Ti­ta Car­lo­ni ar­chi­tet­to e uo­mo po­li­ti­co

«...in fondo noi avevamo creduto alla modernità come a una cosa risolutiva, quasi a sé stante. Avevamo avuto scarso interesse per la storia ed ecco invece che ora appariva chiaro che bisognava incominciare a scavare lì, che di lì sarebbero venuti stimoli, cose interessanti. E questo è stato uno dei fattori che ha dato al Ticino, in quel momento, una supremazia culturale rispetto agli svizzero-tedeschi...».1 (Tita Carloni, intervista del 2010)

Data di pubblicazione
22-12-2014
Revision
19-10-2015

Architettura e politica

Su Wikipedia Tita Carloni viene definito «architetto e politico svizzero-italiano». È vero che fu entrambe le cose, ma, a mio parere, tra le due funzioni c’è un legame di subordinazione. Divenne anche politico perché come architetto, dopo casa Balmelli a Rovio (1956-1957), dopo quelli che lui ha definito «gli anni del successo» (1957-1960) e dopo l’esperienza dell’Expo di Losanna del 1964 (1960-1964), seguendo gli insegnamenti di Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Manfredo Tafuri, si appassionò alla morfologia urbana, alla storia delle città.

Il Ticino sembrò accogliere questi stimoli e il Cantone diede mandato ad alcuni architetti di studiare la formazione e la trasformazione delle nostre città e dei nostri villaggi. L’architetto Carloni si impegnò a realizzare il grande rilievo di Bellinzona, mentre Luigi Snozzi lo fece a Locarno e altri, con la collaborazione di Aldo Rossi, fecero i rilievi di alcuni villaggi ticinesi. Successivamente lo troviamo impegnato in un’altra ricerca storica parallela. In margine alle cerimonie per il 150° del Cantone (1953), il Gran Consiglio aveva votato l’istituzione di tre musei cantonali di cui uno a Bellinzona dedicato alla storia della nostra regione.

Dando seguito a quel voto nel 1962 il Consigliere di Stato Franco Zorzi incaricò Virgilio Gilardoni e Tita Carloni, ai quali si aggiunse Plinio Martini, «di studiare con sollecitudine il problema dell’adattamento di Castelgrande quale sede del museo delle arti e delle tradizioni popolari del Ticino». Gilardoni aveva un’idea ben precisa del concetto sul quale doveva basarsi quel museo, un concetto che Carloni, nel 1989, riassume in questi termini: «Gil se n’è andato senza lasciarci quell’opera che egli avrebbe dovuto (voluto ) scrivere e non scrisse mai. Penso alla storia sociale e culturale delle terre cisalpine, grosso modo dalla Valsesia alla val Seriana dentro la quale i confini del Cantone Ticino si ritagliano come una specie di bizzarro incidente storico [sic]. Una simile storia avrebbe narrato ... con grande ricchezza documentaria la vita delle classi subalterne e le vicende dell’arte popolare e rustica, avrebbe descritto l’organizzazione del territorio e del lavoro, avrebbe analizzato a fondo monumenti maggiori e minori di tre grandi epoche: romanico, barocco e ottocento. Questa storia avrebbe avuto un taglio trasversale, descrivendo nello stesso tempo la complessità e le omologie dei rapporti culturali e sociali che hanno legato per secoli valli e centri di una specie di grande regione omogenea subalpina che oggi gli economisti sembrano riscoprire per tutt’altre ragioni ... ma una visione di questo tipo non poteva non entrare in conflitto con quella limitata dell’elenco ufficiale dei monumenti, e con un certo piccolo nazionalismo ticinese.2

Come riconosce lui stesso, la collaborazione con Gilardoni, le polemiche e le difficoltà incontrate ebbero anche un effetto secondario: «svegliare in me l’interesse per la politica». Non per rivalsa, ma perché quello che era capitato per il museo lo fece disperare di poter modificare il «quieto sistema di rapporti politici-burocratici-amministrativi che paralizzava il Ticino» impedendogli di affrontare in modo moderno il grande cambiamento in atto nella nostra società negli anni ’60 e ’70, non solo per quel che riguarda i monumenti, ma per tutto il problema dell’uso del territorio, dei suoi contenuti e del suo sviluppo.

