurito il suo effetto di compattamento della comunità per mezzo del sacrificio, assume agli occhi dei fedeli un ruolo consolatorio.

Cimiteri come città

È in questa versione ortodossamente religiosa che l’architettura funebre ha trovato il suo posto nella storia delle società, soprattutto occidentali.10 Ed è altrettanto in questa versione che essa ha finito per «settorializzarsi», arrivando a costituire un ambito specifico. I motivi igienici e di spazio che determinano il trasferimento delle sepolture dall’interno delle chiese e dal loro intorno a terreni esterni alla cerchia delle mura urbane e in zone periferiche vanno di pari passo alla progressiva secolarizzazione dei luoghi mortuari.

Pur non perdendo il loro carattere eminentemente religioso, i cimiteri tendono ad assomigliare sempre di più alle città ai margini delle quali sono situati. Nelle necropoli metropolitane la morte diventa assai più un fatto di massa di quanto non risulti un destino individuale. Ed è in questa stessa prospettiva che la realtà della morte – e conseguentemente le sue architetture – iniziano a subire una rimozione collettiva. Il più generalizzato processo di secolarizzazione delle moderne società industrializzate trova la sua esatta rispondenza nella marginalizzazione dei luoghi di sepoltura. L’identificazione del funebre con il religioso equivale a un condivisione del loro declino. 

Essenza dell'architettura funebre

Desacralizzata l’architettura e marginalizzato il funebre, quale ruolo rimane per l’architettura funebre nel mondo contemporaneo, al di là di quanto essa può continuare a rappresentare in termini individuali? È nella condizione di massimo «pericolo», al culmine dell’apparente perdita di ogni rilevanza, che le architetture della morte sono forse in grado di ritrovare una ragion d’essere sociale, e non soltanto personale. È il discorso condotto da Adolf Loos all’inizio del secolo scorso, proprio in concomitanza con il manifestarsi del declinare del senso del funebre: «Soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal mondo dell’arte.»11

Se l’essere al servizio di uno scopo estromette automaticamente l’architettura dal regno dell’arte, l’appartenere a quest’ultimo non aliena l’architettura a se stessa: anzi, in una certa misura, la rinforza, purificandola. Una purificazione, tuttavia, che può avvenire soltanto in «presenza» di quel limite estremo – di quella lacerazione, di quello «strappo» definitivo – che è la morte. Soltanto al cospetto di essa, e a costo di essa, allorché se ne abbia la capacità e la forza, può prodursi il miracoloso evento dell’arte: ovvero, non semplicemente un’architettura più «artistica», bensì un’architettura che sia architettura nel senso più pieno.

È questa pienezza a cui alludono le celebri parole di Loos, che seguono di poco quelle appena citate: «Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura».12 Dinanzi al tumulo che si disvela improvviso – imprevisto! – dal fitto del bosco, ciò di cui facciamo esperienza non è una semplice «funzione»: piuttosto – unitamente al destino dell’uomo e di tutto ciò che è vivente – è l’architettura stessa nella sua essenza.

Essenza dell’architettura non è essere utile: è dare materia-e-memoria al destino dell’uomo su questa terra. Ed è un destino sempre necessariamente tragico. Tragica – perché destinata presto o tardi a uscirne sconfitta – è la lotta dell’architettura contro la forza di gravità, contro le condizioni climatiche, contro la consunzione del tempo, contro la natura stessa cui essa per principio si contrappone; esattamente come tragica – e dunque perdente – è la battaglia ingaggiata dall’uomo contro il tempo e contro la morte.

L'arte nell'architettura della morte

Lotta tragica, quella dell’architettura, ma non per questo priva di senso: è nella sua disperata opera di resistenza contro tutte le difficoltà e avversità, infatti, che essa assurge a eloquente testimonianza della propria essenza mortale, del proprio provvisorio consistere – e con essi di quelli dell’uomo. E ciò ha luogo tanto più nelle architetture dedicate alla morte, in cui la tragicità di tale comune destino ancor più duramente si lascia toccare con mano. È in un ristretto ma significativo numero di queste, dunque, che il «discorso» dell’architettura sembra poter ritrovare il vigore e la persuasività perduti nel corso del tempo.

Nella nuda elementarità del nero cubo di granito, gradonato alla sommità, del progetto per il mausoleo per Max Dvorák (1921) di Loos, così come del cubo perfetto della tomba dello stesso Loos a Vienna (1931-58); nel teorema geometrico intarsiato nelle facciate del Crematorio di Hagen (1905-08) di Peter Behrens; nelle candide forme fiammeggianti del Crematorio di Vienna (1921-22) di Clemens Holzmeister, per fare solo qualche esempio, l’architettura non si limita a compiere «azioni» attinenti alla morte ma, con caparbia volontà e senza trionfalismi, si fa simbolo concreto di un esistere fragile, problematico, e tuttavia possibile. Di un esistere nonostante tutto.

