Svi­z­zera e Af­ri­ca: uno sguar­do bi­la­te­ra­le

Con il suo nuovo numero, «Archi» esplora come alcuni studi d'architettura svizzeri si siano confrontati con varie regioni dell'Africa, tra progetti nati nell'ambito della cooperazione allo sviluppo, mandati istituzionali e iniziative individuali.

Publikationsdatum
01-04-2020
Tomà Berlanda
Architetto USI, professore all’Università di Città del Capo

L’idea di dedicare un intero numero di «Archi» agli scambi tra Svizzera e Africa nel campo dell’architettura (e nei suoi dintorni) nasce grazie a un dialogo a distanza tra Mendrisio e Città del Capo. Per entrare nell’argomento vale forse la pena raccontare due storie che collegano la nazione elvetica con la punta meridionale del continente africano. La prima è quella evocata dall’immagine di apertura: quattordici arcate di legno lamellare, che simboleggiano i 14 capitoli della costituzione sudafricana, formano il cosiddetto «Arch for Arch», letteralmente l‘Arco dell’arcivescovo, e sorgono all’angolo dei Company’s Garden, tra la Cattedrale di San Giorgio e il Parlamento. Inaugurata nel marzo 2018, la struttura lignea che celebra gli sforzi dell’arcivescovo Desmond Tutu nella lotta di liberazione del paese è un progetto frutto della collaborazione tra Snøhetta e Local Studio, ma reso possibile solo grazie al lavoro di un’impresa di costruzioni in legno fondata da un carpentiere svizzero a Città del Capo, Swissline Design.

Podcast: ascolta a questo link il curatore Gabriele Neri che presenta «Archi» 2/2020 ai microfoni de «La rivista» di Rete Due.

Parallela e simile alla prima è la seconda storia, quella di Urs Schmid, architetto di Aarau che, dopo aver collaborato con lo studio di Frei e Moser, emigra in Sudafrica nel 1969. Qui, dopo vent’anni di diverse collaborazioni fonda, insieme a Carin Smuts, CS Studio. Una preziosa monografia, edita da Pierre Frey per Actes Sud nel 2016, ne ripercorre i progetti. Quello che emerge dai due aneddoti è il faticoso e necessario lavoro di attivismo ed esperienza tecnica nella lotta per dare dignità al processo di emancipazione e costruzione di nuovi futuri.

In particolare, ciò che affiora collegando frammenti e indizi è l’esistenza di un notevole numero di esperienze, teoriche e progettuali, che mettono in collegamento questi due contesti. Dalle università agli studi di progettazione, dalle istituzioni pubbliche agli artisti, sono infatti molteplici le relazioni coltivate negli ultimi anni.

Si tratta di relazioni asimmetriche e spesso puntuali, squilibrate e talvolta marginali, per innumerevoli ragioni: per la grandezza ed eterogeneità del continente africano rispetto alla compattezza elvetica; per il diverso tipo di obiettivi (e risorse) sottesi a ogni singola iniziativa; per le differenze culturali, climatiche, geografiche, politiche, sociali che inevitabilmente mettono al centro dello sguardo la questione dell’estrazione di risorse.

Nonostante l’eterogeneità di questi casi, è tuttavia la loro consistenza a produrre una sorta di massa critica capace di stimolare riflessioni diverse, e che proprio lo «squilibrio» dimensionale rende più evidenti. Quali sono i criteri con cui l’emisfero settentrionale guarda verso sud, nell’ambito della pratica e della ricerca architettonica? Quali sono i problemi o i temi che emergono dal tentativo (o dalla pretesa) di esportare un certo tipo di saperi e prospettive da una parte all’altra del mondo? E dall’altro lato, come vengono interpretate la proverbiale precisione ed efficienza elvetica nel contesto africano, e come contribuiscono alla costruzione di immaginari architettonici?

Simili domande emergono nel primo saggio, concepito come inquadramento critico che idealmente estende lo spazio di questa introduzione, riassumendo le ragioni del numero in quattro punti. In particolare, la riflessione su progetti e scambi dell’ultimo decennio si pone all’interno di un orizzonte temporale più lungo.

La storia è il legame con il secondo saggio, che guarda all’indietro nel tentativo di documentare quella timida ma significativa apertura verso l’Africa che alcuni progettisti ticinesi ebbero negli anni dell’indipendenza africana. Le due esperienze di Tita Carloni qui ripercorse, piccole e praticamente inedite, paiono interessanti proprio per il loro grado di marginalità e mancanza di esiti concreti: due scintille senza particolari effetti, ma sintomatiche di una tensione in atto.

Il terzo saggio è invece di carattere ben diverso: Alfredo Brillembourg racconta infatti gli esiti di un progetto di ricerca, progettazione, partecipazione e costruzione che il gruppo Urban Think Tank, con base a Zurigo, ha condotto a Khayelitsha, la più grande township del Sudafrica. La sfida tecnologica, sociale, costruttiva, e in qualche maniera politica, è emblematica di un modello di coproduzione e immaginazione nella risposta architettonica della costruzione di edilizia residenziale alle sfide di marginalizzazione, povertà e crescita demografica.

Seguono quattro progetti che restituiscono tre filoni principali nella costruzione delle opportunità di operare nell’Africa subsahariana.

Il primo è quello istituzionale. Se infatti da un lato la Svizzera è rimasta sempre esterna e neutrale alle traiettorie coloniali, è proprio per questo che non ha mancato di cogliere le opportunità di giocare un ruolo attivo nel continente. Ciò è reso evidente dal vasto programma di ammodernamento delle rappresentanze diplomatiche, di cui presentiamo le due esperienze costruite più recenti, in Costa d’Avorio e Kenya. In maniera diversa, e più ambigua, la consistenza degli interessi svizzeri in Africa emerge anche dal lavoro storico/artistico di Denise Bertschi, intervistata nelle prime pagine di questo numero.

Il secondo è quello della cooperazione e sviluppo. Il know how di SKAT, società privata che opera con i fondi della cooperazione svizzera, ci racconta infatti di un lavoro puntale che intreccia diverse competenze disciplinari attorno alla costruzione di reti infrastrutturali, a sostegno dell’esigenza primaria della casa.

Infine il ruolo degli architetti, come nel caso di Nomos, studio ginevrino di laureati dell’Accademia di architettura di Mendrisio, che, a fianco della più convenzionale attività professionale sul territorio nazionale, ha voluto inventare e scoprire occasioni di progetto e costruzione in Burkina Faso, per contribuire a creare spazi della salute dignitosi e umani.

Frammenti, insomma, di un mosaico enorme, difficilmente rappresentabile nella sua interezza, ma dai cui dettagli emergono spunti preziosi per immaginare maniere di ridurre la distanza tra le due realtà.

Mendrisio/Cape Town, marzo 2020

«Archi» 2/2020 può essere acquistato quiQui puoi invece leggere l'editoriale con l'indice del numero.

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