Il fu­tu­ro non è più quello che era e il pas­sa­to è di­ven­ta­to im­pre­ve­di­bi­le

Riflessioni sulla città sudamericana

Se mi chiedessi come sarà la città del XXI secolo, la prima risposta sarebbe una nuova domanda: ci sarà città in questo secolo? Continuerà ad essere il luogo preferito dall’uomo? Anche se può sembrare una visione pessimistica, questa preoccupazione è dovuta alla raccolta di indizi che la realtà odierna ci mostra. Forse la città non scomparirà, ma credo che si trasformerà in qualcos’altro, specialmente in America Latina, dove la polarizzazione tra ricchezza e povertà rende impossibile la convivenza sotto lo stesso tetto.

Publikationsdatum
24-12-2015
Revision
24-12-2015

Siamo d’accordo in linea di principio che la città è la gente e la urbe è la pietra in cui essa abita. Inoltre, storicamente gli uomini si sono raggruppati secondo i loro modi di produzione. Dalla rivoluzione industriale, la città è il luogo dove le loro aspettative si compiono nel modo migliore (una città funziona quando la sua gente sta bene, non quando la sua forma urbana è omogenea). Se condividiamo questi presupposti, non avremo dubbi nell’affermare che le cose sono cambiate notevolmente negli ultimi tempi, perché i principi che sostenevano il mondo così come lo conosciamo oggi si dissolvono costantemente. Parliamo del mondo che ha visto sorgere le macchine e l’operaio, un mondo in cui la città coprì e classificò un ambito diverso. L’architettura dedicata fino ad allora a manifestare il potere, la forza, gli Dei, fu chiamata – attraverso la forma – a convocare, condurre, organizzare i grandi spazi chiusi. Come ha detto Michel Foucault, l’individuo non smette di passare da uno spazio chiuso all’altro: prima la casa, poi la caserma, la fabbrica, l’ospedale ed, eventualmente, il carcere. Gli spazi chiusi hanno così contenuto le attività dell’uomo e l’architettura, come tecnica dello stare, stabilì spazi adeguati diventando il principale strumento per questo modello.

Insieme alla società industriale ha fatto la sua comparsa una nuova filosofia politica: la democrazia come la intendiamo oggi, e con essa un nuovo personaggio, il cittadino, unico in grado di generare manifestazioni urbane. Grazie a lui lo spazio diventò pubblico.

Alcune esigenze sono cambiate: per esempio la sicurezza non è più un bene personale ma è diventato un bene comune (si è capito – e non è poco – che l’unico modo per ottenerla è quello di concederla). La lezione della peste è stata infine imparata: il potente isolato, preoccupato per il suo benessere, finì per essere anche lui un uomo morto. A quei tempi, la fabbrica era la forma di vita. Accanto a questa figura, la grande metafora dell’epoca era la retta, che essendo il tragitto più breve tra due punti suppone la realizzazione del sogno dell’era industriale: risparmiare energia. Le grandi città, con le sue vie e vetrine accattivanti, sono state lo scenario della vita. In città l’uomo assunse una nuova dimensione: la folla (e Poe l’ha raccontato meglio di chiunque altro). 

Ma oggi non siamo più quelli che eravamo: le utopie fallirono; tuttavia continuiamo a produrre ideologie fondate più di un secolo fa e in circostanze molto diverse. Infine la macchina ha sostituito solo i muscoli. Oggi si tratta di trasmettere informazioni, per cui la retta già non assicura gli stessi risultati. Entriamo in strutture labirintiche dove due punti prossimi possono essere molto vicini o molto lontani. Altri spazi, altri tempi, ma non un altro mondo: siamo di fronte a un’altra cosa. La globalizzazione si erige come nuovo modello e, sebbene costantemente ci presenta meravigliosi progressi tecnologi, nasconde sotto il poncho una modalità perversa nei suoi mezzi di produzione: genera disoccupazione. Così come il capitalismo poteva giungere allo sfruttamento dell’operaio, questo nuovo modello fa qualcosa di peggio: ignora l’uomo. Con la mancanza di lavoro appare un nuovo personaggio: l’escluso, quello che non potrà mai entrare nel mercato del lavoro, obbligato a campare dalla raccolta differenziata (abituale nelle nostre strade). Quando si evolva, sussisterà della caccia e della pesca (non è difficile immaginare chi sarà la preda).

Se fino ad ora la macchina ha permesso di modificare la realtà, oggi le nuove tecnologie la creano. Questi progressi modificano sostanzialmente l’economia e ancora non si è formulata la filosofia politica capace di contenere il nuovo modello. In sintesi: questa trasformazione dei modi di produzione indotti dalle nuove tecnologie implicherà profondi cambiamenti nei contesti di interpretazione simbolica e una totale ridistribuzione degli spazi geografici, politici, sociali, economici.

Quello che oggi sta accadendo è radicalmente opposto ai principi costruttivi su cui si fonda il mondo moderno. È evidente che oggi assistiamo alla sua decostruzione. È finito il capitalismo del benessere, il socialismo giusto, l’idea di progresso e – non meno importante – il lavoro non aggiunge più valore al prodotto, quindi viene perso uno strumento importante nella costruzione di un soggetto sociale.