E ancora: della serena espressione dell’ineluttabile fallimento mondano si fa portatrice, in modo niente affatto dolente – e anzi, paradossalmente lieve – la Cappella nel bosco (1918-20) di Erik Gunnar Asplund, nel Cimitero sud di Enskede, a Stoccolma. Mediante la sistematica «inversione delle qualità» materiali e tonali (nella parte superiore, lo scuro, lo scabro, il pesante dell’imponente «coperchio» della copertura del tetto a falde rivestito di scandole di legno; nella parte inferiore, il chiaro, il liscio, il leggero del porticato di dodici colonne lignee e dei muri che custodiscono lo spazio quadrato della cappella funeraria), la Cappella nel bosco umanizza – e con ciò rende realmente universali – i valori improntati alla trascendenza divina del classico. 

Del tutto all’opposto, la monumentale Tomba Brion (1969-78) di Carlo Scarpa, a San Vito d’Altivole, Treviso, parla un linguaggio singolare, pressoché unico e difficilmente ripetibile; un linguaggio ricco di sfumature, di sfaccettature, di dettagli. Più che una semplice sepoltura, si tratta di un complesso itinerario iniziatico che congiunge naturalmente, in modo non retorico o vuotamente consolatorio, la vita e la morte.

Attraversando un passaggio coperto nelle cui pareti in calcestruzzo a risega sono confitte scintillanti tessere musive ed è intagliata una simbolica apertura ad anelli intrecciati, si giunge ai sarcofagi dei coniugi Brion, disposti al di sotto di un massiccio «arcosolio», forma arcuata che evoca le sepolture dei primi cristiani; collegati mediante percorsi meandrici tracciati nel terreno delimitato da un muro di recinzione inclinato verso l’interno, gli altri spazi – l’edicola con le tombe dei familiari, la cappella-tempietto e il padiglione della meditazione (questi ultimi due circondati dall’acqua) – presentano con rattenuto compiacimento una molteplicità di dispositivi decorativi, formali e spaziali il cui contenuto ultimo è sempre comunque l’evocazione dell’immanenza delle «cose» del mondo, il loro essere questa materia, questo colore, questo raggio di luce – unica «certezza» che può pur provvisoriamente donare chi costruisce.

Non soltanto l’architettura, ai suoi limiti estremi, può ritrovare, a tratti, la grazia della «parola piena»: anche le parole a suo riguardo, al cospetto dei medesimi limiti, possono tornare ad attingere come a un luogo di rinnovata pienezza, in grado di conferire loro un’intensità ormai sconosciuta altrimenti. Di fronte all’architettura della morte non soltanto «ci facciamo seri», come scrive Loos, ma «qualcosa» parla dentro di noi, ci suggerisce parole.13 Specchio fedele della «debolezza», ma al tempo stesso della definitività delle «funzioni» che ospitano le architetture della morte, le parole da esse ispirate, nella generalizzata condizione contemporanea di insensatezza e di proliferazione dell’irrilevante, forniscono la possibilità di riattingere alla dimensione del senso. E non sarebbe forse il più inverosimile dei paradossi se l’architettura funebre si rivelasse, infine, una fonte di vita per l’architettura.

Bibliografia

  1. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. Inoltre cfr. Id., Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta 1974.
  2. Su ciò rimando al mio Delle cose nascoste nell’architettura sin dalla sua fondazione, introduzione all’edizione italiana di G. Hersey, Il significato nascosto dell’architettura classica, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. VII-XXXII. Sul tema (sia pur non riferito direttamente all’architettura), cfr. anche A. K. Coomaraswamy, L’ornamento, in Id., Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, Milano 1987, pp. 187-200. 
  3. Cfr. tra gli altri R. Aloi, Architettura funeraria moderna. Architettura monumentale, crematori, cimiteri, edicole, cappelle, tombe, stelle, decorazione, Hoepli, Milano 1941; M. Ragon, Lo spazio della morte. Saggio sull’architettura, la decorazione e l’urbanistica funeraria, Guida, Napoli 1986; D. Robinson, Beautiful death. Art of the cementery, Penguin studio, New York 1996. Interessante sul tema è anche Lotus funebre, numero monografico di «Lotus International», 38, 1983.
  4. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, pp. 108-109. Dello stesso autore cfr. anche La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 e Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987.
  5. Cfr. tra gli altri G. Allen, The Evolution of the Idea of God, The Book Tree, Escondido 1997.
  6. Clemente Alessandrino, Protreptico, 3, 44, 3 (trad. it. Borla, Roma 1991, p. 88).
  7. Oltre ai già citati studi di Girard, sull’origine religiosa del teatro si veda Lo spettacolo sacro, a cura di A. Magli, Guanda, Parma 1964.
  8. Cfr. B. De Rachewiltz, Il libro dei morti degli antichi Egizi, Edizioni Mediterranee, Roma 1992.
  9. Esclusivamente in quest’ultima prospettiva legge il rapporto tra architettura e morte G. Pigafetta, La più vuota delle immagini. Arte e figure della morte, Bollati Boringhieri, Torino 2011. 
  10. Cfr. Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente. Dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano 1978.
  11. A. Loos, Architettura (1910), in Id., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, p. 254.
  12. Ibidem, p. 255.
  13. Si veda al proposito il bel libro di G. Marcenaro, Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie, Bruno Mondadori, Milano 2008.

 

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