Le coo­pe­ra­ti­ve di abi­ta­zio­ne in Sviz­ze­ra e la ri­cer­ca mo­der­na del­l'in­no­va­zio­ne

La storia delle cooperative di alloggi in Svizzera è costellata di momenti significativi in cui i soci delle cooperative e gli architetti hanno collaborato strettamente per la progettazione di nuove configurazioni dello spazio domestico, giudicate innovative rispetto alle tradizionali e consolidate pratiche sociali e familiari. Spesso questi momenti forti sono stati all’insegna del confronto di idee e opinioni contrastanti, in sintonia con le questioni poste dalle varie epoche, che rendiamo qui esplicite e su cui ci soffermeremo.

Data di pubblicazione
21-02-2018
Revision
21-02-2018
Bruno Marchand
Architetto, professore di Critica e Teoria dell'Architettura al Politecnico Federale di Losanna (EPFL)

«Cucina-laboratorio» o cucina abitabile?

Bisogna adottare delle cucine dove si può mangiare, abitabili, o delle cucine di piccole dimensioni, separate dagli spazi comuni, che servano in sostanza solo alla preparazione dei pasti? Su tale quesito si sono manifestate opinioni diametralmente opposte durante il Congrès de la normalisation, organizzato dall’Union Suisse pour l’Amélioration du Logement (USAL) a Losanna nel 1920, quando la sezione romanda raccomandava «l’istallazione di cucine che servano da locale comune per la famiglia», mentre il rapporto di Ginevra poneva «come condizione che la cucina sia separata dallo spazio comune e che serva solo alla preparazione dei pasti».1

Le riflessioni sulla cucina sono al centro dei dibattiti sull’alloggio che hanno luogo tra le due guerre. Verso la fine della prima guerra mondiale gli architetti, nell’affrontare le condizioni insostenibili d’abitabilità delle classi meno abbienti nei tuguri di centro-città – igiene deplorevole, sovraffollamento in un unico ambiente, promiscuità ecc. –, si orientano verso il concetto di una nuova tipologia di alloggio collettivo, igienico e razionale, secondo un’analogia sorprendente con lo spazio del lavoro: «Trasferiamo all’organizzazione del lavoro domestico i principi di economia relativi al lavoro e alla direzione d’impresa, l’applicazione dei quali alla fabbrica e all’ufficio ha condotto a un aumento di rendimento inaspettato».2

Si può supporre che, negli anni Venti e Trenta, l’organizzazione del lavoro domestico riguardasse soprattutto le donne di cui Walter Gropius proclama il risveglio e l’autonomia crescente nella società: «Con la scomparsa di numerosi lavori domestici che la famiglia ha ceduto alla produzione sociale, i compiti della donna diminuiscono e la stessa cerca ormai di soddisfare il suo bisogno naturale di attività al di fuori della famiglia. Entra nella vita professionale. L’economia, cui l’avvento della macchina ha fornito una base fondamentalmente nuova, mostra alla donna il carattere irrazionale del suo lavoro domestico».3

Per la «donna pratica», dunque, la razionalità del lavoro domestico passa per forza di cose attraverso il perfezionamento dell’allestimento della cucina, trasformata in un vero laboratorio, secondo l’immagine del modello di Francoforte disegnato dalla viennese Margarete Schütte-Lihotzky. Di superficie ridotta, separata dal soggiorno per mezzo di una porta vetrata, completamente attrezzata e rivestita di materiali facili da pulire come quelli cromati e quelli ceramici, la cucina di Francoforte risponde non solo a esigenze igieniche, ma sopprime a priori i movimenti inutili e faticosi. 

Maurice Braillard appartiene agli adepti della «cucina-laboratorio». Nella Cité-Vieusseux (1928-1932), una Siedlung a Ginevra composta di immobili disposti in lunghezza simmetricamente a sinistra e a destra di un asse centrale,4 tutte le cucine hanno una superficie di circa 6 mq. Sono «attrezzate come una sorta di piccolo laboratorio con la mobilia indispensabile alla preparazione esclusiva dei pasti; un grande armadio con cassetto, un pensile sopra il lavabo in grès [sic], con scolapiatti, una dispensa con banco fisso per la preparazione dei cibi, cucina a gas smaltata a 4 fuochi e forno».5 Le cucine ginevrine, pensate esclusivamente per la preparazione razionale dei pasti, ispirate a quella di Francoforte e studiate appositamente per la donna, appartengono a una nuova visione dell’alloggio, sociale e progressista.

