Tra mo­del­lo e re­al­tà

Mario Botta e il San Carlino di Lugano

Nel 1999, per festeggiare i 400 anni dalla nascita di Francesco Borromini, sul lago di Lugano spuntava il San Carlino di Mario Botta: riproduzione 1:1 del celebre capolavoro (sezionato), è un'opera che fa ragionare su temi quali il ruolo del simulacro, il rapporto tra copia e originale, il valore di una meta-architettura. Ne abbiamo parlato con il suo ideatore.

Ormai è un lontano miraggio il San Carlino adagiato sul lago di Lugano nel 1999 per festeggiare Francesco Borromini, nato sulle stesse sponde quattrocento anni prima. Riproduzione alla scala reale del celebre capolavoro romano, liberato dalla sua scorza per sfoggiarne lo spazio interno, fu una costruzione effimera e ambigua, sospesa tra la trascrizione filologica e la copia liberamente interpretata. Amata (un milione di visitatori) e osteggiata (votata a grande maggioranza dal Consiglio comunale la rimozione), questa installazione è sicuramente un caso eccezionale che – in questo numero di «Archi» dedicato ai modelli architettonici – ci fa ragionare su temi quali il cambio di scala, il ruolo del simulacro, il rapporto tra copia e originale, il valore dell’architettura che riflette su se stessa. Ne abbiamo parlato con Mario Botta, il suo ideatore.

Gabriele Neri – Come è iniziato il progetto?
Mario Botta – Sono stato coinvolto dalla città di Lugano nella mostra per i 400 anni dalla nascita del Borromini. Rispetto a Vienna, che ha i disegni dell’Albertina, e Roma che ha le opere, Lugano era in difficoltà. Allora ho pensato: perché non leghiamo la commemorazione del Borromini alla nascita dell’Accademia di architettura di Mendrisio, inaugurata poco prima, nel 1996? L’idea è stata quindi quella di fare un grande gesto, come segnale dell’Accademia che va sul territorio, facendo in modo che Borromini potesse «vedere Bissone», il suo luogo di nascita. Il punto di partenza è stato una citazione letteraria di Carlo Dossi, che diceva: «le architetture in generale prendono il motivo dominante dalla conformazione della natura che circonda l’occhio dell’artista». Il mio ragionamento è stato: quello che ha visto Borromini, che qui abitò il primo periodo della sua vita, lo vedo anche io oggi. È cambiata l’urbanizzazione di certe parti, ma l’orografia è sempre quella. Allora, perché non facciamo dialogare questo capolavoro giovanile con il paesaggio del «suo» lago? Se è vero che il paesaggio colpisce l’occhio dell’architetto...

Il San Carlino di Lugano ha un antecedente importante: il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, portato in laguna a Venezia nel 1979 come un’onirica installazione galleggiante.
Certo, il Teatro del Mondo mi ha aiutato tantissimo. Però è qualcosa di ben diverso, perché nei suoi intenti – ne avevo parlato diverse volte con Rossi – era immaginato per fare la rappresentazione teatrale, per essere una scenografia. Il San Carlino di Lugano era differente, molto più metaforico. Anche dal punto di vista costruttivo: il Teatro di Rossi era un’impalcatura di tubi Innocenti rivestita, mentre il San Carlino si basa su di un procedimento differente.

Come è stato progettato questo grande modello in scala reale?
Abbiamo fatto fare un rilievo al professor Alessandro Sartor di Roma e abbiamo dato vita a quella che era una «follia ragionata» (così l’aveva giustificata il Consigliere di Stato Giuseppe Buffi), resa possibile solo dall’esistenza dell’Accademia: un privato infatti non può mettersi a fare una cosa del genere. Abbiamo creato un apposito atelier a Mendrisio, con l’idea di realizzare una stratificazione, una tomografia orizzontale dell’edificio, basandoci sulla misura delle assi delle segherie: 4 cm di spessore più uno di vuoto. Non sarebbe stato possibile senza computer. Io continuo a criticarlo... ma in questo caso è stato indispensabile: erano circa 36'000 tavole! Ogni disegno in scala 1:1 doveva essere pensato in modo che gli studenti potessero avere una sagoma e ritagliarla. Non avevamo una falegnameria professionale…

