«Mila­no Mo­der­na» dag­li an­ni Tren­ta al con­tem­po­ra­neo

Fulvio Irace, professor Emerito di storia dell’architettura al Politecnico di Milano, racconta la genesi del nuovo libro «Milano Moderna» sul filo rosso della modernità a Milano, durante quasi un secolo di architettura.

Publikationsdatum
03-10-2022

Francesca Acerboni: La storia del libro «Milano Moderna» comincia quasi trent’anni fa, quando il Prof. Fulvio Irace scrive la prima edizione, tracciando un periodo ancora poco esplorato dell’architettura milanese: la ricostruzione post-bellica di Milano che si rialza dalle rovine dei bombardamenti e riparte, attraverso l’industria e l’architettura. Partiamo da qui, da quella città di pietra, descritta da Alberto Savinio.

FULVIO IRACE: È importante, in effetti, ricostruire la genesi di questo volume: quando scrissi la prima edizione di «Milano Moderna» nel 1996, la storia dell’architettura si era sostanzialmente concentrata sul periodo tra le due guerre, il ventennio fascista, oggetto di studio tra gli anni ‘80 e ’90. Si diede in quegli anni voce e visibilità agli architetti che erano stati, in qualche modo, censurati dalla storia. Io diedi un contributo in questa direzione, occupandomi in particolare di Ponti, di Muzio, di Asnago&Vender e altri, ma anche di urbanistica e della realizzazione del piano regolatore Albertini1.

A metà degli anni Novanta, però, mi chiesi che cosa fosse successo nei decenni successivi. E approfondendo, mi accorsi che non esisteva quasi nessuna bibliografia in proposito, nessuna ricostruzione critico-sintetica di quello che era stato il secondo sviluppo di Milano, una seconda modernità: dalla ricostruzione fino al miracolo economico degli anni ‘60. Non vi erano studi su Luigi Caccia Dominioni, su Asnago e Vender, su Luigi Moretti, su Vico Magistretti, ma un vuoto e una mancanza di considerazione quasi totali. Mi resi conto della straordinarietà di quest’architettura, e della necessità di colmare la lacuna. Il libro parte da qui, ma nasce anche da un’indignazione più recente, di fronte alla distruzione costante di questo patrimonio architettonico, riconosciuto anche a livello internazionale. Come si possono oggi distruggere facciate e capolavori aggiungendo cappotti o improbabili restyling – si pensi al Palazzo Ras (oggi Allianz) progettato da Gio Ponti e Piero Portaluppi in corso Italia a Milano, oggetto di una recente irrispettosa trasformazione radicale, sia nell’impianto sia in facciata, fatta passare come restauro e approvata dal Comune di Milano.

FA: Parliamo dei motivi di questo vuoto storiografico…

FI: Anche nel periodo degli anni Trenta c’era stato un buco nella storiografia, in effetti: salvo poche eccezioni – per esempio i BBPR, Gardella o Figini e Pollini, che avevano anche legami con una visione politica e un’architettura cosiddetta «di sinistra» – si era scritto molto poco, si sorvolava su Giovanni Muzio o Gio Ponti. Quando arrivai a Milano, per la prima volta nel 1979, ricordo di esser rimasto incantato davanti alla Ca’ Brutta di Muzio: cosi intensa, misteriosa, affascinante. Per me ci fu un’empatia immediata, cosi come avvenne anche per Luigi Moretti: era come se queste case fossero lì a guardarmi. E scrissi appunto un piccolo libro sulla Ca’ Brutta (1981).

Erano per lo più sconosciuti molti degli architetti che ricostruirono gran parte della Milano del dopoguerra come Caccia Dominioni, Asnago e Vender, Gustavo e Vito Latis, Minoletti, e che proposi di definire il «professionismo colto milanese». Non solo: vi era persino un’aura di scetticismo e diffidenza critica verso di loro, accusati di essere solo dei professionisti, quasi fosse una colpa: erano fuori dall’Accademia, non insegnavano, avevano una fiorente attività professionale e per questo venivano considerati al servizio del sistema immobiliare, quindi non degni portatori di qualità. Eppure questo giudizio contrastava palesemente con l’evidenza di un’architettura di grande qualità e sperimentazione, che avevano potuto realizzare proprio come professionisti, nel senso più pieno e ricco del termine.

Anche il titolo del libro «Milano Moderna» sta a significare che alla modernità degli anni Trenta – l’immagine della «città di ferro e di pietra» di Savinio – subentra una modernità post-bellica legata all’International Style, all’uso del curtain wall, a un’architettura che ho definito leggera, fatta di superfici piane e finestre leggere, facciate bidimensionali, una città più luminosa. Il tema stesso del libro sta nella definizione dei mutevoli concetti di modernità, parola ambigua e affascinante al tempo stesso.

FA: Ci parli dei principali protagonisti della Milano da ricostruire o – come scrive nel libro – di una città dove occorreva «costruire una nuova maniera di abitare».

