Il col­let­tivo in Ti­ci­no

Anche in Ticino arriva il concetto di densità basata sull'abitazione collettiva, sicuramente non un tema affine ai ticinesi considerando che sin dai secoli passati abitare è nell'individuale e collettivo è il vivere in un villaggio, dove i luoghi d'incontro sono le osterie o i grotti, talvolta la piazza con il suo mercato, o su per i monti assieme ad altri a falciare prati o curare il bestiame.

Publikationsdatum
16-12-2013
Revision
12-10-2015

L’individualismo

Già, il collettivo in Ticino. Un bel quesito in un paese storicamente votato all’individuale, all’abitazione singola, dove il vivere in un collettivo è stato quello dentro la propria famiglia, dentro la propria casa. Dove la vicinanza con gli altri – con il collettivo – è quello del vivere a fianco della casa dei vicini, lungo la strada del villaggio. Non quindi «casa» dentro casa, non famiglie diverse in un unico edificio. 

Nel Novecento, con il passare degli anni anche il vivere casa contro casa dentro il villaggio è andato a rarefarsi, a tutto vantaggio del vivere isolato dagli altri, dapprima i ricchi in sontuose ville circondate da un parco, poi tutti con l’aspirazione della villetta a fianco di altre villette su per le colline, sempre più lontano dal centro del villaggio. Sempre più lontani dai possibili luoghi d’incontro, con l’inevitabile progressiva perdita di quegli spazi dedicati al collettivo, all’urbano, come la strada o la piazza. Non solo, ma l’individuale è anche nella privatizzazione degli spazi esterni. Ieri gli orti dietro la casa o le corti comprese tra le mura domestiche, nascoste da grandi portoni chiusi verso il vicolo o la strada del villaggio, oggi nel giardinetto (ahimè sempre più ridotto) che circonda la villetta, circondato da geometriche spesse siepi di lauro per nascondere agli altri quanto si svolge all’interno.

La parcellazione del suolo

Ma se di collettivo si parla, occorre tener conto di un altro fattore, anch’esso storico. Ed è il diritto ereditario. In Ticino alla morte dei genitori i figli ereditano le proprietà in parti uguali. E così come in parti uguali sono suddivisi i beni mobili – i soldi, i quadri, gli arredi – così anche in parti uguali sono suddivisi quelli immobili, tra cui le proprietà terriere. Come si può leggere nel Rapporto di pianificazione del piano di utilizzazione cantonale dei paesaggi con edifici e impianti protetti (Dipartimento del Territorio del Cantone Ticino, 2010) «... a differenza di quanto avveniva a nord delle Alpi, dove l’usanza voleva che si tramandasse tutta l’azienda agricola al primogenito, in Ticino si applicava il diritto romano. In questo modo ognuno riceveva una parte, anche piccola, di tutto quanto era di proprietà della famiglia. Di fatto, tutti dovevano avere diritto a qualche cosa per sopravvivere (i campi dove coltivare la segale, i castagni, i prati, ma anche la torba, la gra o la cantina dove riporre il raccolto). Ciò ha portato a una parcellazione estrema dei terreni».

Ecco allora che di secolo in secolo, di anno in anno le terre in Ticino vengono progressivamente frantumate in tanti piccoli appezzamenti privati, dalle dimensioni sempre più ridotte, talvolta al solo filare di vigna. I successivi raggruppamenti fondiari – mirati a migliorare il lavoro agricolo – hanno progressivamente ovviato a questa distorsione, in nome della razionalità nell’uso dei terreni. Ma lo stesso processo non è avvenuto nei terreni edificabili e nelle aree marginali delle città. Come si può leggere nel documento Proprietà e qualità dello spazio urbano in Ticino: trasformazioni recenti, a cura della Sezione della pianificazione urbanistica (una sintesi dello studio elaborato da Cristiana Guerra) «... il raggruppamento terreni a fini agricoli ha rappresentato un intervento pianificatorio propositivo e coraggioso.

L’ente pubblico è intervenuto sulla struttura fondiaria in modo incisivo per far fronte alle esigenze dell’agricoltura moderna. Uno sforzo analogo per fronteggiare il successivo sviluppo urbano non è stato fatto, o non nella misura di quello precedente. Gli interessi locali e quelli privati sembrano aver prevalso ... Lo stesso fenomeno si riscontra nelle periferie urbane: con l’espandersi della città oltre i confini dello sviluppo ottocentesco, i grandi lotti agricoli sono stati suddivisi in particelle via via sempre più piccole e puntualmente edificate. Lo sforzo urbanistico dell’Ottocento non è però stato proseguito nell’epoca successiva, né si intravede un nuovo disegno urbanistico nei quartieri più recenti».