Un’installazione a misura di studente...
A misura di apprendista. Oltre al lato artigianale c’era infatti un lato economico: dove vai a prendere la forza lavoro per una cosa del genere? Abbiamo pensato dapprima all’esercito, e poi al Programma occupazionale per i disoccupati. Abbiamo convinto la Confederazione che, invece di elargire un contributo per non far niente, potevamo impiegare carpentieri, falegnami ed elettricisti per la nostra iniziativa. In questo modo siamo riusciti a costruire il San Carlino per pochi soldi, grazie al supporto della Confederazione. Questo aspetto è molto interessante perché una simile partecipazione sfugge alla legge del mercato: andando a prendere falegnami professionisti sarebbe costata troppo. Ce la siamo cavata riducendo il lavoro a una forma artigianale primaria: sega e sagoma da seguire. Questa è stata l’astuzia. La costruzione era pensata come temporanea, ma ebbe un successo tale che è durata quattro anni.

Ma i detrattori non furono pochi.
Sì, infatti il successo è stato esterno: la città di Lugano non ha mai amato la costruzione del San Carlino. E ha deciso di demolirla, nonostante avessi fatto uno studio per ristrutturarla. Avevo anche proposto di dipingerla tutta d’argento. Così c’è stata, a mio parere, un’altra follia: lo smantellamento è costato il doppio di quanto sarebbe stato necessario per restaurarlo e offrirgli una seconda vita.

Non solo sfide costruttive.
Ho rischiato molto! Era un’avventura ai limiti della legalità. Il lago in Svizzera è sacro: non ci si può costruire. Quindi abbiamo dovuto fare finta che fosse una zattera, ma la zattera deve galleggiare e noi per sicurezza abbiamo dovuto ancorarla nel lago... per fortuna ho avuto la complicità del vecchio sindaco. Ad esempio, per posare il lanternino, all’ultimo momento, abbiamo fatto venire dall’altro lato del Gottardo una gru potentissima. Ma ci siamo accorti che non poteva arrivare al bordo del lago perché c’erano gli alberi! Allora ho detto al sindaco: guarda che dobbiamo tagliarli… Lui ha risposto: «Tu non hai parlato con me e io sono in montagna» (ride) e così ho dato l’ordine di procedere. Il passaggio del convoglio con la gru dalla galleria era previsto alle 4 del mattino; alle 4:30/5:00 entrava in una Lugano ancora addormentata. Abbiamo disposto una squadra che, mentre avanzava, segava le piante e rimetteva a posto l’asfalto. Perciò, molta gente che si recava al lavoro non si è neppure accorta dei tronchi tagliati! Per la verità, avevo anche l’attenuante che le piante erano malate, e infatti, anche se solo alcuni mesi dopo, hanno tagliato anche le altre... era comunque palese che fosse un colpo di mano galeotto! Ho rischiato... non c’era altra soluzione.

Che rapporto c’è tra l’originale e la copia?
Ti dico che cosa ho imparato e che cosa secondo me è stato alla base del suo successo, con un milione di visitatori e tutte le riviste che ne hanno parlato. Quando lo devo spiegare dico che è un po’ come il caso di Andy Warhol mentre dipinge il ritratto di Marilyn Monroe: è evidente che quella che guardiamo sia l’attrice americana, ma Warhol non ne rifà l’immagine esatta; il linguaggio che usa è quello della caricatura. Il «modello» del San Carlino è nato quindi come una riproduzione libera dell’opera reale. Tuttavia, il fatto che fosse alla scala 1:1 e che quindi si confrontasse con la città, l’ha trasformato: nato come rappresentazione, è diventato realtà. E in questa ambigua differenza risiede, io credo, la chiave di volta della traslazione che abbiamo fatto, e anche la sua magia.

«Archi» 6/2020 può essere acquistato qui, mentre qui si può leggere l'editoriale con l'indice del numero.

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