FI: Due sono gli esponenti principali del professionismo colto a cui sono dedicati due capitoli del volume: l’architetto romano Luigi Moretti, e il duo professionale di Mario Asnago e Claudio Vender; in mezzo, il capitolo sul condominio milanese, un tema centrale e corale, che si inserisce in un dibattito collettivo, un lavoro di squadra che in queste pagine si è tentato di delineare. Il condominio è il tema dell’edilizia residenziale delle classi medie, che nasceva da un dialogo a volte esplicito a volte sospeso tra gli architetti milanesi, che appartenevano alla stessa classe sociale, si frequentavano, erano spesso amici: si apre allora un vasto campo di sperimentazione e innovazione.

Luigi Moretti era un architetto romano, e non venne praticamente considerato dalla critica milanese: Ernesto Nathan Rogers non lo pubblicò mai; divenne poi amico di Ponti, che fu l’unico a pubblicare la casa albergo di via Corridoni (allora in cantiere). Il suo condominio di Corso Italia, dopotutto, era un edificio prettamente romano in un contesto milanese: ma non aveva nulla in comune con l’architettura milanese razionalista. Era un’architettura più ricca e barocca. Pure Asnago e Vender erano considerate due figure sbiadite, di cui non valeva la pena parlare, a eccezione di Renato Airoldi, che già negli anni Ottanta ne scrive sulla rivista Casabella.

Comunque, dopo questa prima edizione di «Milano Moderna» si aprì finalmente un nuovo filone di studi, prima sporadico poi sempre più fitto, su singoli architetti o edifici.

FA: Qual è il rapporto tra questa architettura e la borghesia?

Queste architetture degli anni ’50 e ’60 avevano dato identità e forma a una borghesia cosmopolita, emancipata e laboriosa: la facciata-pagina di Asnago e Vender evoca quasi una castità, un’essenzialità che era un attributo di questa classe sociale. Come le sedie Catilina di Caccia Dominioni, prodotte da Azucena, che impedivano all’ospite di accasciarsi, ma obbligavano a mantenere una postura aplomb elegante. È questa l’espressione di una socialità che identificava il tipo del milanese moderno, per certi versi anche un po’ snob, è la borghesia benestante che abita i condomini di via Ippolito Nievo di Caccia Dominioni.

Nella riscrittura del nuovo volume, quasi 30 anni dopo, si è tenuto conto dei contributi critici che nel frattempo erano usciti, su Moretti, Asnago e Vender, Caccia.

FA: Poi arriva la svolta degli anni ‘70, con l’edificio Monte Amiata al Gallaratese, progettato da Aymonino e Rossi.

FI: E’ un capitolo di snodo critico, dove compare la dimensione politica legata a agli anni di piombo, l’eclisse della borghesia. È finita l’età dell’innocenza dell’architettura milanese. Il Gallaratese è un punto di svolta, verso l’età dell’inquietudine. Aymonino qui progetta un complesso magniloquente, ridondante, anche sopra le righe, colorato: il Gallaratese era allora una periferia sconosciuta, era quasi campagna, terra di nessuno. La composizione di Aymonino è una scultura a scala urbana di cui Aldo Rossi coglie l’impatto: «questo dinosauro rosso, con una lunga e rigida coda bianca, sorge ormai terribilmente sopra la pianura» (scriverà Rossi all’architetto romano) e progetta la lama, la spina nel fianco del drago, che stabilizza la macchina di Aymonino.

FA: C’è una parte dedicata a Gio Ponti: i suoi ultimi progetti, meno conosciuti.

FI: È un capitolo nuovo – «Ponti ultimo» – che si riferisce appunto all’ultimo straordinario periodo dell’architetto, che progetta il complesso per uffici delle Assicurazioni Savoia, dove elabora un’architettura-paesaggio, un giardino che diventa completamento ideale dell’architettura, anticipando i nostri tempi con dirompente novità. E il palazzo Montedoria, dove Ponti affronta il tema del rivestimento ceramico in facciata – da lui stesso disegnato – e il tema della verticalità quale ornamento della città moderna.

Rispetto alla «pianta diamantata» degli anni ‘50, questi progetti sviluppano un nuovo tipo di pianta, lavorando – come nell’Art Museum di Denver – sulle possibilità infinite della linea segmentata: al fondo rimane l’avversione all’edificio-scatola, superabile secondo Ponti attraverso lo spezzettamento del perimetro in una sequenza vertiginosa di segmenti, ognuno dei quali definisce una piccola facciata in sé. La pianta delle Assicurazioni Savoia è un capolavoro, assimilabile a una pergamena nello spazio, o meglio ancora a un delicato origami.

Incomprensibile e oltraggioso che il complesso di via San Vigilio sia stato recentemente deturpato con una ristrutturazione insensata, che aggiunge nuovi piani e nuovi corpi a un’architettura che Ponti pensava inalterabile e completa. Occorre fermare questo processo, tutelando il patrimonio moderno che abbiamo, Milano sembra talvolta avere un rapporto sbagliato con la sua memoria storica.