Il buon senso e il senso comune

Carloni non era alieno al compromesso. Lo aveva dimostrato già negli anni della sua esperienza all’Expo, quando ebbe a che fare con gli sponsor del padiglione che gli era stato affidato che andavano dall’industria farmaceutica, a quella dei tessili, della moda e del turismo. Ma non accettava, come molti altri giovani di quegli anni, il soffocante clima di condizionamenti, di clientelismo e di conformismo che pur caratterizza spesso il comportamento degli individui in ogni società salvo rari momenti di riscossa morale e culturale. Era una persona di «buon senso», che non si rassegnava al «senso comune», a un modo di pensare accettato aprioristicamente, senza analisi critica, semplicemente perché è il modo di pensare di (quasi) tutti.3

Il contesto

I primi decenni del dopoguerra (1945-1975) furono anni di grandi cambiamenti in tutta l’Europa occidentale, Ticino compreso. Cresceva l’economia, esplodevano i consumi e, parallelamente, si sviluppava lo Stato sociale. Per ragioni storiche e culturali tuttavia il modello di sviluppo ticinese fu particolare. Pompeo Macaluso nella sua Storia del PSA, ha chiamato questo modello «broker capitalism», intendendo con questo termine una economia «incarnata dal finanziere, dal mercante e dall’avvocato piuttosto che dall’imprenditore». Una economia – per dirla con Basilio Biucchi – «che privilegiava gli affari triangolari e di confine». Questi affari si concretizzavano soprattutto con tre tipi di speculazione. Quella fondiaria con le opere pubbliche a rimorchio degli interessi privati, quella finanziaria grazie alla fuga dei capitali dall’Italia e quella industriale con bassi investimenti fissi e lo sfruttamento (già allora) dei frontalieri sottocosto.

La politica, in un sistema nel quale praticamente tutti partecipavano al governo, dopo aver introdotto qualche elemento di modernità a livello di scuola, di risorse energetiche, di infrastrutture e di socialità, si era adagiata a questo modello di sviluppo, ripartendone i benefici nella popolazione in base ai rapporti di forza elettorali. I posti di lavoro, le prospettive per i figli e gli appalti pubblici venivano gestiti con un occhio molto attento alla appartenenza partitica, in genere trasmessa per tradizione di famiglia. I partiti venivano poi finanziati soprattutto con dei versamenti per appalti o altri favori ricevuti e chi non conosceva questa prassi l’imparava a proprie spese.

Quando il Cantone si trovò confrontato con i problemi prodotti dai grandi cambiamenti di quegli anni, con le inquietudini di una gioventù cresciuta nelle Università a contatto con la modernità dei Cantoni più avanzati, affascinata dai nuovi messaggi dell’America dei Kennedy o della Chiesa del Concilio Vaticano II, la politica ufficiale non aveva né la volontà, né la capacità di affrontarli in modo trasparente e razionale. Si creò quindi una frattura generazionale che il 29 giugno 1968, l’anno delle rivolte giovanili in Europa e negli USA, portò un gruppo di persone, in genere giovani, a dar vita a un Movimento denominato «di opposizione politica» (MOP). Alle riunioni del mop, accanto a pochi «anziani» parteciparono molti ventenni e trentenni (di sesso maschile) di ogni famiglia politica, giovani «che poi si fecero conoscere nelle istituzioni, nella cultura, nei media, nella professione». Tra di loro vi era anche Tita Carloni.