La conseguenza di questo processo storico – originato come detto dal diritto successorio – è la mancanza dentro o ai margini delle città, nelle periferie, di terreni e spazi con una superficie adeguata a grandi interventi destinati all’abitazione collettiva, e più in particolare alla costruzione di veri e propri nuovi quartieri. Il collettivo insomma si è ridotto alla singola casa d’appartamenti, obbligata dentro le limitate dimensioni del suo terreno.

Debolezza della pianificazione, difesa della proprietà privata, assenza di quartieri

Ma non è finita. Perché ai due fattori precedenti occorre aggiungerne un altro: la debolezza – anch’essa storica – degli strumenti pianificatori. Per due motivi: primo, per aver sottovalutato all’inizio degli anni Sessanta le trasformazioni urbane che stavano iniziando e nel non aver preparato quindi delle leggi urbanistiche adeguate. Anzi peggio, l’unica legge urbanistica lungimirante fu bocciata in votazione popolare nel 1969. Il secondo motivo della debolezza degli strumenti pianificatori risiede nell’atavica difesa della proprietà privata, del resto non solo sostenuta dalla legge, ma iscritta nella Costituzione svizzera.

Questi fattori sono all’origine della quasi totale assenza di quartieri destinati all’abitazione realizzati con un unico progetto urbanistico e architettonico. Quartieri unitari, realizzazioni immobiliari di ampio respiro, edifici e spazi collettivi progettati con coerenza e unità. A differenza di altre città svizzere, dove è l’ente pubblico a elaborare delle strategie a favore dell’alloggio, a promuovere e collaborare con i privati nella realizzazione di interi quartieri abitativi, in Ticino di quartieri, fatta eccezione per quelli d’inizio Novecento delle Ferrovie, non vi è traccia. Nulla, specie se per quartiere non si intende la sola combinazione in un’unica area di un paio di edifici destinati all’alloggio, ma qualcosa di ben altro: un luogo urbano con proprie e specifiche qualità, scaturito da un progetto complessivo – se promosso dall’ente pubblico risulta da un concorso di architettura – architettonicamente unitario, ricco di identità, con spazi esterni dedicati agli abitanti – una piazza, un parco, un’area di gioco – qualificato da relazioni e percorsi pedonali con la città, dotato anche di contenuti funzionali diversi capaci di renderlo attrattivo lungo l’arco dell’intera giornata.

Una negligenza per il collettivo di cui è complice, come detto, l’estrema parcellazione delle proprietà fondiarie e le ridotte dimensioni delle proprietà. E complici gli stessi amministratori comunali (è nel Dna del ticinese essere individualista e quindi legato alla proprietà privata) che mai hanno immaginato la possibilità (e forse anche la necessità) che fosse l’ente pubblico ad acquistare terreni o a farsi partecipe assieme ai privati nel costruire nuovi quartieri, per costruire la città insomma. Casa d’appartamenti dopo casa d’appartamenti, sono i privati ad aver costruito le architetture destinate all’alloggio della collettività, ognuno dentro il suo piccolo pezzo di terra lungo le strade della periferia. È così che hanno preso forma le città del Ticino contemporaneo.

La casa per appartamenti

Come spesso capita, quando si è stretti nell’angolo, si aguzza l’ingegno. Quindi, pur ridotto a una sola e unica casa d’appartamenti, dentro il tema dell’abitazione collettiva molti architetti hanno cercato nei loro progetti di realizzare un’architettura capace di avere comunque un ruolo urbano, che potesse incidere positivamente sulla città. In questo senso, tra gli edifici anteriori agli anni Quaranta occorre ricordarne almeno cinque, tutti realizzati a Lugano: a dare forma allo spazio di piazzale Pelli (allora piazzale Milano) l’edificio di Giuseppe Franconi e quello di Orfeo Amadò, entrambi del 1933; a costituire lo snodo tra la quota della stazione FFS e la città storica, alle spalle della cattedrale, il palazzo Pax di Augusto Guidini jr. del 1934; a segnare lo spazio stradale di via Besso, all’entrata della città, la casa d’appartamenti la Rotonda dei coniugi Witmer Ferri del 1937; e per la loro importante presenza sul lungolago i palazzi Gargantini, realizzati tra il 1912 e il 1933 su progetto di Giuseppe Bordonzotti e Orsino Bongi, con la collaborazione negli ultimi anni dei fratelli Tami.

