L’ere­di­tà dell’AAM in Ti­ci­no

Editoriale – «Archi» 2/2019

«La vera scommessa nell’insegnamento è quella di riuscire a trasmettere il piacere particolare nella ricerca dell’organizzazione dello spazio; mostrare che l’attività del costruire, oltre a soddisfare esigenze, è uno strumento per offrire emozioni, accentuare speranze, sollecitare curiosità, comprendere enigmi».

Mario Botta, 2017

Data di pubblicazione
08-04-2019

1634 è il numero complessivo degli architetti che si sono diplomati all’Accademia di architettura di Mendrisio a partire dal 2002, anno in cui si conclude il percorso universitario della prima generazione dei suoi allievi. Quale sia stato l’impatto che questo numero di professionisti possa aver avuto nel campo architettonico locale è uno degli interrogativi che Archi si pone in questo numero dedicato all’eredità dell’Accademia in Ticino a più di un ventennio dalla sua fondazione, tenendo anche conto dell’importanza che la stessa esistenza dell’ateneo di Mendrisio, e più in generale dell’USI, rivesta per lo sviluppo culturale e professionale di un cantone che fin dall’Ottocento rivendicava a livello politico-federale il diritto di istituire una propria università.

Podcast – Ascolta Mercedes Daguerre che presenta Archi 2/2019 ai microfoni de «La rivista» di Rete Due

L’offerta formativa dell’AAM si contraddistingue per la sua apertura internazionale sostenuta da un corpo docente di alto profilo e da un campus in continuo sviluppo perfettamente inserito nel tessuto urbano del borgo, anche come scelta identitaria e inclusiva. La sua doppia anima – svizzera e cosmopolita – risulta di fatto rivolta agli studenti ticinesi, a quelli provenienti dagli altri cantoni e agli stranieri (con una presenza variegata di ragazzi del resto del mondo), e trova un ampio bacino di riferimento in Italia, soprattutto nell’area lombarda, merito indubbiamente della propria impostazione didattica e dei servizi offerti ma causa anche della sfavorevole situazione delle numerose facoltà di architettura italiane penalizzate, tra l’altro, dalla cronica mancanza di risorse destinate all’istruzione e alla ricerca.

Il suo impianto teorico-sperimentale alternativo alla tradizione politecnica elvetica è retto, com’è noto, da un’impronta umanistica e interdisciplinare in cui l’innovazione va coltivata tramite un approccio critico che stabilisce anche uno stretto rapporto tra il progetto e il suo territorio di riferimento, nelle parole permeate dai principi didattici kahniani cari allo stesso Botta: una scuola capace di «individuare i problemi piuttosto che trovare soluzioni».

Quanto queste linee guida abbiano influenzato la diversificata produzione degli architetti emergenti presentati da Archi è un argomento che trova una prima interpretazione nel saggio di Fulvio Irace e che esige sicuramente ulteriori approfondimenti su una platea allargata alla dimensione internazionale. Tuttavia, è evidente che i principi cardine di una cultura del progetto che trova le sue radici nella generazione che a partire dagli anni Settanta ha rielaborato il moderno ticinese attraverso uno sfaccettato ventaglio di ricerche, risultano un referente attivo nel loro patrimonio genetico. Una cultura del progetto versatile in cui era già presente l’istanza di resistenza verso un omologante processo di specializzazione dei saperi che l’Accademia rifiuta rivalorizzando il ruolo critico dell’architetto generalista nell’organizzazione della vita dell’uomo.

Va anche precisato che l’indagine dei curatori si è focalizzata sui giovani professionisti indipendenti iscritti all’OTIA e titolari di un proprio studio in Ticino, scegliendo così di indagare l’eredità più prossima, quella del proprio territorio, illustrando i loro progetti più significativi, mentre un’altra parte dei laureati sono invece dipendenti in studi di architettura già avviati (in molti casi con retribuzioni che denunciano le difficoltà di inserimento nelle critiche condizioni locali della professione, come il recente dibattito sindacale sul contratto collettivo ha evidenziato); inoltre un numero rilevante di questi diplomati fa parte della diaspora che riflette una dinamica per certi versi naturale di rientro al paese d’origine dopo gli studi, ma che allo stesso tempo alimenta l’esigenza di mano d’opera qualificata fortemente condizionata dalla difficile situazione della disciplina all’interno del mercato del lavoro globalizzato. Ci piace pensare che il loro bagaglio formativo – contraddistinto da una somma di saperi che coniuga pragmatismo e spirito critico – possa costituire uno strumento in grado di sfidare la complessità del mondo contemporaneo.

 

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Le serate di Archi
 

Archi 2/2019 sarà presentato all’Accademia di architettura dell’USI di Mendrisio giovedì 2 maggio alle 19.00.

Complementi al tema
 

Dentro l'Accademia: le performance e le "Sette architetture automatiche" dell'Atelier Blumer.
 

Fuori l'Accademia: l'ateneo si presenta alla Biennale Architettura 2018.


Il Teatro dell'architettura: dal progetto alla prima mostra, Louis Kahn e Venezia.

 

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