Anche Frédéric Gilliard e Frédéric Godet, interessati come Maurice Braillard a una cucina razionale ed economica, adottano la Wohnküche per le realizzazioni e i progetti delle cooperative losannesi. Questa cucina è pensata come un vero focolare domestico, riscaldato in maniera confortevole e adatto alla convivialità di un pasto così come allo svolgimento di attività domestiche (il bucato, la stiratura o altre). Alla «razionalità meccanica» ispirata alle avanguardie, Gilliard & Godet preferiscono una «razionalità sociale e costruttiva» tratta dall’applicazione della normalizzazione e della standardizzazione degli elementi base della costruzione (porte, finestre ecc.) e dall’attenzione alle pratiche e alle condizioni specifiche della classe operaia. In questo senso, e sulla scia di Hans Bernoulli, reintrodussero nelle loro realizzazioni la grande cucina d’origine rurale, che dotano di cucine economiche a legna o a carbone nella piazzetta della Borde (1928-1932) – costruita dalla Fondazione Le Logement Ouvrier, «figlia» della Société coopérative d’habitation de Lausanne (SCHL) – e nel cuore di Couchirard (1931-1932, edificata dalla SCHL).6

High-tech o low-tech? 

Bisogna applicare metodi di costruzione industriali o artigianali? Negli anni Cinquanta, i processi di costruzione industrializzati compaiono in certe riviste specializzate come appartenenti a un «indirizzo nuovo» che avrebbe dovuto al tempo stesso diminuire i costi di costruzione e la durata del cantiere e rispondere per la loro efficacia al bisogno di alloggi economici e sociali.7 «Indirizzo nuovo»: l’espressione non è corretta, poiché ignora la mania per la prefabbricazione già consolidata in Svizzera romanda tra le due guerre grazie ad architetti come i fratelli Honegger, che l’hanno applicata a più riprese nell’edificazione di immobili per locazione. La novità, al contrario, è l’ampia risonanza che occupa la questione dell’alloggio per «i grandi numeri» e che si presenta a una nuova generazione di architetti con un’esperienza acquisita soprattutto su metodi costruttivi razionali.

Nel 1957, François Maurice, Jean-Pierre Dom e Jean Duret, associati sotto il nome d’Atelier d’Architectes, avviano a Ginevra, con l’appoggio dei poteri pubblici, il progetto per un immobile per la società cooperativa Les Ailes, che rappresenterà la prima esperienza di prefabbricazione pesante eseguita dall’impresa Igeco SA.8 In questo edificio lineare di sei piani oltre al piano terra, l’estetica delle facciate assai criticata (a sud l’evidenza della struttura, a nord l’apparenza di una pelle liscia) traduce in realtà la logica, razionale e funzionale, delle piante di alloggi costituite da due poli di spazi domestici – da un lato una cucina minimale, un angolo cottura e il soggiorno, dall’altro le camere.

L’innovazione è di ordine tecnico: la struttura, realizzata completamente in fabbrica e montata in cantiere con una gru, è composta da solette con riscaldamento incorporato, portate da telai disposti perpendicolarmente alla facciata e connessi tra loro da un giunto. Quelli lungo la facciata sud si protendono in uno sbalzo che alloggia i balconi ; il controventamento di questo «meccano» è assicurato da nuclei in muratura (come riempimento dei telai) che contengono gli elementi distributivi verticali.