L’impegno politico di Tita Carloni: dal Partito Conservatore, al MOP al PSA

Tita Carloni nel 1961 era subentrato in Gran Consiglio per il Partito conservatore (era il partito del padre). Lasciò quella carica nel corso dello stesso anno. Più tardi, assieme a Plinio Martini lasciò anche il Partito conservatore e per entrambi la scelta fu «l’adesione appassionata al socialismo».4

Nel 1968 troviamo Carloni tra i compagni del PST che avevano aderito al MOP. Un’esperienza effimera (l’ultima riunione del MOP ebbe luogo il 22 dicembre 1968) ma il cui spirito lasciò una traccia significativa soprattutto nella collaborazione (indiretta) tra alcu- ni giovani architetti (Buzzi, Carloni, Krähenbühl, Galfetti, Snozzi) e alcuni politici di appartenenza politica diversa (Cotti, Guglielmoni, Martinelli e Scacchi) sul progetto di legge urbanistica. Un progetto proposto da Zorzi nel febbraio del 1964, e che giunse in Gran Consiglio accompagnato da un rapporto critico e da nuovi incisivi articoli di legge frutto di quella collaborazione. La Commissione speciale del Gran Consiglio approvò all’unanimità (un astenuto) il rapporto e i nuovi articoli e altrettanto fece il Gran Consiglio con solo tre voti contrari (UDC).

Lo spirito di quegli anni di grandi speranze aveva quindi marcato presenza ai massimi livelli istituzionali cantonali, ma aveva anche segnato la fine del percorso di modernizzazione del Cantone. La Legge urbanistica venne infatti sonoramente bocciata in votazione popolare (il 20.4.1969 con 19.284 no e 8.938 si ). È probabile che la causa di quella bocciatura sia stata soprattutto la proposta dei «giovani» – fatta propria da Governo e, in forma attenuata, dal Gran Consiglio – di limitare drasticamente l’edificazione nelle zone non urbanizzate. Il consigliere di Stato Righetti in Gran Consiglio definì quell’articolo «il cuore e il sangue della legge», ma il popolo la pensò diversamente. Come ebbi a dire concludendo una conferenza all’orl del Politecnico federale di Zurigo «i ticinesi, per i quali fino ad allora ogni superfice priva di bosco era potenzialmente edificabile, preferirono mantenere un disordine dal quale alcuni avevano tratto grandi benefici e molti altri speravano trarne in futuro a un ordine dal quale temevano di restare esclusi». Sarà poi la Confederazione con la legge sulla protezione delle acque a reintrodurre d’imperio il divieto di costruire dove non esistevano le infrastrutture di urbanizzazione.

Carloni e il PSA

L’idea di una programmazione economica cantonale lanciata da L. Olgiati (1962), l’analisi della situazione economica del Ticino con il rapporto Kneschaurek (1964), il progetto di legge urbanistica proposto da Zorzi (1964-1969) e le discussioni e le proposte che ne seguirono furono i tentativi più avanzati, purtroppo falliti, di costruire una risposta moderna ai problemi posti dal grande sviluppo degli anni ’60 e ’70. Molto oltre (fatta eccezione per alcuni ricuperi tardivi) la politica non fu in grado di andare perché la struttura economica e gli interessi dominanti glielo impedirono. Dopo l’effimera esperienza del MOP, la risposta sul piano politico-partitico a questa impotenza fu la scissione del PST e la fondazione del PSA (27.04.1969). Un partito nato con (confusi) propositi rivoluzionari, tanto entusiasmo e tanta buona volontà al quale aderirono molti di coloro che non avevano accettato di arrendersi. Tra di loro vi era anche Tita Carloni che di battaglie per un Ticino aperto e moderno ne aveva già fatte molte.