Nel dopoguerra, nonostante i ripetuti boom immobiliari, la storia dell’architettura del Ticino è fatta soprattutto di case unifamiliari, molto meno di edifici dedicati all’abitazione collettiva. Complice anche un mercato immobiliare che segue altre strade e cerca altri progettisti, più confacenti ai loro obiettivi. Ma pur se in numero ridotto, molte di queste architetture sono esemplari: nella qualità tipologica degli appartamenti, nel concetto progettuale complessivo dell’edificio, nel valore dell’architettura e nelle relazioni con l’intorno, con la città, con il paesaggio. Valori tutt’altro che ovvi, avendo a che fare con un solo oggetto, e non con un quartiere. Impossibile citarli tutti. Ma in coerenza con quanto scritto in precedenza (tralasciando edifici anche importanti come la casa Torre di Rino Tami o l’Albairone di Peppo Brivio o la Panoramica di Camenzind e Brocchi) e continuando sullo stesso sentiero e con gli stessi criteri – un’architettura capace di svolgere un ruolo urbano, la ricerca di valori mirati alla collettività – in modo sicuramente arbitrario è importante citare alcune architetture comprese tra gli anni Sessanta e Novanta.

Dolf Schnebli nel 1960 realizza gli edifici per appartamenti sociali in via Torricelli a Lugano. Un progetto fondato sui rapporti con l’intorno, in particolare nel stabilire relazioni precise con le case popolari realizzate da Rino e Carlo Tami nel 1948 (cfr. Archi 3-2010). L’edificio di Schnebli completa e conclude e qualifica l’insieme del costruito fino a creare un quartiere vero e proprio, determina con il proprio volume e con quello degli edifici dei Tami uno spazio collettivo destinato al gioco e a parco, ai piedi della collina boscata. Non solo, ma pur con un proprio linguaggio espressivo, l’architettura di Schnebli assume quelle connotazioni che qualificano i blocchi abitativi dei Tami, in particolare le analoghe dimensioni volumetriche ottenute mediante la successione di tre volumi accostati, ognuno sfalsato di mezzo piano rispetto all’altro. Senza dimenticare la vocazione sociale, ricercata nelle diverse scelte tipologiche, con appartamenti per gli anziani, appartamenti su un unico livello, appartamenti in duplex. 

Luigi Snozzi e Livio Vacchini invece scelgono una soluzione opposta a quella di Schnebli. Nell’edificio per appartamenti sociali a Locarno, del 1966, il sociale è tradotto nel senso di appartenenza alla collettività, e si traduce nel progetto di un unico grande edificio con all’interno 54 appartamenti con tre diverse tipologie: appartamenti traversanti e aperti verso est e ovest, appartamenti duplex e appartamenti posti nelle due teste dell’edificio. Per chi deve raggiungere i tre corpi scale e ascensori che portano agli appartamenti, un lungo spazio interno attraversa il volume su tutta la lunghezza al piano seminterrato, che vuole proporsi come luogo d’incontro. Questa sorta di Unité d’habitation, con le sue dimensioni di oltre 50 metri e con un’altezza di 20, costituisce un momento urbano importante nel contesto della città. Un concetto (e un’architettura) purtroppo destinata a perdere molto del suo valore con il rifacimento di tutte le facciate, deperite in pochi anni a causa delle utopiche scelte costruttive – pannelli prefabbricati in legno ed eternit – rivelatesi disastrose per la delicatezza dei materiali, esposti alle intemperie su così grandi superfici.

Ha quale riferimento l’Unité d’habitation anche l’edificio Fercasa a Novazzano di Alberto Finzi, realizzato nel 1963. È una costruzione isolata (o almeno lo era) nella campagna adorna, un poderoso volume originariamente in cemento armato a vista (oggi purtroppo intonacato, e con oltretutto una vergognosa antenna per la telefonia), con spunti progettuali interessanti. Importante è la presenza dell’edificio nel territorio, capace di contrastare la disseminazione e banalità del costruito circostante, maestosa architettura adagiata con maestria nell’ondulato paesaggio fatto di morbide colline. Una presenza in grado di dare una connotazione precisa al territorio circostante, di diventarne un punto di riferimento. A uno sguardo ravvicinato l’edificio si caratterizza per delle scelte architettoniche altrettanto categoriche, prive di compromessi, caratterizzate dall’alternanza di volumi pieni e i vuoti dei balconi, con lo spazio del piano terreno libero, ritmato dai pilotis che sostengono l’edificio. E con la torre dell’ascensore e delle scale isolata, collegata al corpo principale da passerelle.