Frédéric Brugger, anch’egli interessato alle condizioni economiche dell’alloggio sociale e cosciente che si debba costruire il maggior numero di alloggi nel più breve tempo possibile, opta per una costruzione tradizionale per le torri de La Borde (1960-1968) di Losanna.9 Costruiti dalla Fondation Le Logement Ouvrier, questi quattro immobili alti sono costruiti in mattoni di terra cotta ad alta resistenza. Tale scelta «low-tech» comporta tuttavia una parte sperimentale: testato nei laboratori de l’École Polytechnique dell’Università di Losanna, il materiale deve dimostrare la sua affidabilità per la costruzione di un edificio alto. Riconosciamo tuttavia che, in generale, Brugger manifesta un atteggiamento specifico nei confronti di un pensiero costruttivo basato su nozioni di performance e di abilità tecnica. A La Borde, la struttura muraria è pensata in modo pragmatico: i muri partecipano alla definizione dell’involucro e alla separazione degli spazi caratterizzati innanzi tutto dalla fluidità e dalla differenziazione delle relazioni tra le stanze e i punti di vista. Questi alloggi, a pianta poligonale e unici poiché in sintonia con il sito, sono agli antipodi dei prototipi standard e riproducibili in serie. 

Flessibilità o adattabilità? 

Come si possono prendere in considerazione i modus vivendi degli abitanti nella progettazione degli alloggi? Dagli anni Sessanta, i discorsi degli architetti e dei sociologi si rivolgono alle aspirazioni degli abitanti di vivere in un alloggio che corrisponda ai loro bisogni e attraverso il quale possa essere identificata la loro personalità. Emerge anche la convinzione della necessità di un adattamento degli spazi domestici ai cambiamenti nella composizione dei nuclei familiari. Infine, la partecipazione degli abitanti alla progettazione del loro alloggio diventa una preoccupazione centrale per alcuni architetti, che a loro volta rispondono a questo bisogno con la realizzazione di spazi quasi totalmente flessibili.  In Svizzera, molti architetti si impegnano in questa direzione.

A Carasso, Luigi Snozzi e Livio Vacchini progettano la Casa Patriziale (1967-1970) in modo tale da offrire ai locatari la possibilità di configurare, attraverso un sistema di pareti mobili, il proprio appartamento.10 Il metodo progettuale è molto semplice: si parte dall’identificazione degli elementi fissi – le strutture delle scale, i muri di separazione antincendio e un nucleo tecnico, leggermente decentrato e comprendente anche la cucina, il w.c. separato e il bagno –,  poi si controlla lo spazio rimasto con una griglia modulare di base che regola le posizioni possibili delle pareti metalliche di separazione delle stanze, tutte amovibili. La griglia diventa la trama della facciata, ritmata dalla ripetizione dello stesso modulo di finestra verticale, inquadrata da muri e lastre in beton, un’immagine astratta e depurata, che sembra in attesa di decorazioni spontanee da parte degli abitanti.

La flessibilità così concepita prende le sue origini dalla modernità e dalla convinzione di un progresso tecnico ben radicato. Fa inoltre eco all’esperienza che Mies aveva condotto nel 1927 alla Weissenhofsiedlung di Stoccarda oppure alle ricerche teoriche condotte in Olanda da Nicolaas John Habraken il quale, nel 1961, riattualizza il concetto  lecorbusiano di una struttura che autorizza qualsiasi pianta.11 Questi riferimenti, per quanto prestigiosi, non garantiscono il successo della procedura: il potenziale di flessibilità offerto a Carasso – intralciato, a dire il vero, da questioni tecniche come il fatto che lo spostamento delle pareti necessita dell’intervento di specialisti – non ha trovato un’accoglienza favorevole presso i locatari. Le abitudini restano stabili in maniera sorprendente, visto che dopo la realizzazione dell’edificio non è stata registrata nessuna modifica degna di nota degli alloggi.