FA: Parliamo del rapporto tra arte e architettura, a Milano.

FI: Tengo particolarmente a questo tema, che esplora l’uso della decorazione artistica sulle facciate di Milano: l’arte era certamente già presente negli anni ’30, nelle sculture monumentali di Sironi o Manzù, ma viene rilanciata nuovamente, nella modernità degli anni ’50, da una serie di artisti astratti – Lucio Fontana, Gianni Dova, Roberto Crippa – che spostano l’attenzione dal monumentale del ventennnio fascista verso forme più democratiche di arte applicata su facciate, balconi, pavimentazioni: arte fruibile quotidianamente da un pubblico più ampio. Come la casa sui Navigli progettata da Marco Zanuso con l’artista Dova. O gli esperimenti di opera d’arte totale dell’architetto Carlo Perogalli: nella Casa Astratta (in viale Beatrice d’Este) l’intera facciata è una decorazione realizzata con mattonelle bicrome di rivestimento, il fronte diventa una tela pittorica. O il Cinema Teatro di via Manzoni, edificio stupendo e dimenticato dell’architetto bergamasco Alziro Bergonzo: l’interno della lobby, con le sue decorazioni, è come se fosse una piazza esterna.

Ci sono poi i lavori dello scultore Carlo Ramous – su cui feci una mostra qualche anno fa alla Triennale di Milano – che ha collaborato a due chiese dell’architetto Mario Tedeschi: la sua scultura sconfina talmente sulla facciata da cancellare i confini tra arte e architettura. Episodio importante è anche l’opera di Francesco Somaini e i numerosi pavimenti musivi realizzati per le case di Caccia Dominioni, per le gallerie urbane, opere d’arte fruibili dai passanti.

FA: Anche il tema della narrazione iconografica del volume è molto interessante. Ogni libro di architettura è (spesso anche) un libro di fotografia, e in «Milano Moderna» si percepisce una scelta ben precisa, attuata attraverso gli scatti di fotografi diversi.

FI: La prima edizione è stata realizzata attraverso lo sguardo di Gabriele Basilico, grande fotografo con cui ho lavorato spesso, e di Paolo Rosselli: sono le fotografie in bianco e nero, analogiche, di come si facevano i libri in quegli anni.

Quando abbiamo ripreso in mano la seconda edizione, si è deciso di tenere le foto di Basilico, a cui sono state affiancate quelle di Marco Introini, sempre in bianco e nero, che si inseriscono nella stessa tradizione di Basilico.

Mentre Paolo Rosselli, che ha mantenuto alcune foto precedenti, nel capitolo su Ponti ha proposto un nuovo approccio, con il digitale e il colore.

C’è quindi un’evoluzione nella parte iconografica del libro: i fotografi, in fondo, sono i nuovi paesaggisti, ci offrono una visione dell’architettura focalizzata sull’oggetto, molto diversa dal punto di vista dello storico di architettura.

Così, per i nuovi quartieri di Milano modernissima – Porta Nuova, Bosco Verticale, City Life – ho pensato che gli scatti di Filippo Romano restituissero con grande fascino questi nuovi paesaggi urbani, abitati da cani, persone, auto, cosi come li si vede realmente. E così per il capitolo affidato a Giovanna Silva che ha una spiccata sensibilità artistica e ha scattato foto per frammenti e dettagli sul tema di arte e architettura.

La fotografia ha dato un altro filtro di lettura al testo, perché legge l’architettura in un altro modo.

FA: Riprendiamo il discorso della «Milano modernissima», per capire come si è evoluto – nell’arco di un secolo – il concetto stesso di modernità.

FI: I recentissimi grandi progetti di rigenerazione urbana, dagli anni 2000 in poi, sono espressione simbolica di una società in continua trasformazione. La Milano della ricostruzione era stata disegnata da architetti milanesi per imprenditori e capitali milanesi: Leopoldo Pirelli comunicava direttamente con Ponti per la costruzione del grattacielo; Caccia Dominioni e gli architetti della sua generazione progettavano edifici che avevano un’artigianalità, una cura e un dettaglio all’italiana. Ora, invece, la modernità ha altri parametri, le architetture sono costruite da studi internazionali, che non necessariamente conoscono Milano, secondo un modello di sviluppo da real estate globalizzato dove, per esempio, non sappiamo neanche esattamente di chi sia la torre Unicredit (forse di Emirati Arabi, Qatar, Hines?). Sono architetture che vengono spesso disegnate per essere fotografate per Instagram, le persone vanno a vedere il Bosco Verticale per farsi un selfie e pubblicarlo on line. È un altro tipo di modernità. E, in fondo, questo libro affronta proprio il tema della memoria e della modernità, che è intrinsecamente effimera: quello che è moderno ora, non lo sarà più domani.

Note

 

1 Nel 1982 Fulvio Irace collabora alla mostra «Gli Annitrenta. Arte e Cultura in Italia» (al Palazzo Reale di Milano), che portò attenzione a questo periodo storico.

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