Anche se proveniva dal Partito conservatore Carloni era tutto fuorché un conservatore. Credeva nel cambiamento purché ragionato e controllato, ma, da quando Gilardoni l’aveva convinto a occuparsi di politica, credeva anche in un progetto di società che mirasse a costruire un futuro centrato sui produttori (i lavoratori in senso lato) con una ripartizione più equa delle risorse, delle opportunità e delle responsabilità e basato sulla conoscenza e il rispetto del passato e del paesaggio. Nel PSA fu accolto con rispetto, con riconoscenza e con affetto. Malgrado che il suo impegno all’Università di Ginevra lo obbligasse spesso a essere lontano dal Ticino, negli anni dal 1969 al 1976 rappresentò per i compagni un punto di riferimento fondamentale sia per il lavoro di rielaborazione della strategia del Partito, sia per il lavoro parlamentare. Fece parte dell’Ufficio politico del Partito dal 1970 al 1975. Furono anni decisivi per la lunga marcia che doveva portare il PSA dalle posizioni iniziali riconosciute poi come «schematiche, ancorate a definizioni vecchie di 100 anni e difficili da tradurre in termini operativi»,5 alla strategia delle riforme e al superamento (non più rovesciamento) del sistema capitalistico del III Congresso del 6 novembre 1977.

Nel 1974 Carloni fece anche un viaggio con la scuola di Ginevra in Cina, dal quale ritornò impressionato. Ne fanno fede i (bellissimi) manifesti di ispirazione «cinese» che egli disegnò per le elezioni del 1975 e del 1976 e che troviamo riprodotte su «Politica Nuova».6

Le esperienze di Carloni nelle istituzioni

In occasione delle elezioni del 1971 nella lista del PSA Carloni giunse quarto subito dopo i leader storici usciti dal PST. Con lo stesso piazzamento venne poi rieletto nel 1975. Due anni e mezzo dopo, nel novembre 1977, si dimise perché l’impegno all’Università di Ginevra, dove era diventato direttore, non gli permetteva più di mantenere entrambi i ruoli. Nel 1983 fu candidato unico della sinistra per gli Stati dove ottenne quasi 18.000 voti pari al 18% dei votanti.

Nei sei anni di permanenza nel legislativo cantonale Carloni partecipò intensamente alle numerosissime riunioni di gruppo (eravamo degli stakanovisti della politica) e intervenne nel plenum e nelle Commissioni sui problemi legati al territorio, sulle contraddizioni del sistema ospedaliero sussidiato dal Cantone (l’EOC verrà creato solo nel 1982), sulla riforma tributaria del 1977 e sulla scuola. In particolare fu il relatore di minoranza sul progetto di creazione della scuola me- dia unica con un rapporto memorabile.7

Tita Carloni: un maestro e un amico

Tita Carloni fece delle scelte coraggiose e coerenti che pagò duramente. Dopo la vicenda dei castelli di Bellinzona che già aveva generato per lui «aria grama», con la sua entrata nel psa prima e in Gran Consiglio poi, il Berufsverbot nei suoi confronti divenne praticamente totale. Era il clima di quegli anni. Dopo la pubblicazione da parte del «Dovere», ripresa da «Libera Stampa», di onorari e stipendi pagati dallo Stato a Carloni, Carobbio, Martinelli e Snozzi, alcuni influenti membri della Commissione della gestione del Gran Consiglio chiesero al Consiglio di Stato di togliere ogni mandato che comportasse onorari a persone iscritte al PSA. Il Governo si adeguò e, a ruota, seguirono i Comuni e la Confederazione.

Nel Partito era molto amato e rispettato per la grande cultura, per la chiarezza e la capacità di sintesi, per l’impegno che ha sempre messo in qualsiasi compito si fosse assunto o gli fosse stato assegnato e per la sua grande umanità.

Dopo la svolta socialdemocratica del psa (1980) e, soprattutto, dopo l’entrata in Consiglio di Stato (1987), il Berufsverbot venne a cadere e molti compagni poterono ricuperare a pieno titolo il proprio ruolo professionale, guardando con orgoglio a un percorso di denunce e di proposte fatto a viso aperto, a una evoluzione fatta senza abiure, con onestà intellettuale sulla base dell’esperienza acquisita e di un’analisi disincantata della realtà. Un percorso che portò il PSA dalle iniziali confuse intenzioni rivoluzionarie a progetti di riforma da realizzare con pragmatismo.