Alla radicalità di tale procedura si può affiancare un altro atteggiamento, che consiste nel favorire la diversità degli alloggi e l’adattabilità degli spazi alle abitudini più disparate. Nel 1969, la società cooperativa Logement idéal conferisce un mandato all’AAA (rappresentata da Alin Décoppet) per la costruzione in terreni comunali di un quartiere ad alta densità situato sulle alture di Losanna, a Grangette - Praz-Séchaud (1969-1977). Per questi architetti, il concetto di alloggio collettivo è profondamente cambiato in quattro anni: si tratta ora «di sopprimere il rigido raggruppamento di appartamenti identici»,12 di variare le forme delle abitazioni attraverso declinazioni in pianta e in sezione, di diversificare le piante degli alloggi e di permettere agli utenti molteplici adattamenti ad personam nella loro sfera privata. Queste sono indotte da mezzi semplici come armadi mobili che possono modificare la configurazione degli spazi e l’utilizzo di porte scorrevoli. 

Individualità o comunità?

Bisogna favorire l’innovazione attraverso l’adozione di espedienti progettuali o di spazi comuni? Tale quesito, in linea di principio un tantino incoerente, si impone nella politica attuale delle cooperative. In effetti le cooperative coinvolgono sempre più i futuri abitanti nel processo del progetto, attraverso un dialogo con gli architetti. Questa procedura induce curiosamente a una specie di standardizzazione tipologica, innanzi tutto perché la maggioranza degli abitanti è costituita dalle famiglie, ma anche perché la razionalità costruttiva ed economica dei progetti sottende l’impossibilità di specializzare l’alloggio secondo i desideri individuali dei futuri abitanti.  

Le cooperative hanno la reputazione di contribuire attivamente all’innovazione dell’alloggio in funzione dei modus vivendi, soprattutto con l’avvento dei clusters, nuovo modo di aggregazione dell’alloggio che consiste nell’estendere il principio di co-locazione a una varietà sempre maggiore di popolazione. Nel quartiere Hunziker Areal a Zurigo-Leutschenbach (2012-2015), questo principio tipologico è stato messo in atto in una operazione immobiliare molto pubblicata e nota con il nome di Mehr als Wohnen, per due dei tredici edifici progettati – l’edificio A costruito da Duplex Architekten e l’edificio I costruito da Futurafrosh. Il fenomeno, apparso dapprima in Svizzera tedesca, si è recentemente esteso anche alla Svizzera romanda. La cooperativa CODHA, per l’eco-quartiere Jonction a Ginevra (2013-2017) realizzato sul sito di Artamis, ha lavorato con gli architetti Dreier Frenzel su clusters, concepiti per permettere la vita comunitaria delle famiglie monoparentali e per favorire un aiuto reciproco nella quotidianità.

Nonostante questo cambiamento – che Dominique Boudet sostiene derivare dell’universo degli squats13 – non bisogna dimenticare che le cooperative costruiscono per la maggior parte alloggi familiari, di cui adottano al contrario una visione abbastanza tradizionale. Eccone una prova: nel quartiere Hunziker Areal, la maggior parte degli alloggi dell’operazione Mehr Als Wohnen, concepito per famiglie, ha piante piuttosto simili; vi si accede da uno spazio d’ingresso, che serve una serie di camere da un lato e la zona-giorno dall’altro. Nella Svizzera romanda – in particolare a Ginevra dove l’attività delle cooperative è la più accentuata –, la debole diversità tipologica fa eco a un numero ristretto di forme urbane utilizzate, soprattutto stecche. 

L’innovazione sembra pertanto essere meno presente a livello di organizzazione interna degli alloggi, quanto piuttosto investire il campo degli spazi comuni e la costruzione di un «vivere insieme» di qualità. È l’identificazione dello spirito comunitario che oggi sembra fare la qualità di un’operazione cooperativa, ricercata attraverso due atteggiamenti: il primo, «programmatico», favorisce l’insediamento di luoghi comunitari o collettivi – sale polivalenti, spazi di lavoro o atelier condivisi; l’altro, «relazionale», accorda una risonanza sociale speciale agli spazi intermedi, di transizione. 

Sempre a Mehr Als Wohnen, le lavanderie prendono posto al piano terra degli edifici, esposte generosamente alla luce del giorno, allo stesso titolo dell’asilo nido o di altri programmi tra i quali si suppone di poter stabilire una sinergia. Così, fare  il bucato non è più considerato soltanto un compito da casalinga, ma come un possibile momento di incontri e discussioni, spesso in relazione con le attività che si svolgono negli spazi esterni.  