Roberto Bianconi in via Prato Carasso a Bellinzona realizza nel 1972 due edifici per appartamenti. Edifici dalle volumetrie compatte, con superfici intonacate, caratterizzati sul lato nord da lunghe finestre a banda, mentre la facciata verso sud è qualificata da improvvise invenzioni formali dal sentore costruttivista, con strutture in metallo e vetro a formare logge, balconi, pergolati. Tetto compreso. Ma il valore di questi due edifici di Bianconi risiede anche nelle scelte tipologiche interne. Magari fatte di pochi «gesti» dentro le pur ridotte dimensioni degli appartamenti, ma quanto geniali: come il breve passaggio che collega direttamente tra loro il soggiorno e la camera matrimoniale, come le aperture tra cucina e soggiorno, come la zona del pranzo, un vero e proprio locale posto in una veranda e collegato sia con il soggiorno sia con la cucina sia con il balcone esterno. L’appartamento si dilata così oltre la finestra, interno ed esterno vanno a formare un unico spazio, aperto verso il paesaggio.

Definirlo un quartiere è indubbiamente troppo, ma l’articolato edificio che Viero Balmelli e Ivano Ghirlanda realizzano a Sorengo nel 1985 ha sicuramente l’ambizione di voler tematizzare la componente del collettivo. La ricerca è allora nel mirare all’eterogeneità e non all’unità, nel diversificare per ottenere identità. Lo è nella complessa articolazione dei volumi, nell’espressionismo dell’architettura, nell’alternanza di pieni e vuoti e terrazze e tetti a volta, nell’accostamento di volumetrie differenti, nell’impiego di materiali diversi, fino a unire tra loro le abitazioni a schiera con il corpo emergente destinato a uffici e appartamenti. 

A questa filiera del tema dell’urbano e del collettivo appartiene anche l’edificio abitativo in via Beltramina a Lugano, realizzato nel 1995 da Mario Campi e Franco Pessina. Un progetto segnato dall’attenzione per la componente urbana, dalla volontà di legarsi all’edificato circostante, dall’ambizione di proporsi quale matrice di un rinnovo di questa parte della città. Il rigoroso volume disposto a U è oggi una presenza forte sulla strada e un segno di identità, che nasconde all’interno una grande corte a parco, un vuoto di riferimento di valori collettivi, luogo di scambi sociali, di incontri, di riconoscersi abitanti tra gli abitanti.

In questi esempi il collettivo, che non è il quartiere urbano, è quindi o dentro l’edificio stesso, nella tipologia e nell’organizzazione spaziale dell’appartamento – come nel caso dell’edificio di Bianconi. Oppure è nelle scelte architettoniche e volumetriche, come nell’edificio di Balmelli e Ghirlanda e in quello di Campi e Pessina, oppure ancora è nei rapporti tra architettura e contesto: nelle relazioni spaziali con gli edifici attigui esistenti – come nel caso di Schnebli – o nella perentoria presenza nel paesaggio – come nell’edificio di Snozzi e Vacchini a Locarno o quello di Finzi a Novazzano.

Per concludere: due quartieri, finalmente. Il primo è quello realizzato da Mario Botta nel 1993 a Novazzano. Come sempre in Botta, il concetto urbanistico e la disposizione dei volumi è perfetta. Il quartiere poggia i suoi valori sullo spazio esterno determinato dai volumi a U degli edifici, due corti poste a quote differenti affacciate verso il vicino nucleo del villaggio, con cui si mette in relazione. Se la corte superiore è una vera e propria piazza, quella inferiore è un pianoro erboso con ai lati gli alloggi. Da questa successione di spazi collettivi si diparte una passerella che, oltre la strada cantonale, raggiunge un centro per negozi e permettere di mettere fisicamente in relazione il quartiere con il centro del villaggio.

Un altro esempio che non può essere sottaciuto per le sue particolarità è il quartiere Maghetti a Lugano, realizzato nel 1984 dagli architetti Alberto Camenzind, Bruno Brocchi e Roberto Sennhauser. Un intervento che soffre di un’eccessiva articolazione e della sovrabbondanza di scelte formali, ma comunque esemplare sotto molti aspetti. Il progetto propone all’interno di una vasta area del centro storico una tipologia urbana basata sulla frammentazione in singoli episodi volumetrici e la creazione di piccoli spazi pubblici. Racchiuse nel perimetro ottocentesco, architetture di ridotte dimensioni propongono un’alternanza di pieni e di vuoti, di finestre e sporti e balconi, di percorsi e passerelle e spazi aperti, ora angusti ora dilatati, fatti di vie e di piazze. Edifici con contenuti misti come negozi, ristoranti, una sala cinematografica, uffici e abitazioni. Questo vero e proprio quartiere urbano dentro l’urbano della città costituisce l’esempio sia di un possibile recupero di un’area dismessa e sia di ciò che potrebbe significare la densificazione dell’abitato. Temi importanti per il futuro della città contemporanea.

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