Le conseguenze spaziali che provocherà questa irruzione tecnologica sono difficili da prevedere, anche se alcuni cambiamenti incominciano a manifestarsi. È indubbio che questi interesseranno non solo l’habitat, ma anche i grandi spazi dove oggi gli individui interagiscono. Le attività dell’uomo si allontanano dalle strutture gerarchiche funzionali e si incorporano alla rete multimediale che collega punti senza rispettare gerarchie. Il cittadino non è più tale e diventa un nomade virtuale che naviga nella rete. Se nel prossimo futuro non saranno più necessari gli spazi specifici per lo sviluppo delle attività umane, questi scompariranno, perdendo senso la struttura urbana che finora è stata il suo grande scenario. 

Questi fenomeni producono diffusione, dunque è a rischio la centralità, e senza di essa non vi è città. È un fenomeno già in corso. Occorrerà cercare nuove risposte perché i problemi sono diversi. O meglio, bisogna impostare ancora la questione. In questo modello sopravvivranno soltanto le città che hanno una grande centralità, caratteristica che non dipende dalla loro dimensione ma dall’attrattività necessaria per creare una popolazione fluttuante significativa, una città-stato con capacità di relazionarsi non con la regione ma con il mondo. La città di Rosario potrebbe diventarlo perché ha tante qualità per sopravvivere in questa nuova modalità (forse la più importate è il suo porto); tuttavia, perché questo avvenga, dobbiamo imparare, tra l’altro, che il conflitto fa sì che una città sia più città. La città non è l’addizione di isolati, è la somma degli incroci delle sue strade. Ogni angolo è un punto di tensione. Fino a poco tempo fa, Rosario si profilava come una delle città con più potenzialità di sviluppo in America Latina, previsione che oggi è messa in dubbio da diversi fattori. Se ci guardiamo intorno, si coglie che il centro si sta svuotando, diverse attività – tra cui quella bancaria – si allontanano dalla via Cordoba verso internet, lasciando abbandonati importanti edifici e impiegati. La sbagliata delocalizzazione dei grandi supermercati divora i piccoli negozi e i suoi dintorni, che sono quelli che alimentano la strada, primo spazio pubblico, cellula di una città.

Dall’altro canto i cinema multisala, che si insediano ai margini della città, hanno eliminato le sale che rivitalizzavano il centro. I quartieri  recintati, che alcuni preferiscono per questioni di sicurezza (pensando che quando la nave affonderà si salveranno viaggiando in prima classe), nel migliore dei casi attaccano il fatto urbano. In questi nuovi modi di raggruppamento residenziale, dove la convivenza è tra simili, si evidenzia un interscambio in cui la ricchezza abbandona il centro spostandosi in periferia e la povertà si installa progressivamente in esso o ai bordi di questi eleganti quartieri chiusi, come nel medioevo il volgo si stipava attorno ai castelli. Ora si valuta la possibilità di sopprimere il micro-centro, decisione che costituirebbe un misura importante per ossigenarlo. Bisognerebbe però andare oltre. L’area che merita essere studiata è la zona pedonale per capire se non sarebbe conveniente ripristinare il suo stato originale affinché le automobili possano entrarci. In questo modo si riuscirebbe a far sì che la circolazione arrivi al cuore della città. A questo punto si rende necessario smettere di usare dei palliativi e costruire una politica urbana che si domandi innanzitutto che città vuole e analizzi quindi che città potrebbe – o converrebbe – avere.

Anche se il futuro non è promettente, il dibattito sarà sempre tra una visione del potere e il potere dell’immaginazione. Questa è un’epoca in cui tutto è nuovo ed essa esige creatività per poter trarre dalla crisi un qualche reddito favorevole. In un contesto svalutato, è possibile pianificare senza troppe pressioni, evitando le consuete improvvisazioni che solo accontentano gli interessi di certi gruppi o settori, a scapito del bene comune. La nostra disciplina non può da sola avere le risposte a questo nuovo mondo; per trovare gli indizi bisognerà cercare nell’economia, nei modi di produzione e in una politica capace di contenere il modello e renderlo fattibile per la maggior quantità di gente possibile, così come la democrazia è stata in grado di farlo con la rivoluzione Industriale. Solo così ritroveremo i valori di Uguaglianza, Fraternità e Libertà, che hanno dato inizio a questa grande avventura che ci ha fatto diventare cittadini. È proprio questo il punto. Come architetto, oggi mi sento come quel fabbro che all’inizio del secolo scorso faceva quello che sapeva fare: battere l’incudine per ottimizzare i ferri di cavallo, migliorare il rendimento delle ruote dei carri, rinforzare i raggi, pulire gli attrezzi. Quello che questo uomo non sapeva è che da qualche parte era nato Henry Ford. A differenza del nostro povero fabbro, abbiamo un vantaggio: oggi sappiamo che Billes Gates è tra di noi. Ed è arrivato per restare...

Nota

Rafael Iglesia fu un architetto argentino, scomparso lo scorso 20 settembre (1952-2015). È una delle grandi figure di riferimento per la nuova generazione di architetti latinoamericani. Le sue opere hanno suggerito il tema del presente numero di Archi.

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