Come già detto, il potenziale di vita comunitaria si gioca anche negli spazi di transizione, come gli elementi distributivi, che sono anch’essi oggetto delle riflessioni degli architetti. Il corridoio di distribuzione interno riemerge sulla scia delle esperienze lecorbusiane: scelta per i suoi innegabili vantaggi economici (limitazione del numero di ascensori e di scale) è presto percepito dalle cooperative come potenziale fautore di incontri e relazioni fra gli abitanti.

Un espediente simile è stato recentemente utilizzato nell’immobile del Pommier costruito da GMAA (2010-2011) per la CODHA, e anche per l’immobile Soubeyran (2015-2017) realizzato dallo studio ATBA con la cooperativa Equilibre, dove un vialetto centrale situato a metà altezza dell’immobile distribuisce diverse sale polivalenti a beneficio degli abitanti. 

Alcuni immobili di cooperative rivisitano anche i dispositivi del «periodo eroico» del movimento moderno come il ballatoio, divenuto poco utilizzato in Svizzera in ragione della mancanza di privacy che implica. Nell’ecoquartiere Jonction  (2013-2017) a Ginevra, per l’immobile della CODHA, gli architetti Dreier Frenzel hanno optato per una distribuzione parziale degli alloggi tramite ballatoi, una scelta che pare più naturale in un contesto in cui i futuri abitanti si siano già conosciuti e dimostrino tolleranza nei confronti della promiscuità: un atteggiamento favorevole alla vita comunitaria. Bisognerebbe ancora verificare la ricezione positiva di questi ballatoi prima di decretarne il successo, visto che nel caso di questo esempio l’accesso all’alloggio avviene attraverso il ballatoio. Al contrario, ai Pommiers, gli ampi balconi continui che si estendono a sud lungo i soggiorni degli appartamenti duplex non hanno questa funzione distributiva e ci si diverte a constatare che non c’è nessun pannello divisorio a separare il balcone : gli abitanti hanno scelto che tutti vi possano circolare liberamente.

I prolungamenti esterni degli alloggi sono ugualmente degli spazi di transizione suscettibili di stabilire delle relazioni. Nell’immobile Soubeyran costruito da ATBA a Ginevra, gli alloggi si espandono verso l’esterno attraverso balconi profondi alloggiati in una griglia. Sfalsati ogni due piani, hanno una doppia altezza e permettono alla luce di penetrare negli appartamenti. Questa soluzione progettuale assicura la separazione dei balconi, ma mantiene l’idea di spazio comune creato dalla griglia – una struttura comune che evoca un alveare – e un legame fisico possibile, reso tangibile da una passerella disposta contro la facciata, un sistema che manifesta la ricerca di una giusta mediazione tra sentimento collettivo e privacy necessaria.  

Il progetto dell’edificio dei Saules, a seguito di un concorso organizzato dalla Cigüe per la costruzione di alloggi per studenti e vinto dallo studio Jaccaud Spicher, punta su balconi individuali, ma collegati da una terrazza comune, sui cui si affacciano le scale. Questo espediente progettuale evidenzia la ricerca di un giusto equilibrio tra individualità e comunità; la terrazza comune non esclude la terrazza individuale, ma la mutualità dei mezzi permette di offrirla come un di più. Gli spazi comuni si presentano quasi sempre come spazi possibili per le relazioni, senza comunque costringervi l’utente. 

Nella Svizzera tedesca, dove in generale si riscontra una mentalità più aperta agli aspetti della collettività, l’isolato di Kalkbreite, realizzato dagli architetti Müller Sigrist e concluso nel 2014, rappresenta forse l’esempio più eloquente di una vita comunitaria, poiché riunisce in un solo progetto l’insieme degli espedienti progettuali sopradescritti: continuità degli elementi distributivi, declinazione degli spazi di lavoro o di riposo pensati in sinergia, presenza nell’isolato dei servizi di vicinato, corte interna sopraelevata con spazi-gioco. L’idea di comunità risiede fin nei dettagli; ne sono testimoni le piccole aperture vetrate inserite nelle porte d’ingresso degli appartamenti e le finestre interne disposte qua e là tra gli spazi di distribuzione e gli alloggi.  