Forse chi più faticò a ristabilire i contatti con il mondo che, dopo la scelta del PSA, gli aveva voltato le spalle fu proprio Tita Carloni. Le ferite che aveva subìto e la delusione per un Cantone che aveva devastato e spesso continuava a devastare il territorio probabilmente erano troppo profonde. Gli ultimi anni li utilizzò soprattutto per descrivere con articoli, in seguitissime conferenze e nella interviste alla televisione, in modo magistrale spesso con elegante ironia, i dettagli di questa irrazionale devastazione e per difendere quello che ancora si poteva difendere. Grazie alle sue capacità di comunicatore era diventato la coscienza critica del nostro territorio.

Note

  1. Cfr. «Archivio storico ticinese», n. 149, giugno 2011, p. 50.

  2. Cfr. «Politica Nuova», 10.11.1989 (ricordo di V.Gilardoni).

    Carloni ammette che Gilardoni aveva un carattere difficile, «faceva alla sua maniera anche un po’ disordinata,
    ma intensiva». Era sostenuto da Zorzi, ma Zorzi morì in un incidente di montagna nel 1964, e Righetti, che prese il suo posto, cercò di costringerlo all’interno di un programma, di costi e di scadenze precise. Inoltre c’era chi rifiutava Gilardoni per ragioni politiche (era comunista), e chi non condivideva l’impostazione che aveva dato alla sua ricerca. L’occasione per estrometterlo, assieme ai suoi colleghi Carloni e Martini (collaboratore nella ricerca), si presentò a seguito di una lite con l’archivista cantonale sfociata in accuse, denunce e un lungo processo che terminò con un «buon» compromesso che fornì al Gran Consiglio il pretesto per chiedere la liquidazione di tutta la squadra per non aver rispettato i termini («realizzare con sollecitudine...»). Probabilmente le idee e il mancato rispetto delle gerarchie avevano fatto nascere all’apparato politico-amministrativo il sospetto che tutte e tre fossero dei sovversivi – «intellettuali disubbidienti», scriverà Carloni (Pathopolis, p. 126). A questo punto, dice ancora Carloni nell’intervista, «ho cominciato a vederla grama», non fu pagato per il lavoro sui Castelli e venne escluso dalla progettazione del nuovo Ospedale di Mendrisio.

  3. I concetti di «senso comune» e di «buon senso» sono sintetizzati in modo folgorante dal Manzoni nel capitolo sulla peste dei suoi Promessi sposi, là dove afferma: «... c’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa ... quindi il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Carloni quella paura non l’aveva, per cui il suo «buon senso» non rimase nascosto.

  4. È lui stesso che racconta in Pathopolis (p. 16) quando e come lasciò il Partito conservatore. Dopo aver citato il giudizio severissimo di Martini sul Ticino politico, Carloni ricorda una «incredibile riunione domenicale a Bellinzona nella quale Alberto Stefani aveva radunato un certo numero di intellettuali di origine conservatrice in odore di dissidenza e, rivolgendosi a loro con l’epiteto di “cavalieri erranti” aveva detto pressappoco: nella cultura fate quello che volete, ma nella politica non uscite, per favore, dal seminato... È evidente – conclude – che su simili esortazioni tipi come Plinio Martini e come me avrebbero rovesciato il tavolo. Non lo facemmo perché l’educazione antica ci aveva reso troppo rispettosi, ma uscimmo immediatamente dal locale e non ci rividero mai più». 

  5. Cfr. «Lotta con il psa», n. 3 : «Il psa dalla costituzione a oggi», 1977 (documento precongressuale).

  6. Il suo giudizio sulla Cina sembra essere poi diventato più critico se pensiamo a quanto scrive in Pathopolis (p. 58): «... a proposito del rapporto tra uomo e territorio il socialismo da solo, rosso o giallo che sia, non ci dà grandi garanzie. Sarà meglio farci su un pensierino!».

  7. Cfr. Verbali del Gran Consiglio, sessione primaverile 1974, pp. 1051-1077.

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