A Kalkbreite si potrebbe quasi vivere in forma autarchica; e questa constatazione può suscitare una forma di malessere, poiché suggerisce il rischio che queste entità chiudano a loro volta le porte al mondo esterno.

Oscillazioni

«Cucine-laboratorio» versus cucine abitabili, «high-tech» versus «low-tech», flessibilità versus adattamenti personali, individualità versus comunità: per le loro valenze contrastanti, queste fluttuazioni denotano i due aspetti di un dibattito che rivela al tempo stesso la sensibilità espressa dagli architetti, la loro volontà di rimettere continuamente in discussione i valori certi, e, infine, il loro impegno costante per una problematica sempre attuale, l’innovazione dell’alloggio delle cooperative.


Traduzione di Laura Ceriolo

 

Note

  1. Congrès de la normalisation à Lausanne, organisé par l’Union suisse pour l’amélioration du logement (section romande), extrait du rapport de M. F. Gilliard, architecte (suite), «Bulletin technique de la Suisse romande», 1, 1921, p. 8.
  2. Margarete Schütte-Lihotzky, Rationalisierung im Haushalt, «Das neue Frankfurt», 5, 1926-1927, pp. 120-121.
  3. Walter Gropius, Fondements sociologiques de l’habitation minimale pour la population industrielle des villes (1929), in Walter Gropius, Architecture et société, Editions du Linteau, Paris 1995, p. 73.
  4. Vedere sul tema Isabelle Charollais, Bruno Marchand, Cités-jardins ou bloc locatifs? Rationalisme et espace domestique: la Cité-Vieusseux (1928-1932) et l’immeuble à la route de Frontenex 53-57 (1933-1934) à Genève, in Isabelle Charollais, Bruno Marchand (a cura di), Architecture de la raison. La Suisse des années vingt et trente, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne 1991, pp. 164-197.
  5. Louis Vincent, La cité Vieusseux à Genève, «Habitation», 9, 1932, p. 70.
  6. Sulla storia della SCHL, si veda Joëlle Neuenschwander Feihl, 75 ans d’élan constructeur au service de la qualité de la vie, Société coopérative d’habitation, Lausanne 1995.
  7. Voies nouvelles. Pour une rationalisation des méthodes de construction, «Journal de la construction de la Suisse romande», 2, 1953 pp. 78-80.
  8. A proposito di questo immobile, vedere Bruno Marchand, François Maurice architecte, Infolio éditions, Gollion 2009, pp. 70-74; sulla impresa Igeco SA, vedere Dominique Zanghi, Espoirs et aléas de la préfabrication en Suisse romande. Le cas de l’usine Igeco à Etoy, «Matières», 3, 1999, pp. 86-95.
  9. Su questa realizzazione, vedere Frédéric Brugger, 4 immeubles locatifs à but social avec zone commerciale - La Borde, Lausanne, «Werk», 5, 1969, pp. 315-317.
  10. A proposito della Casa Patriziale, vedere Peter Disch, Luigi Snozzi, Buildings and Projects 1958-1993, ADV Publishing House, Lugano 1994, pp. 88-90.
  11. Nicolaas John Habraken, Supports, An Alternative to Mass Housing (1961), Praeger, New York 1972.
  12. AAA, Logements à but social Grangette - Praz-Séchaud, Lausanne, «Habitation», 7-8, 1977, pp. 17-20 ; Alin Décoppet, A propos de la Grangette - Praz-Séchaud. Quelques réflexions de l’architecte sur le logement, «Habitation», 7-8, 1977, pp. 21-23.
  13. Dominique Boudet, Nouveaux logements à Zurich, la renaissance des coopératives d’habitat, Park Books, Zurich 2017.

 


Una versione preliminare in francese di questo testo è stata pubblicata su «Habitation» n.3, 2012, pp. 24-30. Per l'originale francese, visitate questa pagina.


 

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